Mai finita la guerra contro i nativi americani
articoli di Mosè Carrara Sutour, Alessandro Ghebreigziabiher e Marco Cinque con un rimando a Lance Henson e un link alle riflessioni del capo indiano Hopi Aquila Bianca
Indian childhood: la tragica “riabilitazione” subita dai piccoli nativi americani in Canada
Il caso dei bambini indigeni internati nelle Indian Residential Schools e il ritardo storico sull’ammissione degli orrori commessi in quelle “scuole speciali”
di Mosè Carrara Sutour (*)
Una delle cose più dure che ho condiviso con mio padre fu ascoltarlo parlare delle Indian Residential Schools [IRS, ndr]. Mi ha raccontato ogni cosa… gli abusi, le sofferenze provate. Per me è stata una prova pesantissima, l’ho visto piangere. Sapevo che la sua era una ferita aperta, che era in collera. A queste parole, Randal, figlio di Elmer Courchene (1936-2018), aggiungeva che il padre, al momento della confessione, gli chiese di non rivelare mai a nessuno quanto accaduto tra le mura della “Fort Alexander” (riserva di Sagkeeng, Manitoba, 1906-1970) e della “Lebret” (Saskatchewan, 1884-1998) scuole speciali destinate agli “indigeni”, gestite dai Missionari oblati di Maria Immacolata e (nel secondo caso) dalle Suore Grigie, dove fu trasferito da bambino.
Più noto come “Standing Strong Man”, Courchene, di professione saldatore e portavoce della Sagkeeng First Nation, era membro dell’“Assemblea delle Prime Nazioni”, organizzazione modellata sull’ONU che riunisce oltre 630 comunità native canadesi per circa 900.000 persone. Consigliere in seno alle principali rappresentanze native del Manitoba, impegnato con la moglie Delores nella lotta all’abuso di droghe da parte dei più giovani, era, soprattutto per questi ultimi, un esempio di integrità.
Violenza istituzionale e piani di lettura incrociati
A fine maggio correva sui media la notizia dei resti di 215 bambini, alcuni di soli 3 anni, rinvenuti in una fossa comune scavata sotto la Kamloops Indian Residential School (Columbia Britannica). Mentre i dati raccolti dalla “Commissione per la verità e la riconciliazione” – TRC, istituita nel 2008, che in un Report del 2015 riferisce di almeno 6000 morti tra gli internati, senza contare le “sparizioni” – ricevevano ulteriore convalida, due immagini fotografiche appartenenti a secoli diversi sembravano galleggiare insieme in un tempo sospeso. Nella prima, scattata nel 2003, vediamo Elmer Courchene che celebra una cerimonia di purificazione in occasione della nomina a Primo ministro del liberale Paul Martin. L’altra fotografia è del 1885, anno della cosiddetta “Ribellione del Nordovest” contro il Governo federale canadese (e dell’impiccagione del leader métis Louis Riel), e ritrae i tepee dei familiari dei bambini piantati fuori dai cancelli di un istituto scolastico a Lebret.
Entrambe le immagini sono emblematiche e portano all’intersezione drammatica di due contesti, che riportano alle finalità per cui la Commissione fu istituita:
– quello dell’incontro culturale, che trova un momento di riconciliazione nel sincretismo politico-istituzionale: la tradizione, che il passato voleva estirpare, rende omaggio al potere costituito ma sceglie di farlo a modo suo, in un momento di pubblica solennità;
– il contesto privato delle storie personali: verità sepolte dietro ai muri di architetture erette per isolare prima di assimilare, finanziate dalla Confederazione e amministrate dalla Chiese (cattolica, ma anche anglicana e unita del Canada);
– luoghi sovraffollati, carenti di igiene e di manutenzione, pronti a bruciare facilmente; storie di torture e abusi sessuali, di fughe e annegamenti, di ricatti ai familiari per evitare la denuncia; tragedie che non hanno più attori o che stentano – per chi è sopravvissuto – a uscire dall’ombra in cui si sono consumate, in un angolo cieco della memoria.
