«Our War»

Nostra” o no? Chi combatte contro l’Isis, chi guarda, chi trucca le carte… (*)

di Giuliano Spagnul 

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«È successo come il diffondersi di un’epidemia. La guerra si è estesa. Non è cominciata» – Philip K. Dick in «Colazione al crepuscolo»

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«Our War» è il documentario presentato fuori concorso a Venezia che racconta le storie di tre “foreign fighters” che sono andati a combattere contro l’Isis1. Il titolo del film è senza punto interrogativo e come scrive giustamente alla fine della sua recensione Paolo Giordano2: «Our War, la nostra guerra. Ma“nostra”? Di chi? Non compare il punto interrogativo nel titolo scelto dai registi, ma al termine del documentario siamo pronti ad aggiungerlo noi spettatori». La domanda non è solo lecita ma obbligatoria, dovremmo porcela tutti. La questione che un pugno di giovani occidentali con la loro scelta ci pone è di un’importanza cruciale. Dopo tanti anni di marce pacifiste, di impegni umanitari non ambigui, alla Emergency per intenderci, è venuto il momento di deporre i simboli della pace e di imbracciare le armi contro l’ingiustizia, per la libertà, per il bene contro il male? Di primo acchito verrebbe voglia di rispondere sì e non sono certo i dubbi espressi da Paolo Giordano che percepisce «fin dall’inizio qualcosa di dissonante nella convinzione ferrea di questi combattenti, il mescolarsi pericoloso di ragioni strettamente personali a quelle universali che professano» a farci esitare. «La tagliente linea d’ombra conradiana» in cui – sempre Giordano lo paventa – i tre possano vacillare nella loro età giovanile, in realtà è quella che vale per tutte le storie e le cause, anche le più nobili, del passato. Le Brigate Internazionali che combatterono in Spagna erano formate da giovani che si portavano dietro ognuno la propria “linea d’ombra”. Le motivazioni e il valore universalista, ideale, delle loro scelte erano un amalgama che tutt’al più poteva nascondere ma non certo sopprimere quella linea d’ombra che ancora ci attraversa tutti. Se fosse solo per questo non si vedrebbe il motivo perché mai questo accostamento fra ieri e l’oggi «dovrebbe provocare l’irritazione di alcuni». I problemi sono ben altri e meglio di tutti ci può aiutare l’intervento della giornalista Flavia Perina dal titolo eloquente «Elogio dei giovani occidentali che combattono l’Isis assieme ai Curdi (e imbarazzano noi)»3. Un intervento da destra che vorrebbe imbarazzare noi, nel senso di quella sinistra che «si appaga con le manifestazioni di massa dopo gli attentati» e senza risparmiare anche una botta a destra – «la destra con gli strilli televisivi contro gli immigrati» – in una gioiosa sintesi in cui ciascuno a destra come a sinistra «trova il contesto dove esercitare la cosa che da molto tempo ci viene meglio, il benaltrismo imbelle dove non ci sono “parti giuste” ma solo epidermide: che orrore! Che mostri! Che scandalo! Che vergogna!». E contro tutto questo infine ecco sorgere i nostri eroi «Karim Franceschi e tutti gli altri ragazzi che, in molti casi, non avevano mai preso in mano un’arma e sono andati a combattere in Siria contro lo Stato islamico. Nel nome dei nostri valori, mentre noi eravamo convinti di battere il radicalismo islamico a colpi di marce e gessetti colorati». Ebbene ha ragione? Dovremmo vergognarci noi di sinistra (e quelli di destra per assomigliare troppo a noi) per non saperci esporre con loro, quantomeno idealmente, «sulla prima linea della guerra»? Non siamo di fatto complici, con il nostro benaltrismo, di quel tentativo di criminalizzazione che sta dietro (ma neanche troppo dietro) alla presa di posizione del senatore Stefano Esposito, sostenitore del Sì-Tav, che «si è arrabbiato tantissimo» quando ha visto un altro giovane italiano, Davide Grasso, attivista No-Tav, unirsi alle file dei combattenti internazionali? In realtà una differenza c’è tra quel ieri e quest’oggi; così come c’è e ci sarà sempre fra destra e sinistra per chi non voglia farsi prendere per il naso da quel processo di omologazione che vuol fare dei conflitti esistenti nella realtà una melassa indistinta come quella che fa la Perina mettendo insieme le buone cause delle Brigate Internazionali con le voglie di avventura della Legione Straniera. Ma non è una differenza delle persone. Ci si può immaginare senza difficoltà i Karim, i Grasso e gli altri partire per la Spagna a combattere contro Franco; il problema è che il nemico di oggi non è quello di ieri, i nazifascisti del XX secolo non sono i soldati del califfato del XXI secolo. Se i compagni di allora avevano di fronte i nazisti e lottavano per la libertà ma anche per la rivoluzione, quelli di oggi pur avendo di fronte altri spietati nemici non hanno più alcuna rivoluzione comune a cui appellarsi, anarchica, socialista, o comunista: questo orizzonte oggi, piaccia o no, non esiste più. La rivoluzione in Rojava è definita da loro stessi un esperimento di democrazia e di convivenza; è una Val di Susa più grande, molto più grande ma tutto sommato, fatte le debite proporzioni, ugualmente esemplare. Entrambe hanno il loro carico di significati, di speranze, di sofferenze; ma occorre non cadere nella trappola dei facili e ambigui parallelismi giustificatori, né nel pensare che questa “nostra guerra” sia nostra nel senso che combattiamo un nemico che attenta ai nostri valori. La ricercatrice italiana, Valeria Solesin – uccisa dall’Isis il 13 novembre al Bataclan di Parigi, alla cui memoria Grasso dedica la chiusa del suo video sparando in aria col Kalasnikov – non è una martire della nostra guerra all’Isis, è piuttosto la vittima di un nemico che ha un volto ben più grande e pericoloso di questi rozzi macellai al dettaglio del cosiddetto califfato. È il nemico di sempre: si chiami Capitale, o Impero, o Nazione, o Chiesa. Il rischio altrimenti è quello di cadere nella logica della destra, così abilmente camuffata da Flavia Perina, che elogiando «i giovani occidentali nella legione straniera curda» bacchetta quell’Occidente imbelle e restio ad associarsi ad essi «visto che in quella guerra stiamo a parole con loro, nei fatti da un’altra parte». Così l’Occidente da oppressore diventa oppresso e per riscattarsi deve necessariamente tornare a opprimere, come se questo non fosse quello che ha sempre fatto e che continua a fare. E per concludere, ancora sulla distinzione fra destra e sinistra, le parole di Antonio Caronia: «la sinistra, per come ho cercato di viverla io, deve essere il più possibile impietosa anche verso i propri errori. La destra, se ci fate caso, quasi mai fa così»4.

