Riconoscere la Palestina non fermerà il genocidio a Gaza

ma “lo faranno le sanzioni contro Israele”, dice Gideon Levy

Un dossier con articoli di Djarah Kan, Antonio Cipriani, Gideon Levy, Turi Comito, Enrico Campofreda, Ofer Cassif, Marwan Abdel-Al, Alberto Negri, Francesco Masala, Daniele Fiori, Appello dei giuristi contro il genocidio, Francesco Masala, Elena Basile e Matteo Saudino (sul nongenocidio di Liliana Segre) e la campagna di “Terra e verità” in difesa del quotidiano Haaretz. Con video di Chris Hedges e Roger Waters, disegno di Mr Fish. foto di Ahmed al-Arini,

 

Il dito nella piaga – Antonio Cipriani

Mi ha incuriosito, ho letto tutto il testo in cui Djarah Kan parla del “mettere il dito nella piaga”, riferendosi all’episodio del Vangelo di Giovanni in cui San Tommaso, discepolo di Gesù, non crede al miracolo della resurrezione fin quando non tocca con mano, non mette il dito nella piaga del risorto.
Ecco, scrive la scrittrice: “Mettere le dita nella piaga di uno scrittore israeliano famoso in tutto il mondo al fine di essere sicuri di poter affermare che c’è un genocidio senza essere criticati o accusati di antisemitismo, è qualcosa di immensamente triste. La morte del pensiero critico e del coraggio. Coraggio che dovrebbe avere qualsiasi giornalista, filosofo o scrittore voglia fregiarsi di questo titolo. Quelli che oggi festeggiano ricondividendo la piaga di un intellettuale israeliano che deve arrendersi di fronte all’evidenza dei fatti, chiamando questo massacro con il suo legittimo nome, dovrebbero farsi venti giorni di vergogna, in un angolino dove fa sempre freddo e non batte mai il sole. Mentre la società civile vi implorava di mettere il dito nella piaga dei palestinesi, per conoscere e credere nella loro sofferenza oltre ogni irragionevole dubbio, voi sceglievate di non credere, di non informarvi, di non ascoltare i bollettini di guerra, le interviste dei giornalisti fatti saltare in aria. Tutto questo per la paura di perdere potere”.
“L’intellettuale che sceglie il caldo braccio del consenso culturale, non è un vero pensatore, ma un artigiano della propaganda pagato a cottimo, incapace sia di guardarsi dentro, che di guardare gli altri. Non c’era alcun bisogno di sentirsi moralmente protetti da un intellettuale israeliano per poter stare dalla parte di una popolazione disarmata di cui si sta progettando la totale cancellazione. Dicono che l’Occidente sia il luogo in cui sono depositate le più grandi riserve di libertà di pensiero del globo terrestre. Eppure avete dovuto aspettare che i proprietari ufficiali della parola genocidio vi slacciasse la museruola e allentassero il collare che fa di voi servi liberi di dire, ma contenti di servire”.

Parole dure? Beh, che altro dire nella patetica situazione italiana in cui i fascistelli eredi delle leggi razziali e della collaborazione attiva e criminale con le SS tedesche, antisemiti per costituzione, oggi possono accusare liberamente di antisemitismo chiunque non sia allineato e coperto con il governo genocida di Netanyahu? E che dire sui silenzi e le omissioni di personalità della cultura e del giornalismo che da anni fingono che sia tutto normale e titolano sui loro giornali “Guerra tra Israele e Hamas”, come se sparare in testa e ai testicoli di bambini affamati, inermi, in fila per un po’ di acqua e di farina non sia un crimine, ma guerra.

Beh, occorre far rumore. Con tutti i mezzi a disposizione, svegliare le coscienze, renderci conto che se non si pone un argine avanzerà l’efferatezza dei suprematisti, dei razzisti, dei padroni del mondo che fanno affari costruendo sempre più perfette macchine di morte da sperimentare, come fosse un videogioco osceno, sui corpi martoriati e indifesi dei palestinesi.

E prendere parte. Non genericamente, come certi profeti sgonfi di etica, per la pace per tutti. Ma per le vittime, per gli indifesi, per i bambini, per gli affamati, per chi è chiuso in un campo di concentramento. E contro il generone cultural-mediatico nazionale sempre pronto e mellifluo a scegliersi le battaglie comode, quelle sì urlate e super propagandate; quelle in cui, gira che ti rigira, non vengono intaccati gli interessi dei padroni del mondo… dei padroni in genere.

da qui

 

 

Riconoscere la Palestina non fermerà il genocidio a Gaza: lo faranno le sanzioni contro Israele – Gideon Levy

Il riconoscimento europeo della Palestina è un gesto vuoto che lascia Israele impunito. Senza sanzioni per fermare il Massacro a Gaza, non si tratta di diplomazia, ma di Complicità.

Il riconoscimento internazionale di uno Stato Palestinese premia Israele, che dovrebbe ringraziare ogni singolo Paese che lo fa, poiché tale riconoscimento rappresenta un’alternativa fuorviante a ciò che dovrebbe essere effettivamente fatto: imporre sanzioni.

Il riconoscimento è un sostituto errato dei boicottaggi e delle misure punitive che dovrebbero essere adottate contro un Paese che perpetua il Genocidio. Il riconoscimento è un vuoto velo di approvazione che i governi europei, esitanti e deboli, stanno usando per dimostrare al loro pubblico infuriato che non hanno intenzione di tacere.

Riconoscere uno Stato Palestinese, che non esiste e non esisterà nel prossimo futuro, se mai esisterà, è un silenzio vergognoso. La gente di Gaza muore di fame e la reazione dell’Europa è riconoscere uno Stato Palestinese. Questo salverà gli abitanti di Gaza che muoiono di fame? Israele può ignorare queste dichiarazioni con il sostegno degli Stati Uniti.

