Poeti e operai

di Fabio Franzin, Matteo Rusconi, Emily Zendri (*)

La scelta della poesia come strumento di espressione della working class è da sempre molto frequente: da un lato l’immediatezza dei testi poetici risponde al limite materiale del tempo ristretto – tra un turno e l’altro – da dedicare alla scrittura; dall’altro, l’oralità dei versi porta a una compenetrazione dell’esperienza letteraria con quella lavorativa.
I rumori delle macchine e i ritmi serrati della catena di montaggio creano un’eco di accenti all’interno della produzione poetica di scrittori e scrittrici.
Fabio Franzin e Matteo Rusconi sono due poeti e due operai, l’ordine non è importante. Hanno entrambi partecipato all’edizione dello scorso anno del Festival di letteratura working class in cui hanno preso parte all’incontro dedicato alla poesia operaia contemporanea.
A pochi giorni dalla seconda edizione del Festival , in corso anche quest’anno nel presidio in assemblea permanente della ex Gkn di Campi Bisenzio, dialoghiamo con loro a proposito dell’intreccio dialettico tra il mondo del lavoro e quello letterario, indagando la produzione poetica scritta dall’interno della fabbrica e il rapporto che essa ha con la critica e con le istituzioni letterarie (Jacobin Italia).


* Per iniziare, volete raccontateci la vostra storia di poeti e la vostra esperienza di operai?

Fabio Franzin: Ho incominciato a lavorare a sedici anni, in fabbrica sono entrato nel 1979 quando le lotte operaie stavano sfumando e nel nord-est sembrava iniziare quella sorta di miracolo economico che di miracoloso ha avuto ben poco per gli operai: le paghe sono rimaste basse e le condizioni di sicurezza sul lavoro insufficienti. Sono entrato in fabbrica a sedici anni e ne sono uscito nel dicembre 2022, dopo 43 anni. Cosa vuol dire aver lavorato in fabbrica tutti questi anni? Vuol dire aver chiara la condizione di subalternità che esiste da sempre nel mondo del lavoro e come sia difficile mantenere la propria dignità umana nei luoghi della produzione.

Ho cominciato a scrivere relativamente tardi perché credevo di non avere gli strumenti, non avendo studiato. Intorno ai trent’anni ho cominciato a scrivere e ho capito, come prima cosa, che la mia lingua era il dialetto e poi che dovevo scrivere di quello che conoscevo e che vivevo. Ho cominciato scrivendo di natura e di paesaggio perché Andrea Zanzotto abitava a trenta chilometri da dove vivo io ed è sempre stato un punto di riferimento altissimo per me. Poi mi sono reso conto che mentre io parlavo dei fossi e delle siepi delle mie zone, altre siepi si innalzavano e creavano barriere. Nei luoghi di lavoro sentivo che l’idea di comunità cominciava a lasciare il posto a un’individualità che con il tempo ha ucciso l’idea di una compagine operaia, di una classe operaia.

Matteo Rusconi: Io sono nato nel 1979, quando Fabio entrava nel mondo della fabbrica. Ho fatto studi meccanici e subito dopo il diploma ho iniziato a lavorare in fabbrica, in piccole fabbrichette di paese a conduzione familiare. Quando ho iniziato a scrivere lo facevo principalmente in forma introspettiva, era più funzionale alla ricerca di quello che ero e di come mi sentivo. Poi però mi sono reso conto che il lavoro di chi scrive è anche quello di raccontare ciò che lo circonda; quindi, ho iniziato a parlare di fabbrica perché la mia vita era quella: alzarmi presto la mattina, andare a lavorare, il sudore, i turni, la stanchezza. Nei miei versi ho iniziato a metterci queste cose utilizzando termini propri del mondo della fabbrica per far entrare i lettori dentro quei luoghi. Oltre a dare voce agli operai e al mio essere operaio, la scrittura è nata con l’idea di raccontare il mondo del lavoro di cui si parla sempre poco. Questo è il mio percorso da poeta e operaio – se dico poeta-operaio Fabio si arrabbia.

* Perché non ti piace l’espressione poeta-operaio, Fabio?