Il secondo contesto rimanda al primo: qual è, pensando al vissuto di Standing Strong Man, il senso del gesto che compie nella foto a colori del 2003? Fuori da ogni rimozione o amnesia infantile, le simboliche della politica possono aiutarci a ripensare il futuro accettando di vivere nel presente, senza dimenticare? Senza l’incidenza reciproca di entrambi i piani di lettura, saremmo “fermi” allo choc collettivo della scoperta: i corpi ritrovati, l’indignazione puntuale, pronta a ripetersi… Eppure i dati risalgono a ritroso il flusso temporale: 150.000 bambini furono sottratti alle famiglie native tra il 1863 e il 1998; tra le vittime, oltre 4100 sono state identificate dal “Missing Children Project” della TRC, mentre le cause legali che hanno portato a un risarcimento, nel periodo 2008-2017, sono più di 36.000. Già nel 1914 – si legge nell’introduzione al Report del 2015, vol. IV, p. 4 – un funzionario dipartimentale riferiva che «il 50% dei bambini che hanno fatto ingresso in queste scuole non è vissuto abbastanza a lungo da trarre beneficio dall’istruzione in esse ricevuta». Di fronte ai benefici promessi ai futuri “nuovi canadesi”, è sufficiente parlare di un debito della società bianca? Di «capitolo vergognoso» (Trudeau) o di “conto aperto” con la Storia? E, soprattutto: esiste un termine all’archeologia degli orrori di Stato?
«Kill the Indian and Save the Man» o la pedagogia dell’oppressione
Come riporta Paula Larsson (Lessons in Race: Curriculum in IRS, 1900-1966, in History of Intellectual Culture, n. 1/2016), il programma educativo delle IRS poggiava, rafforzandola, sull’oppressione di una “minoranza aborigena” da “civilizzare” in nome dei valori della tradizione cristiana, per formare futuri cittadini. Ad assistere questo ideale troviamo una triangolazione classica del potere (oltre alla Chiesa: gli amministratori e le forze di polizia, braccio esecutivo dell’Autorità nelle traduzioni forzate, ma anche nell’inazione di fronte agli abusi commessi) assistita da una visione ossessiva dell’“indianità da estirpare”, la stessa applicata negli Usa dal Generale R.H. Pratt (1840-1924).
Prima di fondare con successo una scuola tecnica per nativi a Carlisle (Pennsylvania), dal 1975 al 1978 Pratt esortò i “suoi” detenuti di Fort Marion (Florida) a disegnare, per convertirli in “studenti”. Contrario alla segregazione, a Carlisle adottò il seguente motto: «Kill the Indian and Save the Man» («Uccidi l’Indiano e salva l’Uomo»)… “Gradualmente”, aggiungiamo per il Canada, citando il titolo della seconda legge approvata dal Parlamento canadese in materia di assimilazione (Gradual Enfranchisement Act, 1869), che avrebbe giustificato l’emancipazione dal proprio nome e dalla propria lingua, il controllo sulle terre nelle riserve e, più tardi, nel 1894, quando un emendamento dell’Indian Act (1876) la rese obbligatoria, la scolarizzazione dedicata ai bambini delle First Nations… Per “salvare l’Uomo”.
[I disegni di Fort Marion sono esposti al National Museum of the American Indian di Washington, DC – ndr].
(*) ripreso da «Fuori Binario» numero 231 (ESTATE 2021). «Fuori Binario» è un giornale “di strada” nato a Firenze.
Se Joyce Echaquan fosse stata bianca
di Alessandro Ghebreigziabiher (**)
Ecco. Questo credo dovremmo fare tutti, ogni qual volta ci troviamo di fronte a storie di vita particolarmente drammatiche, attuali e quanto mai significative: immedesimarci.
È l’unico modo per provare a immaginare sensazioni, per capirci qualcosa, per cambiare in meglio e crescere.
Coraggio, proviamoci insieme, facciamoci forza reciprocamente e per qualche secondo diventiamo lei.
Ora, in questo preciso istante, siamo una donna di nome Joyce.