Si parla di un “maremoto” diplomatico in Israele, nella consapevolezza che non raggiungerà le coste israeliane, finché il riconoscimento non sarà accompagnato dall’imposizione di un prezzo per il Genocidio.

A superare se stesso è stato il Primo Ministro britannico Keir Starmer, uno dei primi a riconoscere la Palestina nell’attuale ondata, dopo la Francia. Si è affrettato a presentare la sua decisione come una punizione (condizionale), adempiendo così al suo dovere. Se Israele si comporterà bene, ha promesso, il suo dito medio verrà ritirato.

Che tipo di punizione è questa, signor Primo Ministro? Se il riconoscimento della Palestina promuoverà una soluzione, secondo lei, perché presentarlo come una sanzione? E se è una misura punitiva, dov’è?

È così quando la paura di Donald Trump si abbatte sull’Europa e la paralizza, quando è chiaro che chiunque imponga sanzioni a Israele ne pagherà le conseguenze. Il mondo preferisce proclami verbali per ora. Le sanzioni sono una buona cosa quando si tratta di invasioni russe, non di quelle israeliane.

La mossa di Starmer ha portato molti altri a seguirne l’esempio, che viene presentato in Israele come una frana diplomatica, un maremoto. Questo non fermerà il Genocidio, che non sarà fermato senza misure concrete da parte della comunità internazionale. Queste sono insopportabilmente urgenti poiché le uccisioni e la fame intensa a Gaza continuano.

Il riconoscimento non porterà alla creazione di uno Stato. Come ha detto una volta la rappresentante dei coloni Daniella Weiss, dopo una precedente ondata di riconoscimenti? “Apro la finestra e non vedo nessuno Stato Palestinese”. E non ne vedrà uno neanche a breve.

Nell’immediato, Israele trae beneficio da questa ondata di riconoscimenti perché sostituisce la punizione che merita. Nel lungo termine, potrebbe esserci qualche vantaggio nel riconoscere uno Stato immaginario, poiché solleva la necessità di trovare una soluzione.

Ma ci vuole una dose folle di ottimismo e ingenuità per credere che il riconoscimento sia ancora rilevante. Non c’è mai stato un momento peggiore; il riconoscimento ora è come fischiare nel buio. I palestinesi sono senza guida e i dirigenti israeliani hanno fatto tutto il possibile per ostacolare un simile Stato e ci sono riusciti.

È bello che il 10 di Downing Street (residenza del Primo Ministro britannico) voglia uno Stato Palestinese, ma finché Gerusalemme non lo farà, con l’insediamento estremista di Yitzhar impegnato a distruggere le proprietà palestinesi e sempre più forte con Washington che sostiene ciecamente Israele, questo non accadrà.

Quando la destra in Israele è all’apice del suo potere e il centro israeliano vota alla Knesset (Parlamento) per l’annessione e contro la creazione di uno Stato Palestinese, quando Hamas è l’entità politica più forte che i palestinesi hanno e i coloni e i loro sostenitori sono l’organizzazione più forte in Israele, di quale Stato Palestinese stiamo parlando? Dove sarebbe?

Una tempesta in un bicchier d’acqua. Il mondo adempie al suo dovere mentre Israele distrugge e affama. Il Piano di Pulizia Etnica sostenuto dal governo israeliano si sta realizzando prima a Gaza. Non si possono immaginare condizioni peggiori per coltivare sogni di statualità.

Dove verrebbe fondato? In un tunnel scavato tra Yitzhar e Itamar? Esiste una forza che potrebbe evacuare centinaia di migliaia di coloni? Quale? Esiste un campo politico disposto a lottare per questo?

Sarebbe meglio se prima si adottassero misure punitive concrete, costringendo Israele a porre fine alla guerra, l’Europa ne ha i mezzi, e poi si introducesse all’ordine del giorno l’unica soluzione rimasta: una democrazia tra il Mediterraneo e il fiume Giordano; una persona, un voto. Apartheid o democrazia. Con nostro orrore, non esiste più una terza via.

Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto

da qui

 

 

Non c’è alcuna possibilità che esista uno stato palestinese – Turi Comito

In estrema sintesi: non c’è alcuna possibilità che esista uno stato palestinese. Neppure se gli USA decidessero, perché qualche dio gli illumina quel poco di cervello che hanno, che debba essercene uno.

È ormai letteralmente impossibile.

Perché la quasi totalità del territorio della Cisgiordania è in mano agli israeliani. Perché Gaza non esiste più. Perché quel che resta dei gazawi è una moltitudine di persone disarmate, piegate e piagate fisicamente e moralmente. Perché i palestinesi di Cisgiordania dipendono totalmente, per la loro sopravvivenza, da quel che decidono i coloni e l’ignobile esercito che li assiste.

Il riconoscimento dello stato di Palestina, in queste condizioni, è, nel migliore dei casi, un gesto di solidarietà per una popolazione annichilita e nel peggiore un ipocrita gesto politico. In entrambi i casi non produce nessun effetto pratico rilevante dal punto di vista della politica internazionale.

Nessuno.

Se così non fosse oggi i paesi che hanno riconosciuto lo stato di Palestina sarebbero in guerra con Israele o avrebbero rotto ogni rapporto diplomatico e economico con esso.

Vi risulta che la Russia o la Cina o la Svezia o chiunque altro sia in cattivi rapporti con Israele?

No. Non vi risulta perché tutti hanno rapporti diplomatici ed economici ottimi con Israele. Pur riconoscendo lo Stato di Palestina.

Cosa resta allora per i Palestinesi?

Poco.

Due cose, a mio parere.