Fabio Franzin: A me questi termini stanno un po’ stretti perché prima mi hanno chiamato poeta-dialettale, poi poeta-autodidatta, poi poeta-operaio adesso sarò un poeta-pensionato e quando ero senza lavoro speravo che non mi definissero poeta-disoccupato.
E se trovassi lavoro in un’agenzia funebre mi chiamerebbero poeta-becchino?
Io credo di essere un poeta, ho scritto una ventina di libri e solo in tre di questi parlo del mondo operaio. Sì, ero un operaio e ne sono contento. Ho scritto anche l’altro ieri, rileggendo Brecht, una poesia operaia però scrivo anche di altro e poi uno se è un poeta, che scriva in italiano, in finlandese o in dialetto, che scriva di lavoro o d’amore, rimane un poeta.

* Audre Lorde dice che «di tutte le forme d’arte, la poesia è la più economica. È quella più segreta, che richiede meno lavoro fisico, meno materiale, è quella che può essere fatta tra un turno e l’altro, nella dispensa dell’ospedale, in metropolitana e su ritagli di carta in eccedenza» (Sorella Outisider, Meltemi, 2022). Voi perché avete scelto di scrivere principalmente in versi? Avete mai pensato di scrivere anche in prosa?

Fabio Franzin: Ho scritto anche dei racconti operai però non ho la pazienza per costruire una storia. Come ha detto Gian Mario Villalta la poesia è come un’epistassi ovvero come uno sbocco di sangue che ti viene ogni tanto, non la chiami ma arriva. Io credo più in questo che nel fatto di mettersi a tavolino e costruire una storia. Ho fiducia in queste fulminazioni. Un’altra cosa l’ha detta Pierluigi Cappello, un altro poeta friulano da me molto amato e di cui ero amico: un poeta in trenta-quaranta versi apre e chiude un mondo, per questo per me è più adatta la poesia.

Matteo Rusconi: Per me vale lo stesso. Di scrivere un racconto o un romanzo non sarei capace e poi nella poesia ho trovato quell’immediatezza e la giusta sintesi. Io ero già appassionato di poesia prima di iniziare a scrivere della fabbrica, quindi, è stato automatico mettere il mondo della fabbrica in poesia. Sono d’accordo con Fabio, la straordinarietà di aprire e chiudere un discorso senza dover fare troppi preamboli, senza andare a spiegare troppe cose è un vantaggio della poesia, vantaggio anche per quanto riguarda il tempo disponibile per la scrittura. Ultimamente ho sperimentato un modo di scrivere che è quello della poesia prosaica composta da versi un po’ più lunghi con meno metafore, più diretti, un po’ alla Luigi Di Ruscio. Questo permette di allungare un po’, avere più spazio per dire le cose ma senza andare a snaturare la sintesi che è propria della poesia.

* I vostri versi – qui mi riferisco a quelli strettamente legati alla fabbrica – circolano o sono circolati nelle fabbriche in cui avete lavorato? Tommaso Di Ciaula e Ferruccio Brugnaro – che sarà presente alla seconda edizione del Festival di letteratura working class – raccontano che i primi luoghi in cui distribuivano le loro poesie erano i propri luoghi di lavoro, tra i reparti e nei parcheggi delle fabbriche.
Oggi, nelle fabbriche si leggono ancora le poesie operaie, i vostri colleghi leggono le vostre?

Fabio Franzin: No. I miei ex colleghi sapevano che scrivevo, qualcuno mi ha chiesto un libro però la cosa finiva là. Io non ho sentito il senso di appartenenza che c’era ai tempi in cui Ferruccio Brugnaro stampava le poesie col ciclostile e le dava fuori dalla fabbrica o in cui Di Ciaula vendeva i suoi libri ai colleghi. Come Matteo, ho fatto spesso delle letture nelle fabbriche, qualcuno viene e ti chiede il libro, però non c’è più quella passione che era data appunto da sentirsi parte di una cosa più grande, di una collettività, di una classe.