Ci troviamo in Canada, precisamente a Joliette, nella regione di Lanaudière della provincia del Québec. Ma tu leggi pure nella terra che vide i primi esseri umani almeno undicimila anni fa, i Paleoamericani, ovvero gli avi delle popolazioni indigene nel territorio, le Prime Nazioni e gli Inuit.
Abbiamo 37 anni e stiamo male.
Siamo una donna con meno di quarant’anni e viviamo in un paese che si trova attualmente al 21esimo posto tra i più ricchi al mondo, sopra Regno Unito e Giappone.
Stiamo molto male e abbiamo ben sette figli.
Come miliardi di donne prima di noi e anche dopo su questo pianeta, anch’esse madri, nonostante tutto è essenzialmente per loro che siamo preoccupate.
Si dà il caso che abbiamo da un po’ dei problemi cardiaci e il tormento oggi è stato troppo forte per non recarci in ospedale.
Perché è in tali luoghi che si va quando il corpo urla e chiede aiuto.
È esattamente ciò che cerchiamo di far capire a chi di dovere, sacrosanto dovere: sentiamo dolore, troppo forte per non mollare tutto e venire qui a cercare conforto.
Tuttavia, accade qualcosa di incredibilmente sbagliato, ma potremmo anche chiamare orrendo. Anche se la definizione più azzeccata e al contempo scomoda è inevitabile, visto come abbiamo scelto di connetterci nella trascurata rete chiamata moderna umanità.
“Sei stupida da morire”, ci dice una delle signore di bianco vestite, mentre ci contorciamo sul letto per gli spasmi nella stanza diventata improvvisamente l’ennesima sala delle torture sistemiche.
“Hai finito di comportarti da stupida?” aggiunge un’altra, come a dire: non è un caso, non si tratta della solita, abusata, unica mela marcia.
Il fatto, ovvero l’infamia più legalizzata al mondo, è che dal momento del nostro ingresso nella apparentemente salvifica struttura ci hanno subito identificato come una tossicodipendente.
Perché l’abito non fa il monaco, ma laddove sia di bruna pelle intessuto, ancora oggi fa di tutto pur di distruggere vite e serenità.
Ciò malgrado, nonostante l’incredulità e la frustrazione, insistiamo a domandar sollievo dalla pena che ci sta dilaniando, ignorando che ad averci condannato non è stato il nostro cuore malato, bensì quello ormai defunto del prossimo in cui ti puoi imbattere ovunque, perfino nei luoghi più inattesi.
“Hai fatto delle scelte sbagliate, mia cara”, osserva indifferente alla nostra sofferenza una delle infermiere. “Cosa penseranno i tuoi figli vedendoti così?”
E noi piangiamo e ci lamentiamo invano, e pensiamo ai nostri bambini, quelli ancora troppo piccoli per tutto ciò che sarebbe troppo per chiunque.
“La smetti di scherzare?” dice un’altra. “La finisci?”
E la rabbia si mescola alle lacrime, che roventi rigano il nostro volto come i primi rivoli della lava di un vulcano in eruzione.
“Dannazione!” esclama il presunto angelo dal volto ferino. “Tu sei buona solo per fare sesso, più di ogni altra cosa.”
“Specialmente se siamo noi a dover pagare per tutto questo”, ribatte l’altra.
Quindi, alla fine dell’incubo, una delle due – non conta quale, giacché l’inferno in terra è uno ed è sempre lo stesso per le anime nate sfortunate – così sentenzia: “Meglio morta!”
Ebbene, anzi tutto il contrario, è esattamente così che il nostro viaggio dal sentiero ingiustamente troncato si conclude amaramente.
Siamo morte, già.
Il nostro nome era Joyce Echaquan e il referto attesta che in quel maledetto lunedì 27 settembre di un anno addietro abbiamo esalato l’ultimo respiro a 37 anni a causa di un edema polmonare legato a una rara condizione cardiaca.