Posto che non vi è più possibilità di creare uno stato, posto che è letteralmente impossibile deportare i palestinesi in qualche altro paese della regione o disperderli in giro per il mondo (sono troppi) in pochi mesi o nel giro di qualche anno, posto che sterminarli tutti, benché possibile, è tecnicamente una operazione lunghissima e carica di incognite e rischi, credo restino due sole ipotesi sul campo.

La prima.

Continuare a sfiancare i palestinesi con l’apartheid, con le angherie, con i bombardamenti, con ogni sorta di privazione di beni materiali, di diritti e di dignità. In questo modo è assai probabile che nel giro di una ventina di anni i palestinesi scompaiano, per morte o per migrazione, da quella terra.

Nel frattempo ci si indigna, si fa il tifo, si piange e si ride. Sempre che un imprevisto (chessò un Iran che impazzisce e lancia qualche bomba nucleare su Tel Aviv) non ci trascini tutti nel baratro.

La seconda.

I palestinesi sono oggi – tra gazawi (2 milioni) cisgiordani (3 milioni) e cittadini israeliani (2 milioni) – circa 7 milioni.

Gli israeliani all’incirca 8 milioni. Nessuna di queste due componenti può essere cancellata. Nessuno, se non costretto con forze immani, se ne andrà da dove sta. Se non è possibile evacuare i palestinesi che sono disarmati, figuriamoci gli israeliani che sono armati fino ai denti (questo lo dico per quelli convinti che dalla Palestina debbano andarsene gli ebrei).

Epperò questi numeri, questo sostanziale equilibrio, suggeriscono una ipotesi di lavoro, già ottanta anni fa presa in considerazione e poi – stupidamente e colpevolmente – scartata.

Uno stato unitario.

O multinazionale, chiamatelo come vi pare.

Laico, senza riferimenti a etnie e religioni se non nella misura in cui queste sono eguali giuridicamente di fronte allo Stato. Con istituzioni politiche (parlamento e governo in primis) che tengano conto della composizione demografica e quindi della storia, degli usi, delle lingue che caratterizzano l’insieme delle etnie che compongono la sua popolazione.

Con leggi che garantiscano libertà e diritti umani, civili, sociali a tutti.

Questo Stato, non nazionale e non etnico ma plurinazionale o plurietnico, non può essere Israele poiché esso è fondato sull’idea della esclusività.

Deve essere un’altra cosa.

Deve essere rifondato e per un certo tempo militarmente e amministrativamente controllato da forze esterne neutrali e non sospettabili di simpatie verso chicchessia. Fino a che il nuovo stato non sarà un grado di camminare con le sue gambe  dovesse, questo stato di cose, durare anche cinquanta anni.

 

È del tutto evidente che Israele, di sua sponte, non acconsentirà mai ad una ipotesi del genere ed essendo uno stato con armi nucleari è praticamente impossibile convincerlo con atti intimidatori di tipo militare.

Resterebbe solo una cosa da fare. Convincerlo con altri mezzi. Sanzioni devastanti. Espulsione da qualunque consesso internazionale di cui è membro pieno o associato a vario titolo (ONU, WTO, Unione europea, ecc.), disconoscimento internazionale della sua esistenza. Insomma ogni mezzo pur di obbligarlo ad accettare una soluzione, l’unica ragionevole per quanto mi riguarda, e a consentire l’ingresso di forze di pace nel suo territorio e, se non il disarmo del suo esercito, almeno la sua subordinazione ad un comando internazionale.

 

Lo so. È una ipotesi inverosimile.

Ma lo è tanto quanto quella che prevede di restituire la Cisgiordania ai palestinesi da lì espulsi e vessati ogni giorno da ottanta anni, di unirla con una strada a quel che resta di Gaza, di denominare una entità senza indipendenza politica ed economica “Stato”, di creare altre barriere e frontiere che nessuno potrà mai sorvegliare perché tutte dentro lo stato di Israele.

Forse se di cominciasse a parlare – nei circoli intellettuali e politici e anche nelle sedi istituzionali a Parigi a Roma a Mosca a Pechino ad Amman a Ryad e perfino a New York dove è gentilmente ospitata dagli USA l’ONU – di un solo stato fatto di cittadini con eguali diritti e doveri, forse, molti israeliani e molti ebrei e molti palestinesi e molti arabi che pensano ad un futuro pacifico si unirebbero attorno ad una proposta simile. Forse perfino le parti più fanatiche e violente e quelle più violentate si arrenderebbero all’idea che è necessario trovare una via, anche difficile e dolorosa, ma pur sempre migliore di  quella che prevede il  continuare per altre tre o cinque o cinquanta generazioni a vivere una vita così miserabile fatta di aggressioni, di vendette, di faide, di soprusi e di odio.

 

In ogni caso, per quanto questa idea dello Stato unitario possa essere considerata stupida o intelligente resto di questa opinione: o si inventa qualcosa di diverso dalle solite scemenze (due stati due popoli), dal solito inutile temporeggiare, dalla solita vile ipocrisia oppure continueremo ad assistere a tentativi fallimentari di sterminio che, una volta esauriti, produrranno altre violenze, altri attentati, altre esplosioni di odio. In un circolo vizioso ostinato e senza fine, sempre più intollerabile e pieno di rischi di trascinare il mondo in un inferno peggiore di quello che vediamo oggi.”