Matteo Rusconi: Anche io spesso ho riscontrato una sorta di indifferenza verso le mie poesie. Se ho venduto un libro è tanto, nel momento in cui i colleghi vengono a sapere che scrivo poesie finisce lì, a nessuno sembra interessare. Per farvi capire l’atteggiamento, nella vecchia azienda dove lavoravo c’era un distributore del caffè e un giorno ho appeso una poesia, Il tempo perso di Jacques Prévert, che è una delle mie poesie preferite. Non faccio in tempo ad attaccarla sulla macchinetta che l’avevano già tolta dicendomi che non si poteva fare una roba del genere. È un po’ sconcertante pensare che Brugnaro si metteva fuori dalle fabbriche a distribuire i suoi fogli ciclostilati ai colleghi e alle colleghe che li leggevano.

Fabio Franzin: Il potere ha sempre paura della parola e quindi dove e quando si può la si cerca di togliere. Quando parlo di subalternità intendo questo. Quando uno entra a lavorare in un luogo di lavoro deve sottostare a delle regole, è come se fossi arruolato in caserma, devi mettere da parte la tua individualità per diventare una formichina e lavorare, non devi pensare, non devi parlare, non devi leggere, non devi scrivere.

Matteo Rusconi: Eh sì. Una volta che entri in fabbrica, col passare del tempo vieni assimilato da questo microcosmo e la persona diventa quasi un’appendice del lavoro che sta facendo. Scrivere mi ha dato la forza di riconoscermi un essere umano con il diritto a una vita e a dei pensieri. Altrimenti diventiamo parti meccaniche di un motore che, quando non va bene si rottama, diventiamo pezzi sostituibili e isolati. Questo restituisce la disgregazione che c’è nella classe operaia.

* Rispetto alla circolazione delle vostre raccolte, qual è il rapporto che avete avuto con le case editrici e con la critica letteraria? Secondo la vostra esperienza personale si sta vivendo realmente un momento di riscoperta della letteratura operaia?

Fabio Franzin: Ho pubblicato Fabrica nel 2009 con Atelier, che è un’ottima rivista, ho vinto subito il Premio Pascoli e sono uscite moltissime recensioni positive. Poi però mi sono reso conto che questo succede perché ci si vuole lavare la coscienza di fronte a tutti quei libri che parlano di temi sociali come il lavoro e che sono stati dimenticati, come se la società volesse darci il contentino con un premio ogni tanto.
Ma restiamo scrittori disturbanti e quindi facciamo fatica a essere ammessi nei luoghi deputati alla letteratura di sistema. Però devo dire che alla lunga se le cose che scrivi hanno senso e forza non scompaiono, guardiamo alle ripubblicazioni di Di Ruscio e Di Ciaula.
Per quanto riguarda il mio Fabrica, con l’aggiunta di una sezione sulle morti sul lavoro, uscirà a Londra nell’autunno prossimo con una traduzione inglese e tutto il mio lavoro operaio uscirà nei prossimi anni per Marcos y marcos. Quindi sì, c’è voluto tempo ma le poesie restano, anche perché purtroppo sono sempre attuali. L’episodio che mi ha spinto a scrivere del mondo del lavoro è stata la lettura de La condizione operaia di Simone Weil. Questo libro è stato scritto nel 1936 eppure quando lo leggevo mi sembrava che parlasse di quello che stavo vivendo io, adesso.

Matteo Rusconi: Io parlo da neofita perché mi sono affacciato da poco al mondo della poesia e della divulgazione poetica. Restando in alcuni ambienti che sono legati al mondo lavorativo non ho avuto tantissima difficoltà nel presentare il mio libro Trucioli o nel fare reading facendo parte dell’ambiente. Mentre nel mondo editoriale e letterario sto avendo più difficoltà. Quando vai a proporre la poesia operaia può esserci un po’ di curiosità, appare come una cosa nuova per il mainstream che è abituato alle poesie d’amore o a poesie di introspezione ma c’è anche indifferenza perché, come dice Fabio, è scomodo.

Da quello che percepisco io, però, nell’ultimo periodo la letteratura working class sta un po’ alzando la testa. Stanno aumentando i concorsi letterari che cominciano a tenere in considerazione la narrativa e la poesia sul lavoro, come il premio intitolato a Tommaso Di Ciaula che ho vinto quest’anno. Sicuramente il Festival di letteratura working class che si è tenuto l’anno scorso nel presidio di Gkn ha dato una spinta notevole e ha acceso un faro potente sulla letteratura scritta dalla classe operaia. Sono speranzoso che un domani venga considerata dalla critica come letteratura vera e propria, con il giusto spazio nel panorama editoriale.