Poco più di un anno dopo ecco però il responso umano, più che clinico, rilasciato ieri alla stampa dal coroner del Quebec, Géhane Kamel: se fossimo state bianche probabilmente oggi saremmo ancora vive, è il senso del messaggio. E se non avessimo filmato la nostra stessa morte, è altrettanto ragionevole che nessuno si sarebbe presa la briga di indagare.
Se fossimo state bianche, già.
Chissà, forse tu lo sei, a differenza del sottoscritto. Ma adesso, qui, non conta nulla. Poiché, se hai avuto la pazienza, il coraggio e l’amore per una vita che non è la tua di rivivere con me questa inaccettabile tragedia, sono sicuro che entrambi, ugualmente, abbiamo forse imparato qualcosa che potrà aiutarci a diventare delle persone migliori di un attimo fa.
(**) ripreso da «Storie e Notizie» – puntata 1943 – che Alessandro Ghebreigziabiher così presenta: «Il blog Storie e Notizie ha iniziato a muovere i suoi primi passi verso la fine del 2008 e contiene racconti e video basati su reali news prelevate dai maggiori quotidiani e agenzie di stampa on line, al seguente motto: “Se le notizie sono spesso false, non ci restano che le storie”. L’obiettivo è riuscire a narrare le news ufficiali in maniera a volte fantasiosa, con l’auspicio di avvicinare la realtà dei fatti più delle cosiddette autorevoli fonti di informazione. La finzione che superi la verità acclarata nella corsa verso la comprensione delle cose è sempre stata una mia ossessione. “Storie e Notizie” ha un canale Youtube, una sua pagina Facebook e anche la versione in lingua inglese, Stories and News. A novembre 2009 ha debuttato l’omonimo spettacolo di teatro narrazione». Qui in bottega «Storie e notizie» è ospitato – scorrete il colonnino di sinistra in “home” e lo troverete – a ogni uscita.
dipinto di Angela Sterritt tratta da peopleofthelonghouse.tumblr.com
Razzismo e patriarcato in Canada
di Marco Cinque (***)
È finalmente arrivata nei giorni scorsi la notizia del riconoscimento e del “profondo rimorso” dei vescovi cattolici canadesi per il genocidio compiuto nelle residenze scolastiche di migliaia di bambini indigeni occultati in tombe anonime. La notizia dell’ultimo ritrovamento di fosse comuni, nella primavera scorsa, aveva suscitato orrore – almeno per qualche giorno – nei media di tutto il mondo. Molto meno si parla di quel che accade in modo sistematico ancora oggi alle donne di origine nativa nello stesso Canada e naturalmente negli Stati Uniti. Il 4 ottobre, giornata che il maggiore (per superficie) degli Stati nordamericani, ha dedicato alla memoria delle bambine e delle donne assassinate o fatte scomparire, lo hanno fatto le associazioni del Quebec. Ricordando, tra le altre cose, che le statistiche dicono che attualmente le indigene, il 4 per cento della popolazione nazionale, hanno il 25 per cento in più di probabilità di essere uccise delle altre donne canadesi. Non va certo meglio a sud della frontiera, perché – come ricorda Marco Cinque in questo prezioso articolo uscito su Pagine Esteri – il tasso di omicidi sale a più di 10 volte la media nazionale. La proliferazione delle aggressioni e dei femminicidi è legata in buona parte anche a quello che i popoli nativi chiamano “lo stupro della Madre Terra” da parte delle compagnie petrolifere
“Uccidi l’indiano, salva l’uomo” era il razzistissimo motto delle famigerate 119 Residential School canadesi e delle 367 Boarding School statunitensi, il cui intento era già ben chiaro quando, nel 1875, il vescovo Vital Grandin affermava: “Instilliamo in loro un pronunciato disgusto per la vita nativa in modo che vengano umiliati quando viene ricordata la loro origine. Quando si diplomano nelle nostre istituzioni, i bambini hanno perso tutto dei Nativi, tranne il loro sangue”.