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Il chiaroscuro della morte – Enrico Campofreda

Più della luce, in perfetto chiaroscuro caravaggesco, è il dramma assoluto quello che mostrano gli scatti di Ahmed al-Arini, il fotografo che dalla Striscia testimonia attraverso media e agenzie internazionali (France Presse, Bbc, Le Monde, Anadolu) la tortura per fame inflitta da Israele ai due milioni di gazawi. Fra loro, se non scheletrici come Muhammad Zakariya Ayyoub al-Motouq il figliolo ritratto in braccio alla madre, un quarto dei bambini è malnutrito, ha denunciato ancora oggi “Medici senza Frontiere”. Ma se tanti politici ascoltano e, a parole, si rammaricano, la perversa catena di morte non viene fermata. Da nessuno. A poco servono tardivi riconoscimenti d’una casa-Stato palestinese che non esiste più né nella Gaza rasa al suolo, né nella Cisgiordania stritolata da coloni sanguinari e militari loro protettori. La coppia del genocidio Netanyahu-Trump cammina dritta per ripulire la Striscia dai suoi abitanti e usa ogni misura: innanzitutto lo scorrere del tempo, che fa languire chi vive soffocato da tanta crudeltà criminale. Poi l’arma dell’estinzione indiretta per fame, e sempre ordigni e pallottole che quotidianamente mietono vittime anche fra chi s’affanna a recuperare una ciotola di cous-cous, una  manciata di farina, una scorta d’acqua potabile. Lo Stato d’Israele non recede dalla pratica che pure cinici militaristi dichiarano fuori da qualsiasi protocollo bellico. Ha l’alibi del nemico terrorista, che accusa di non voler restituire i prigionieri ancora sotto la sua giurisdizione (cinquantanove di cui forse la metà in vita), mentre Hamas con l’intermediazione di Egitto e Qatar per quella restituzione rilancia un accordo con cessate il fuoco duraturo e la liberazione di duecento prigionieri palestinesi. Per ora non c’è luce. E gli spiragli che s’intravvedono, da sotto le tende dove giacciono corpi martirizzati, baciano le membra emaciate di chi non sopravvive a una miseria incancrenita per ragione di guerra. Un realismo così crudo, un dolore così immenso, un tormento così profondo non compariva in nessuna tela scenografica e teatrale del Maestro del chiaroscuro barocco.  Quella precarietà esistenziale nella quale Caravaggio sceglieva umili, diseredati, reietti per trasferirli nei suoi dipinti a omaggiare santi o a incarnarne le figure, non riproducevano supplizi simili a quelli che abbiamo sotto gli occhi con questo sterminio.

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Ofer Cassif è stato allontanato con la forza dal podio del parlamento israeliano (vedi qui)

 