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NOTA 1: «Our War» di Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravallotti e Claudio Jampaglia di cui abbiamo già parlato qui: https://www.labottegadelbarbieri.org/fotogrammi-di-guerra/

NOTA 2: «Corriere della Sera» del 22.8.2016 pag. 6

NOTA 3: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/09/05/elogio-dei-giovani-occidentali-che-combattono-lisis-assieme-ai-curdi-e/31669/

NOTA 4: Antonio Caronia, «Le lusinghe dell’universalismo» https://www.academia.edu/487003/Le_lusinghe_delluniversalismo

 

Tutte le immagini sono di Giuliano Spagnul

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SU QUESTO GROVIGLIO DI TEMI SONO MOLTI GLI INTERVENTI IN “BOTTEGA”: segnalo i due più recenti Ascoltando Karim Franceschi, partigiano a Kobane e Siria-Kurdistan: Il nemico interno e il silenzio della politica . Se invece qualcuna/o è curioso di sapere il punto di vista del “titolare” della bottega vi rimando al tag… “Uccidente” che ho usato qualche volta, anni fa e di recente: non parlando esplicitamente di Kurdistan e volontari internazionalisti anti-Isis ma ragionando intorno al “groviglio” di temi della democrazia che diventa democratura, dei paci-finti e dei guerrafondai, della radicalità necessaria da contrapporre al pensiero unico, delle lotte sociali criminalizzate, della “nostra” economia permanente di rapina e guerra insomma di quell’Occidente-Uccidente in cui vivo e che mi assai schifo. (db)

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