Le scuse pubbliche fatte nel 2007 dall’ex premier canadese Michael Harp, a cui si sono poi aggiunte quelle più recenti dell’attuale premier Justin Trudeau, in riferimento ai ritrovamenti dei corpi di più di seimila bambini indigeni occultati in tombe anonime e fosse comuni, hanno messo in evidenza le dirette responsabilità nel genocidio che si è protratto per oltre un secolo, grazie a leggi razziali (alcune ancora in vigore) emanate dagli stessi governi del Canada. Scuse ufficiali invece non sono mai arrivate dalla Santa Sede, che ha gestito direttamente la maggior parte degli istituti religiosi canadesi, trasformati in veri e propri lager finalizzati all’assimilazione forzata delle giovani generazioni native, dove decine di migliaia di bambini, tra i 150mila che vi sono stati internati con la forza, risultano morti o dissolti nel nulla.
Parallelamente al fenomeno criminale che ha prodotto abusi, violenze, stupri, sterilizzazioni e omicidi di bambini nelle Residential School, ce n’è anche un altro non meno tragico riferito alle ragazzine e alle donne native. In una trasmissione della tv nazionale canadese Cbc si apprese di un’indagine condotta dal movimento Walk 4 Justice, che aveva rivelato la scomparsa, gli stupri e gli omicidi di almeno 4232 donne indigene, come confermato anche da un’inchiesta della Nwac (Native Women’s Association of Canada).
Nel febbraio del 2016 salì alla ribalta la tragica storia di Rinelle Harper, una studentessa sedicenne ripescata nuda e in fin di vita tra i fiumi Assiniboine e Red River. L’adolescente indigena era stata ripetutamente violentata da due uomini e gettata nel fiume. Riuscita a tornare a riva, la giovane fu di nuovo aggredita brutalmente, finché restò esanime. Credendola morta, i due uomini la lasciarono alla corrente di un fiume che, per fortuna, non è riuscito a diventare la sua tomba. Poi, nel dicembre del 2017, a seguito dell’incriminazione di Raymond Cormier per l’omicidio della quindicenne nativa Tina Fontaine, ritrovata chiusa in un sacco nel fiume Red River, il primo ministro canadese Justin Trudeau, ormai specializzato in scuse pubbliche, promise solennemente che avrebbe fatto luce su questa mattanza, affermando che “Il livello della violenza contro le adolescenti indigene è una tragedia nazionale. Le vittime meritano giustizia, le loro famiglie un’opportunità per rimarginare le ferite ed essere ascoltate”.
Da allora le ragazzine e le donne indigene continuano ad essere stuprate, uccise e a sparire nel nulla, facendo diventare le solenni promesse governative l’ennesimo mea culpa retorico e inutile. Molte famiglie delle vittime chiedono oggi la riapertura di casi insabbiati o chiusi frettolosamente e ciascuna delle quattromila famiglie indigene che hanno perduto una madre, una sorella, una figlia, è devastata non solo dal lutto e dall’atrocità dei crimini commessi, ma anche dall’omertà che troppo a lungo ha coperto e favorito una strage che poteva essere evitata o almeno contenuta.
Il fenomeno delle donne indigene abusate o scomparse però non è solo canadese, anche negli Stati uniti si verificano gli stessi crimini. Un’inchiesta del Center for Disease Control ha rivelato infatti che quasi l’ottanta per cento delle donne indigene ha subito violenze e almeno il cinquanta per cento di loro è rimasta vittima di abusi sessuali. Secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, le donne indigene in questo paese affrontano tassi di omicidi che sono più di 10 volte la media nazionale. L’omicidio è la terza causa di morte per le donne e le ragazze indigene di età compresa tra 10 e 24 anni e la quinta per le donne di età compresa tra 25 e 34 anni. A partire dal 2016, il National Crime Information Center ha segnalato 5.712 casi di donne native uccise e scomparse. Solo nel maggio 2021, nel South Dakota, sono state denunciate le sparizioni di 13 tra ragazzine e adolescenti indigene, di cui non si è saputo più nulla.