Ofer è un deputato comunista israeliano, l’unico di religione ebraica tra i cinque parlamentari della lista Hadash-Taal, nata dall’alleanza di due partiti arabi di sinistra. Cassif è stato appena sospeso dalla Knesset, il Parlamento israeliano, per la terza volta dal 7 ottobre 2023, perché denuncia regolarmente il genocidio in corso a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania e l’apatia della società israeliana di fronte ai crimini commessi.
Clothilde Mraffko: “Il presidente francese Emmanuel Macron ha promesso di riconoscere lo Stato di Palestina durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Come valuta questo annuncio e come è stato accolto in Israele?”
Ofer Cassif: “Ovviamente, per quanto mi riguarda, lo apprezzo. Ma basta parole, è il momento di agire! Bisogna riconoscere lo Stato di Palestina ora, senza più rimandare! Il governo israeliano, e purtroppo gran parte dei leader dell’opposizione, contesta la decisione di Macron affermando che in questo modo Parigi premia il terrorismo. Ma non c’è da stupirsi, i criminali accusano gli altri di perseguitarli e di mentire… Per quanto riguarda l’opinione pubblica israeliana, non ci sono state reazioni particolari perché Macron ha già tenuto in passato dichiarazioni simili, che quindi non hanno più alcun effetto. Ora bisogna agire!”
CM: “Gli abitanti di Gaza non sono né morti né vivi, sono cadaveri ambulanti”, ha dichiarato Philippe Lazzarini, il commissario generale dell’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (UNRWA). Israele, che ha parzialmente levato il blocco all’ingresso degli aiuti a Gaza, imposto dal 2 marzo scorso, ha di fatto ridotto l’enclave palestinese alla fame. Come reagisce l’opinione pubblica israeliana?”
OC: “Purtroppo sembra che la maggioranza degli israeliani sia indifferente o neghi la realtà. Tanti sostengono che la crisi alimentare, se c’è, è una conseguenza della guerra e che quindi è colpa dei palestinesi o, più precisamente, di Hamas. Alcuni addirittura se ne rallegrano. E se altri si indignano, la maggioranza è semplicemente indifferente. A mio avviso, la responsabilità è dei politici. In primo luogo del governo, del primo ministro Benjamin Netanyahu e della sua coalizione, ma anche di una parte dell’opposizione che ha incitato all’odio contro i palestinesi e giustifica le atrocità commesse da Israele. Su 120 deputati, 52 sono all’opposizione, ma solo in cinque ci siamo opposti, e sin dall’inizio, sia ai massacri commessi da Hamas che a quelli perpetrati da Israele dal 7 ottobre. Finalmente il partito islamista Ra’am si è unito alla nostra condanna. Alcuni mesi fa, anche i laburisti hanno cominciato ad esprimersi su Gaza. Ma loro non parlano né di crimini di guerra né di genocidio. Parlano di “pregiudizi” causati a civili innocenti di Gaza. Il resto dell’opposizione, 38 deputati, chiede la liberazione degli ostaggi, ma in generale sostiene l’azione del governo. Quindi, in pratica, non c’è opposizione.”
CM: “Lei è stato sospeso più volte dal Parlamento per aver denunciato il genocidio a Gaza…”
OC: “La prima volta nell’ottobre 2023 per 45 giorni perché in un’intervista avevo affermato che il governo israeliano aveva utilizzato il massacro di Hamas come pretesto per giustificare l’attuazione del piano “decisivo” presentato nel 2017 da Bezalel Smotrich. Un piano genocida che si basa su tre principi: Israele deve annettere i territori palestinesi occupati senza accordare i diritti fondamentali ai palestinesi, instaurando, per definizione, un regime di apartheid; i palestinesi che si opporranno al piano saranno espulsi dalla loro terra natale; quelli che resisteranno al nuovo regime di apartheid saranno uccisi. All’inizio del 2024 hanno tentato di destituirmi, perché avevo firmato una petizione a sostegno della denuncia del Sudafrica dinanzi alla Corte internazionale di giustizia. Servivano 90 voti, ne sono stati raccolti 86. Sono stato poi sospeso per sei mesi dal comitato etico del Parlamento e ora sarò nuovamente sospeso per due mesi, da ottobre a dicembre, perché ho denunciato i crimini in una lettera alla Corte penale internazionale dell’Aia.”
CM: “Ogni settimana ci sono manifestazioni per chiedere il rilascio degli ostaggi, in particolare a Tel Aviv. Quale è la posizioni di questi oppositori?”
OC: “Loro dicono che è una “guerra”, dal mio punto di vista invece è un genocidio. Una guerra implica una sorta di simmetria, che in questo caso non c’è. La maggior parte dei manifestanti chiede la fine della guerra per portare in salvo gli ostaggi e evitare che muoiano altri soldati. La maggior parte non fa neanche riferimento ai palestinesi. Eppure qualche cambiamento c’è stato. Quelli che parlano delle sofferenze dei palestinesi sono sempre più numerosi. Non sono abbastanza ed in ogni caso è troppo tardi. Ma sempre più persone stanno cominciando a capire che non si può separare il destino degli ostaggi e dei soldati israeliani da quello dei palestinesi di Gaza. La situazione è così drammatica che non si può ignorare. I media sono in gran parte responsabili. A parte il quotidiano Haaretz, in pochi parlano di ciò che sta accadendo a Gaza e non si vedono immagini.
CM: “Alcuni sostengono che Israele sia “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Come descriverebbe il sistema politico del suo Paese?”
OC: “Dal mio punto di vista, Israele non è mai stata una democrazia. È una “etnocrazia”, perché costruita sulla supremazia etnica degli ebrei. Per decenni la supremazia è stata essenzialmente politica, ma negli ultimi anni, in particolare sotto Netanyahu, si è trasformata in supremazia razziale. D’altra parte, Israele non è mai stata neanche una vera dittatura. Ha un sistema non democratico con alcuni elementi democratici. E questi ultimi vengono progressivamente distrutti da questo governo. Dal 1967 Israele controlla, domina e governa milioni di palestinesi che non hanno alcun diritto politico, civile e sociale. Assomiglia più ad una tirannia che a una democrazia. È un’impostura, il classico esempio di colonialismo e dominio razziale.”
CM: “In che modo il genocidio e la politica del governo israeliano influenzano la società? Qual è il prezzo da pagare per chi, come lei, si oppone?”
OC: “Il 19 luglio io e il deputato Ayman Odeh, il nostro capolista, siamo stati quasi linciati durante una manifestazione. Oltre al genocidio a Gaza e alla pulizia etnica in Cisgiordania, esiste un vero e proprio fascismo violento all’interno dello stesso Stato di Israele, che include la legittimazione e la normalizzazione della violenza omicida contro i dissidenti, in particolare gli arabi. Ricevo minacce quotidianamente, soprattutto sui social. Sono stato aggredito mentre ero dal parrucchiere tre anni fa, e un’altra volta mentre facevo la spesa. Sono disposto a pagare questo prezzo perché la mia lotta è fondamentale. Al di là delle mie convinzioni socialiste, delle mie credenze umanistiche e del mio impegno per la democrazia, ho l’impressione che i miei antenati ebrei mi stiano chiamando dalle loro tombe chiedendomi di combattere contro il razzismo e il genocidio. Nella mia famiglia, in molti sono stati uccisi dai nazisti. Questo mi ha reso molto sensibile alle discriminazioni razziali e alle persecuzioni. Sul breve termine sono molto pessimista: anche quando questi crimini cesseranno – e un giorno cesseranno – ci saranno profonde ripercussioni sulla società israeliana. Il tasso di suicidi tra i soldati che hanno prestato servizio a Gaza per esempio è terribilmente alto. Devono essere puniti per i crimini che hanno commesso, ma il carnefice è a volte anche vittima. Alcuni soldati hanno visto cose atroci laggiù. Forse ne hanno anche fatte. Ne escono come minimo psicologicamente distrutti. Tra il 14 e il 21 luglio sono stati registrati quattro casi di suicidio. Sul lungo termine, invece, sono ottimista, perché credo che sempre più persone finiranno per ascoltarci. Le ferite della società cominceranno a cicatrizzare, ma ci vorrà molto tempo. La società israeliana ha bisogno di guarire. Ma per poter guarire l’occupazione deve finire e il popolo palestinese deve essere liberato. E questo accadrà, è inevitabile. Quando il genocidio a Gaza sarà finito, penso che anche la comunità internazionale e i governi che hanno sostenuto Israele dovranno fare i conti con la propria coscienza.”
Traduzione Luana De Micco
Da Il Fatto Quotidiano

 

 

Il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Marwan Abdel-Al a L’Humanité

La cosiddetta conferenza per la soluzione dei due Stati non è tanto un’iniziativa di pace quanto il riciclaggio di un’illusione politica che la realtà ha superato. La conferenza, per formato e tempistica, assomiglia a un funerale ufficiale per una soluzione che non esiste più se non nelle dichiarazioni diplomatiche. Ciò che viene presentato oggi sotto il titolo di “soluzione dei due Stati” non costituisce un progetto di liberazione, ma piuttosto una gestione permanente di una tragedia coloniale.