Nelle vostre poesie si sentono fortissimi alcuni temi classici – se così si può dire – della poesia operaia: il tempo ciclico, la crisi, i morti sul lavoro, gli effetti della produzione sul corpo, la metafora degli operai trattati come bestie. Qual è il vostro rapporto con la tradizione della letteratura operaia degli anni Sessanta e Settanta? E oggi esiste un laboratorio collettivo di scritture operaie?

Fabio Franzin: Il mio rapporto con i poeti che hai citato è sempre stato fortissimo. Ferruccio Brugnaro è un amico, abbiamo fatto alcune letture insieme. Di Ruscio è imprescindibile tra le mie letture.

Sulla costruzione di un laboratorio collettivo credo che quello che è stato fatto con il Festival di letteratura working class in Gkn sia stata una cosa forte, penso che da questo si possa costruire qualcosa. Sarebbe da fare una rivista operaia, di quelle serie, con una redazione di poeti o scrittori operai che lavorino per accogliere il contributo di chiunque voglia scrivere. C’è un abisso da scavare e dobbiamo smettere di stare zitti perché abbiamo paura di perdere il lavoro perché siamo crocifissi con l’affitto da pagare o con il mutuo, con l’asilo per i nostri figli. Il lavoro che nobilita l’uomo non mobilita più un cazzo.

Matteo Rusconi: Io questi poeti li ho presi un po’ come esempio, quando mi sono affacciato a questo tipo di scrittura ho cominciato a leggerli e quello che mi lega ai versi di Di Ruscio, Di Ciaula, Brugnaro è appunto questa rivendicazione dell’essere umano all’interno degli ambienti industriali. I temi si ripetono, magari con parole nuove, da un prospettiva diversa, però questa ripetizione mi fa capire che c’è ancora da lottare. Se ci si lamenta ancora vuol dire che non è stato fatto abbastanza.

Per quanto riguarda il presente sono d’accordo, il Festival a Campi Bisenzio potrebbe essere l’inizio di un lavoro collettivo intorno alla letteratura working class.

Quindi perché, nonostante la fatica e il poco tempo dopo il turno, continuare a scrivere?

Matteo Rusconi: La molla che mi ha fatto iniziare a scrivere è stata la voglia di raccontare quello che vivevo e poi è subentrata la convinzione che noi siamo il termometro dell’epoca in cui viviamo e che c’è bisogno di parole per fissare questa realtà che è quella del mondo del lavoro. Dobbiamo testimoniare.

Fabio Franzin: Vale lo stesso. Ho bisogno di essere testimone e ho anche bisogno di speranza perché come ha scritto Patrizia Cavalli «le mie poesie non cambieranno il mondo» ma qualcosa potranno pur fare. Scrivere di lavoro è ancora importantissimo perché il tema è ancora un iceberg da scavare. Le quotidiane morti sul lavoro, quello che è successo a Firenze nel cantiere Esselunga ci ricorda una volta di più che c’è ancora molto da fare. Sta emergendo come gli operai e le operaie siano trattate come carne da macello, le nostre vite non valgono nemmeno i costi, spesso irrilevanti, necessari per garantire la sicurezza sui posti di lavoro. Lo scorso anno in Italia 1.041 persone sono morte lavorando, sono morti che urlano vendetta. È qualcosa di intollerabile, di cui non possiamo abituarci. Abbiamo bisogno di parlare di questo.

Grazie molte. Concludiamo la conversazione pubblicando due vostre poesie inedite.
La prima di Fabio Franzin scritta in dialetto veneto-trevigiano e dedicata ad Anila Grishaj, ragazza di origini albanesi morta a 26 anni, il 14 novembre 2023, incastrata con la testa in un macchinario per l’imballaggio nell’azienda di surgelati alimentari Bocon di Pieve di Soligo.
La seconda di Matteo Rusconi, scritta di ritorno dal Festival di letteratura working class dell’anno scorso.