Può sembrare strano, ma la crescita vertiginosa di queste violenze è collegata anche a quello che i popoli nativi considerano “lo stupro della Madre Terra” a opera delle compagnie petrolifere. Proprio la crescita dei grandi progetti legati a questa industria ha causato un enorme afflusso di operai maschi non nativi all’interno o nei pressi dei territori che ospitano le comunità indigene, trasformate quindi in veri e propri territori di caccia dove i predatori cercano le loro vittime.
Le denunce delle violenze, purtroppo, non hanno trovato adeguati riscontri giudiziari e le vittime vengono tuttora regolarmente ignorate e abbandonate al loro destino. Secondo l’U.S. Government Accountability Office, almeno nel cinquanta per cento dei casi di violenze sessuali le donne native coinvolte hanno ricevuto un rifiuto dagli studi legali a cui si erano rivolte. In tal senso anche Terry Henry, ex membro del direttivo del Congresso Nazionale degli Indiani d’America sulla violenza contro le donne native, aveva confermato: “La violenza che stiamo vivendo è direttamente connessa con i molestatori che camminano liberi senza timore della legge, senza paura della responsabilità civile o di procedimenti penali”. Il problema è che, da una parte, i tribunali tribali non hanno la possibilità giuridica di perseguire gli autori non nativi dei reati, mentre dall’altra le autorità federali si rifiutano di perseguire crimini avvenuti all’interno delle riserve. In questo modo il buco nero giurisdizionale ha creato una proliferazione di aggressioni che crescono anche grazie alla certezza dell’impunità.
Il genocidio delle comunità native nel cosiddetto Nuovo Mondo ormai continua ininterrotto da più di 500 anni, anche se oggi ha assunto nuovi aspetti, incluso quello più subdolo, definito “genocidio culturale”, che non è fatto solo di violenze, stupri, discriminazioni, omicidi, assimilazioni forzate e ripudio di memorie e radici, ma anche di pratiche di appropriazione arbitraria di retaggi e nomi, che contribuiscono alla progressiva invisibilità e alla cancellazione di quei popoli. Basta fare un esperimento semplicissimo, come andare sulla stringa di un qualunque motore di ricerca per immagini e digitare le parole “cherokee” o “apache” o “alce nero”, i risultati che ne emergono sono sorprendenti e tragici.
(***) Testo e immagini ripresi da Comune-info con questa presentazione: Fonte: Pagine Esteri è un’ottima rivista online di approfondimento storico-politico-culturale nata nella primavera scorsa per iniziativa della Spring Edizioni. La dirige Michele Giorgio, storico corrispondente del manifesto dalla Palestina e dal Medio Oriente e fondatore dell’agenzia Nena News, che per i lettori di Comune non ha certo bisogno di presentazioni, lo conoscono e stimano da tanto tempo. La rivista, esemplare per qualità e indipendenza, pubblica analisi, reportage, documenti, recensioni di libri e produzioni culturali, contesti, podcast, video e foto non sempre disponibili in Italia.