L’Europa, compresa la Francia, può ora teoricamente riconoscere uno Stato palestinese, ma in realtà finanzia progetti di coesistenza con l’occupazione, finanzia la guerra – che è la madre della bomba nucleare – ed evita qualsiasi misura reale contro gli insediamenti, l’assedio o la cessazione del genocidio.

I palestinesi non hanno bisogno di altre parole, ma di azioni politiche chiare: il riconoscimento di uno Stato sovrano e indipendente, la rimozione dell’occupazione e la fine delle partnership coloniali occidentali con il regime di apartheid “israeliano”.

La vera soluzione inizia con il cambiamento degli equilibri di potere sul terreno. Il nostro popolo vuole la fine dell’occupazione… non un’assoluzione internazionale.

La maggior parte dei palestinesi – soprattutto la nuova generazione – è arrivata a considerare questa soluzione una trappola politica. Come si può parlare di “due Stati” quando ci sono progetti di annientamento, pulizia etnica, annessione ed espansione, e ci sono più di 700.000 coloni in Cisgiordania?

Dov’è lo Stato all’ombra di un muro che separa le famiglie e con attraversamenti gestiti a piacimento dai soldati dell’occupazione?

Non chiediamo un’entità simbolica sotto la sovranità “israeliana”; vogliamo piuttosto una vera liberazione, il diritto al ritorno e la giustizia storica.

La maggioranza dei palestinesi, in patria e nella diaspora, ha capito che si tratta di un’illusione. Come possiamo parlare di “due Stati”? La questione è andata oltre il riconoscimento simbolico e si è trasformata in una questione di giustizia, di diritto al ritorno e di smantellamento del sistema di apartheid.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina è il prodotto di un’esperienza nazionale e il fondamento dell’azione nazionale palestinese, e la sua pandemia nasce da questa base.

[Qual è l’alternativa?]

L’alternativa è lo smantellamento del sistema coloniale dalle sue radici. L’alternativa non è una ricetta pronta, ma un lungo percorso liberatorio. Inizia, tuttavia, con il riconoscimento che Israele non è uno Stato “democratico” ma un regime coloniale, come è accaduto in Sudafrica. Non rifiutiamo la “soluzione a due Stati” perché siamo radicali, ma perché non è più praticabile.

L’alternativa è un unico Stato democratico su tutto il territorio, dove tutte le persone siano uguali senza discriminazioni religiose o etniche. O, come minimo, un quadro di liberazione che apra le porte a tutte le opzioni, lontano dalla logica della “pace in cambio di sottomissione”.

La Palestina oggi è uno specchio per il mondo: tra il diritto internazionale e la forza delle armi, tra la vittima e la propaganda. Stare dalla parte della Palestina è una prova di coscienza umana, non solo una posizione politica. Non vogliamo che il sistema coloniale utilizzi la proposta di una soluzione a due Stati per sbiancare il suo passato o la sua inazione. Ciò richiede che la sinistra francese si liberi dalla pressione dei media imperialisti dominanti o dalla paura del ricatto morale. Ci aspettiamo che la sinistra recuperi il suo linguaggio radicale: che dica che quello che sta accadendo in Palestina non è un conflitto, ma colonialismo e genocidio sistematico. E che si schieri con la verità, senza una falsa equivalenza tra assassino e vittima. Non c’è neutralità di fronte al genocidio.

Non chiediamo una solidarietà emotiva, ma un impegno politico e morale. La Palestina oggi non è solo la causa di un popolo che viene massacrato, ma una questione universale in cui la nostra umanità è messa alla prova.

Se la Palestina cade, gli standard internazionali e la giustizia cadono con lei. Da Parigi a Gaza, la battaglia è una sola: contro il fascismo e il nuovo razzismo, e contro la memoria coloniale che non è ancora morta.

 

 

Palestina e lo Stato fantasma dell’alibi internazionale – Alberto Negri

‘Palestina, l’isola che non c’è’ , titolava ieri il manifesto. Una riflessione di Alberto Negri da riproporre rispetto all’orrore di Gaza che nessuno sa, vuole o riesce a fermare e all’impotenza della comunità internazionale rispetto agli strapoteri armati statunitensi e israeliani. E sullo Stato di Palestina, Gaza è solo l’ultimo capitolo di questa storia

Al balcone ad assistere all’eccidio

Su una collina a sud di Israele, Givat Kobi, arrivano ogni giorno centinaia di israeliani per vedere i bombardamenti su Gaza. Si affittano anche i binocoli per vedere meglio le macerie. Il genocidio di un popolo viene guardato e trasmesso in diretta ma il suo diritto all’autodeterminazione, alla giustizia e alla vita, va sempre in differita, da decenni. È come l’isola che non c’è di Edoardo Bennato.

Lo Stato presto senza popolazione

Anche oggi in Europa e in Italia ci arroghiamo il diritto, da cancellerie e salotti vari, di discettare se sia più o meno giusto – il giusto lo decidiamo noi naturalmente – riconoscere uno stato palestinese. Per altro in ritardo su 150 Paesi, tra cui il Vaticano, che lo hanno già fatto. È quello che qualche giorno fa Chiara Cruciati sul manifesto definiva «un suprematismo bianco» che oggi appare assai fuori tempo massimo.

Dichiarazioni simbolo ed armi sottobanco

Se Francia e Gran Bretagna vogliono andare oltre le dichiarazioni simboliche sullo stato palestinese, avrebbero molto da fare in concreto. Per esempio sospendere le esportazioni di armi verso Israele e chiedere un’indagine internazionale sui crimini di guerra dello stato ebraico. Inoltre potrebbero usare la propria influenza per punire la colonizzazione e il blocco imposto a Gaza, sostenendo direttamente i palestinesi.