In pie, te un tenpo che cròea

di Fabio Franzin

Te sì morta in pie, cara Anila,

tel fior dei tó ani, in pie come

un martire, ‘na utopia co’a se

scontra tel duro dea realtà,

incastràdha te ‘na machina

inbaeàtrice drento ‘na fabrica

de sùrgeati, a Pieve de Sòigo.

Paese che, prima de èsser

el posto ‘ndo’ che se ‘à spostà

a viver mé fradhèl Giancarlo

pa’ lavoro, sposarse, ‘ver dó

fìe, ‘e mé bee nevodhéte

romài tose e soridenti come

tì, Anila, par mì l’é senpre

stat el paese de Zanzotto,

poeta sentinèa del paesàjo.

Te sì morta in pie, te ‘sto

autùno senpre pì crudèe,

ostàjo de guère, aluvión.

Tii boschi dei dintorni

cresse ‘e fonghe, casca

‘e castagne sora ‘e fòjie

rosse e zàe. Un incanto

che Andrea l’à cantà mie

volte, che l’à sintìo senpre

pì in perìcoeo pa’ colpa

de ‘sto nostro vìver senpio.

Reste el tó sorìso da dea

come ‘na poesia de alberi

nudi fa crose. Anca lori

i mòre in pie, o ragàdhi

daa tèra ‘ncora zóveni, anca

lori martiri de ‘sto tenpo

maeà che no’ sa pì star su,

che‘l cròea ‘doss a l’ànema.

Trascrizione in italiano:

In piedi, in un tempo che crolla

Sei morta in piedi, cara Anila, / nel fiore dei tuoi anni, in piedi come / un martire, un’utopia quando si / scontra col duro della realtà, / incastrata in una macchina / imballatrice dentro una fabbrica / di surgelati, a Pieve di Soligo. // paese che, prima di essere / il luogo in cui si è spostato / a vivere mio fratello Giancarlo / per lavoro e sposarsi, avere due / figlie, le mie belle nipotine / ormai ragazze e sorridenti come / te Anila, per me è sempre / stato il paese di Zanzotto, / poeta sentinella del paesaggio. // Sei morta in piedi, in questo / autunno sempre più crudele, / ostaggio di guerre, alluvioni. / Nei boschi dei dintorni / spuntano i funghi, cadono / le castagne sopra tappeti di foglie / rosse e gialle. Un incanto / che Andrea ha cantato mille / volte, che sentì sempre / più in pericolo per colpa / di questo nostro vivere stolto. // Resti il tuo sorriso da dea / come una poesia di alberi spogli / quanto croci. Anch’essi / muoiono in piedi, o recisi / dalla terra troppo giovani, anch’essi / martiri di questo tempo / malato che non sa più sostenersi, / che crolla addosso all’anima.

Regali

di Matteo Rusconi

L’avviso di rinnovo del contratto

mi arriva via mail

nel giorno che chiude aprile

come regalo

per il mio primo maggio.

L’ultima volta

che ho sentito di una mail

da parte di un datore di lavoro

era per lasciarne a casa

più di quattrocento.

(*) Tratto da Jacobin Italia.

Fabio Franzin è nato a Milano nel 1963 e all’età di sette anni si trasferisce a Chiarano, un paese nella provincia trevigiana. Inizia a lavorare in fabbrica a sedici anni e più tardi comincia a scrivere poesie. Nel 2000 pubblica la sua prima raccolta El coeor dee paròe (Zone, 2000), mentre la sua opera più nota, Fabrica, esce nel 2009. Da pochi mesi è uscita la sua ultima raccolta Case, Presepi e altri ritrovi (Ronzani editore, 2024). La sua intera produzione poetica è in dialetto trevigiano.

Matteo Rusconi è nato nel 1979 a Lodi e dopo il diploma tecnico industriale inizia a lavorare nel settore metalmeccanico. La sua prima raccolta poetica è Sigarette. Venti Poesie Per Smettere Domani, autopubblicata nel 2017, mentre nel 2021 ha dato alle stampe Trucioli, raccolta interamente dedicata alla fabbrica.

*Emily Zendri, attivista studentesca e femminista, è laureata in filologia moderna con una tesi sulla letteratura working class. Fa parte della redazione di Edizioni Alegre.
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alexik

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