La parola scomoda dei poeti: da voce delle periferie a strumento di rinascita sociale
Il ruolo dell’heyoka nella cultura lakota (Sioux). L’utilizzo del linguaggio poetico che rivela il lato nascosto delle cose. La figura di Lance David Henson, poeta civile e attivista
di MOSÈ CARRARA SUTOUR (****)
Mettere a nudo il potere per rifondare un equilibrio sociale; opporsi all’ordine strutturale imposto e alle sue regole, mostrandone le faglie; difendere il beneficio del dubbio, consapevoli che l’insinuarlo non va semplicemente contro l’etichetta, ma significa cambiamento: tale è lo scopo del trickster (burlone trasformista caro agli antropologi, violatore di regole e mediatore sacro tra gli estremi), che nella cultura lakota (Sioux) ha un preciso rappresentante. L’heyoka agisce al contrario della norma, rivela il lato nascosto delle cose, individuando fratture nei vincoli che condizionano i comportamenti e le scelte personali. Abile a migrare senza limiti da una soggettività all’altra (nelle sfere dell’umano, del vegetale e dell’animale), l’heyoka è il nostro specchio: apre lo sguardo, rivolta il mondo e il suo ordine così precario, ma non lo fa per tornaconto personale. Dissacrando, è un riequilibratore, ma non azzera – pur ribaltandoli – i rapporti di forza. Simile a un clown, ricorre al riso e allo scherno, apparendo talvolta privo di senno. Heyoka è allora, per i lakota, un contrario e parla un linguaggio opposto a quello di un capo, un linguaggio poetico. I poeti civili sono, di fatto, soggetti controcorrente: invitano all’azione con il peso della parola, e lo fanno per una collettività intera. Citiamo ancora un riferimento in tema di contrarietà, dove artigianato, arte e politica si incontrano. Negli Stati Uniti di fine Ottocento, insanguinati delle guerre indiane, le donne native delle grandi pianure, soprattutto lakota e cheyenne del Nord, fabbricavano un gran numero di tessuti decorati raffiguranti, tra i vari simboli e figure, anche la bandiera americana. L’apice di quella particolare produzione artigianale fu raggiunto nel 1890, quindi già durante il confinamento nelle riserve, disposto quattro decadi prima dall’Indian Appropriations Act (1851). Da principio dono individuale dello straniero europeo al nativo, esibito da alcuni come elemento di prestigio personale, la bandiera americana diventa simbolo del conflitto di civiltà e, nell’arte nativa, sarà spesso raffigurata capovolta. Quasi un secolo più tardi, troveremo tra i militanti dell’American Indian Movement (AIM) la stessa riappropriazione dell’U.S. Flag: il simbolo identitario, fisicamente rovesciato, dell’oppressore e della sua violenta politica di assimilazione. Il poeta civile, portatore di cambiamento Nel rapporto profondo con la realtà dei luoghi di appartenenza talvolta perduti nella diaspora, e nel rispetto del legame critico tra individuo e collettività, troviamo la figura del poeta civile, capace di uscire allo scoperto, di esporsi – anche fisicamente – contro l’indifferenza. Unica arma: la parola, intesa sia come “prima pelle” del poeta sia come veicolo per un’azione condivisa. In essa possiamo ritrovare una carica eversiva comparabile alla lingua del mito scelta dall’heyoka. Almeno due facoltà avvicinano, senza limiti di latitudine, il trickster al poeta civile: smascherare i simboli e la retorica impiegati da un potere per mantenersi forte; viaggiare attraverso le generazioni: un modo, cioè, di ridefinire il tempo. Due esempi affiorano, lontani eppure prossimi, dal Secolo breve: il Garcia Lorca “raccoglitore” di cultura nella Spagna che cova la guerra civile; il Pasolini “archeologo” delle vite di periferia, che rende loro dignità. Nel primo caso, il poeta è fautore di un’osmosi fisica tra la città e la provincia povera (la compagnia da lui diretta, “La Barraca”, è un teatro viaggiante), e i suoi versi non hanno bisogno di un affronto politico diretto per farsi grido di libertà e uguaglianza: un grido legato alla terra andalusa e ai suoi abitanti – «i miei più lontani ricordi di bambino hanno sapore di terra», dirà nel 1934 al giornalista argentino José R. Luna. Per Pasolini, periferia (non solo l’agro o le borgate, ma i Paesi del Sud del mondo) è il luogo dell’altro, celebrato dal poeta, che “non conosce alternative”: l’umanità “di scarto” ritrova un centro, perché quel