In realtà quello che possiamo scrutare oggi dalla collina di Givat Kobi sono il passato e il presente di una mentalità distorta, segno dei tempi ma anche di una vicenda che non vogliamo sentirci raccontare.

Occidente coloniale e i due criminali capo

La nostra mentalità coloniale, con godimento massimo di Netanyahu e Trump, non ci abbandona mai. Rafforzata da quasi ottant’anni di menzogne. Da quel 14 maggio 1948 che decreta la nascita di uno stato israeliano, avvenuta non con una guerra di indipendenza, come vuole la narrazione dominante, ma sulla base di una conquista coloniale e della pulizia etnica, come scrive lo storico israeliano Ilan Pappé.

Pulizia etnica dal 1948

Gaza è solo l’ultimo capitolo di questa storia. Lo storico racconta che il piano di pulizia etnica (Piano Dalet) era stato elaborato il 10 marzo 1948, due mesi prima dello scoppio del conflitto israelo-arabo e le forze ebraiche erano già riuscite a espellere 250mila arabi. Un anno dopo l’80% dei palestinesi era stata relegato in campi profughi, sparsi tra la Cisgiordania, la striscia di Gaza, il Libano, la Giordania e la Siria. Israele aveva così conquistato un terzo del territorio in più di quello previsto dal piano di spartizione dell’Onu del 1947, occupando il 78% della Palestina storica. La Nakba, la catastrofe, si era compiuta. A questo si sarebbe aggiunto un altro 22% di territori palestinesi in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967.

Nakba infinita

Ma la Nakba non è mai finita, neppure per un giorno, e continua oggi. Lo dicono le espulsioni massa condotte in tutto il Paese, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Neppure gli accordi di Oslo del 1993, che allora sollevarono speranze per i palestinesi ma anche tra gli israeliani che puntavano alla pace, furono in grado di cambiare la tendenza alla colonizzazione forzata e alla pulizia etnica. Fallirono sulla scorta dell’assassinio del premier Rabin ma anche di un’ideologia, il sionismo, diventata sempre più estrema, segnata dal radicalismo religioso.

I numeri della verità e della vergogna

Ecco il risultato. La Cisgiordania, Gerusalemme Est inclusa, conta adesso oltre 300 insediamenti israeliani e 750mila coloni a fronte di 3,3 milioni di palestinesi: ai tempi degli accordi di Oslo, i coloni erano 100mila. Che cosa è stato fatto per evitarlo? Nulla. Israele ha potuto impunemente violare il diritto internazionale, gli accordi di Oslo e sbeffeggiare ogni iniziativa internazionale. L’orribile strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 – per altro il prodotto di decenni di oppressione – è servita al governo di Netanyahu per stare in sella e continuare una politica di occupazione e di stragi a Gaza dove oltre il 60% della popolazione, due milioni, ha meno di 25 anni ed ha conosciuto solo l’assedio in una prigione a cielo aperto.

Impunità garantita dagli Stati Uniti

Ancora oggi dalla comunità occidentale arriva il solito messaggio: la pulizia etnica della Palestina, per quanto illegale e immorale, sarà tollerata come in passato, che venga o meno riconosciuto uno stato. Se il Sud globale con il Gruppo dell’Aja a Bogotà si è schierato con i palestinesi (peraltro con conseguenze reali limitate), il regime israeliano conta pur sempre sull’impunità garantita da decenni dagli Stati uniti e dall’Unione europea. Lo stesso mantra “due popoli due stati” che le diplomazie ripetono ipocritamente fino alla noia è ancora praticabile e materialmente possibile? Se non si discute nel concreto rimane uno slogan, visto che la tendenza israeliana, come scriveva ieri Michele Giorgio, è quella di insediare nuove colonie a Gaza ed espellere la popolazione.

‘Mai una sanzione contro Tel Aviv’

Il vero mantra per noi è: “mai una sanzione contro Tel Aviv”. La stessa recentissima proposta della Commissione europea di sospendere parzialmente Israele dal fondo di ricerca Horizon Europe – con l’esclusione da sovvenzioni e investimenti per 200 milioni di euro – non ha ottenuto la maggioranza necessaria. Berlino e Roma come sempre prendono tempo [Berlino poi cede, NdR], e la Meloni, appaltata la nostra cybersecurity a Israele nel marzo 2023, ha troppo timore della sua ombra israeliana e del suo passato per fare qualche cosa di concreto. Nonostante le importanti parole di Mattarella, Israele ci tiene al guinzaglio.

da qui

 

Appello dei giuristi contro il genocidio e per la Palestina

Come giuristi impegnati contro il genocidio del popolo palestinese abbiamo messo a punto in questi ultimi tragici mesi varie iniziative di stampo giudiziario in sede nazionale, europea e internazionale, incentrate anche e soprattutto sulle sempre più evidenti responsabilità italiane in questo orrendo crimine. Tali iniziative continueranno finché i responsabili israeliani del genocidio e i loro complici internazionali all’interno di governi , a partire dal governo italiano, imprese e media non saranno messi in stato di accusa anche formale in tutte le sedi possibili.
Riteniamo tuttavia che a tali nostra iniziative debba accompagnarsi una mobilitazione popolare di massa e unitaria che abbia al suo centro le seguenti parole d’ordine: basta col genocidio, punizione immediata dei responsabili, fine della complicità con Israele, riconoscimento dello Stato di Palestina.
Rivolgiamo quindi un appello al movimento di solidarietà colla Palestina, ad associazioni, sindacati, partiti ed altre espressioni della società civile affinché siano promosse fin da subito ovunque in Italia iniziative su questi temi per arrivare appena possibile a un giorno di sciopero generale con manifestazione nazionale a Roma.