luogo estremo è la chiave dalle nostre questioni sociali ed esistenziali più profonde. Pasolini si muove da solo e ricorre al mito, capace di “sciogliere l’insolubile”, per dar voce a quella stessa umanità, senza esclusioni. Nel sacro della periferia pasoliniana, il confinamento si dissolve ed appare, come un nervo scoperto, la crisi della narrativa storiografica: qui i marginali galleggiano in uno stato di oblio o di indefinita possibilità di riemergere («questo romanzo non comincia», si legge nella nota all’incipit di Petrolio). Incontro con Lance Henson. Vivere la memoria omaggiando il Grande Silenzio Il 29 novembre 2014, al Museo Navale di Genova, in occasione del 150 anniversario del massacro di Sand Creek (vedi su https://bit.ly/ 3iX2mzx), Lance David Henson, poeta civile e attivista tsitsistas (cheyenne, vedi qui il suo profilo biografico https://bit.ly/3iWTAkT), ricostruì la dinamica dei fatti. In seguito raccontò brevemente di sé, iniziando dal perché oggi gli agenti dell’Homeland Security gli impediscono di tenere incontri nelle università statunitensi. La prima parte dell’intervento sembrava, però, tutt’altro che una rievocazione. Henson parlava in prima persona plurale, riferendosi a un gruppo di Dog Soldiers (corporazione di guerrieri cheyenne tuttora esistente, di cui è membro) distaccati dall’accampamento che fu raso al suolo: «Quando è successo eravamo stanziati a diverse miglia, lontani da Sand Creek, dove, in segno di pace, sventolava una bandiera statunitense. La bandiera non era capovolta. C’erano davvero pochi guerrieri al villaggio, formato da un centinaio di tepee. Almeno 200 persone inermi, più di due terzi donne e bambini, sono morte trucidate dagli uomini di Chivington. Poi ci sono stati i primi consigli di guerra, ci siamo alleati con gli arapaho e i lakota… Anche oggi siamo in guerra con il governo degli Stati Uniti». La storia orale dell’800 e la “guerra” dichiarata da un attivista nativo al governo federale parlano grammatiche simili. La parola libera e il diritto si assistono ogni volta che un trattato violato torna ad essere motivo di azione legale. Marginalità, diritti umani, ambiente si intrecciano… Ma il più grande lascito di Henson quella sera è stato il suo modo di intendere il tempo storico, di viverlo nel presente: parlava e ragionava collegando gli eventi con flash immediati; parlava da Dog Soldier, partigiano di quella milizia tribale che si organizzò per resistere all’esercito fino alla battaglia di Little Bighorn (25 giugno 1876). Discusse col pubblico di pace e dignità, vedendosi nell’altro con salti identitari («i migranti di oggi siamo noi»); tornava al passato prossimo sui fatti di allora, prestando la sua voce al capo White Antelope, un attimo prima che il suo corpo fosse crivellato: «Niente vive a lungo. Solo la terra e le montagne». Un tempo ferito, ma ritrovato, quello di Henson: non solo in Oklahoma (dov’è la riserva in cui è cresciuto e fa ritorno periodicamente), ma nel mondo, attraverso le numerose raccolte che presenta agli ospiti del suo esilio civile. Sempre a Genova, Henson parlò ancora di accaparramento di risorse, di privazione nelle riserve e nei ghetti urbani, di politiche anti-migranti in Europa. Lo fece rispettando le pause e dando spazio alle domande. Non fu mai didascalico. Di seguito, riportiamo un suo pensiero sul silenzio, luogo in cui la parola trova risonanza e si carica di significati, espresso più di trent’anni fa allo scrittore newyorchese Joseph Bruchac: «la brevità è per me… un modo di riconoscere e rendere omaggio al Grande Silenzio dal quale uscimmo fuori». [J. Bruchac, Survival this way, Tucson, 1987]
(**) Da Fuori Binario numero 232, www.fuoribinario.org. Lance Henson è un poeta ma anche un rappresentante politico-religioso del popolo nativo che noi chiamiamo – in modo impreciso – Cheyenne. Qui in “bottega” trovate sue poesie, riflessioni, interviste ma anche recensioni o segnalazioni dei suoi libri tradotti in italiano; è spesso a Bologna (lo preciso per chi desiderasse incontrarlo o invitarlo a manifestazioni).
Capo indiano Hopi Aquila Bianca: “Il momento che l’umanità sta vivendo si può vedere come una porta o un buco”
https://www.pressenza.com/it/2021/08/capo-indiano-hopi-aquila-bianca-il-momento-che-lumanita-sta-vivendo-si-puo-vedere-come-una-porta-o-un-buco/