Michela Arricale, Michele Carducci, Simonetta Crisci, Fausto Gianelli, Claudio Giangiacomo, Ugo Giannangeli, Nicola Giudice, Muna Khorzom, Fabio Marcelli, Ugo Mattei, Carlo Augusto Melis Costa, Luigi Paccione, Valentina Pieri, Emanuele Ricchetti, Dario Rossi, Flavio Rossi Albertini, Luca Saltalamacchia, Gianluca Vitale

da qui

 

Comunicato stampa

Iniziativa in corso: “Terra e verità – Rassegna stampa sull’altra Israele”

A cura del comitato Resistenza Radicale Azione Nonviolenta

Gaza.

Silenzio su un genocidio in atto.

Nella Palestina occupata, nello Stato di Israele che questo genocidio sta portando avanti, una sola voce ha il coraggio di denunciarlo: quella di Haaretz, il quotidiano di opposizione che da decenni documenta le sofferenze inflitte al popolo palestinese e le brutalità dell’esercito israeliano. Oggi, Haaretz racconta al mondo i crimini di guerra dell’IDF a Gaza e prosegue il lavoro di critica all’interno di una società stordita dalla paura e dalla propaganda. Per questo, Netanyahu gli ha indebitamente negato accesso ai fondi pubblici per la stampa e ostacola le inserzioni private, sperando di portarlo alla chiusura.

E per questo, Resistenza Radicale e il Sindacato FISI sostengono Haaretz, ritenendolo una voce preziosa per la pace e la democrazia.

A dicembre 2024 ci siamo abbonati alla testata, invitando a fare altrettanto, con la campagna Haaretz: una voce necessaria. (Link diretto: https://www.resistenzaradicale.it/haaretz-una-voce-necessaria/ )

Da marzo 2025 abbiamo dato il via a una nuova importante iniziativa:
“Terra e Verità. Rassegna stampa dall’altra Israele”.

Realizziamo video in più lingue con l’aiuto di una squadra di volontari: scegliamo gli articoli, li traduciamo, li presentiamo al pubblico con un commento video, al momento a cura di Davide Tutino, Giada Caracristi, Fabio Bucca (presto nuovi partecipanti). Divulghiamo informazione e critica prodotta da quella parte di società israeliana che non vuole la guerra, riconosce i palestinesi e la Palestina e si oppone agli abusi del proprio Stato.

Tutti i video della rassegna, in italiano e nelle altre lingue, sono visibili su Youtube al link: Terra e verità. (Link diretto:  https://www.youtube.com/@RomaCapitaleFisiSindacato )

I video sono in italiano, inglese, francese, spagnolo ed esperanto. Escono a cadenza settimanale. Finora sono stati trattati diversi argomenti, sempre tratti dalle pagine del quotidiano: la Nakba palestinese, i rapporti di Israele con la Germania, il tentativo di commemorazioni comuni tra israeliani e palestinesi, il sionismo e il razzismo, la denuncia presso la Knesset di rituali sanguinari e abusi infantili, e altro. Uno degli ultimi contributi ha denunciato l’ordine ai soldati dell’IDF di sparare sulla folla in fila per il pane: questa notizia è riuscita a superare il muro di silenzio della stampa italiana e internazionale, proprio mentre lavoravamo al video in tema, e questo ci conferma che Haaretz è una voce da sostenere.

Attraverso la diffusione di questa preziosa voce contro, rifiutiamo la menzogna e rifiutiamo la forma mentis della guerra: ebrei, palestinesi, arabi non sono nemici in quanto tali. Siamo tutti un popolo sotto attacco da élite potenti e spietate. Quando la legge viene rovesciata, quando i principi democratici vengono traditi, quando il potere diventa autoritario senza incontrare opposizione, siamo tutti in pericolo.

Siamo uniti per opporci a queste derive e aperti ad accogliere ogni tipo di collaborazione.

 

Chi siamo

Resistenza Radicale Azione Nonviolenta è un comitato informale di cittadini nato a dicembre 2021 per opporsi in modo nonviolento alle politiche pandemiche di limitazione delle libertà costituzionali. Ha messo in atto azioni di disobbedienza civile, sciopero della fame, marce, raduni, assemblee. Sin da allora ha denunciato il pericolo legato alla militarizzazione della società e alla propaganda bellica legata all’emergenzialismo, puntando il dito contro le numerose illegalità governative.

Sito: www.resistenzaradicale.it

 

Il FISI – Federazione Italiana Sindacati Intercategoriali è un laboratorio di idee, azioni e proposte, una palestra di democrazia volta a migliorare la situazione politica con il ripristino dei diritti fondamentali. Durante il biennio 2020-2022, il FISI ha preso fortemente posizione contro la deriva antidemocratica del nostro Paese ed è stato tra i più severi critici verso la dittatura sanitaria; ha indetto uno sciopero generale di tutti i comparti, allo scopo di denunciare le azioni coercitive e discriminatorie nei confronti dei cittadini che hanno scelto di non vaccinarsi e ai quali è stata negata la libertà di scelta e il diritto al lavoro e a una equa retribuzione.

Sito: https://fisisindacato.it/

 

Contatti e link per “Terra e Verità”

Recapito telefonico: Davide Tutino – 349 29 49 378

Email: resistenzaradicale@gmail.com

Link alla campagna di sostegno Haaretz: https://www.resistenzaradicale.it/haaretz-una-voce-necessaria/

Link alla playlist “Terra e Verità”: https://www.youtube.com/@RomaCapitaleFisiSindacato

 

 

La feroce protesta dei tifosi blocca il trasferimento dell’israeliano Weissman al Fortuna Düsseldorf. Aveva scritto: “Cancellare Gaza dalla mappa” – Daniele Fiori

Non appena il suo nome ha cominciato a circolare, nella tarda serata di lunedì, la protesta dei tifosi ha cominciato a montare nel giro di pochi minuti. Prima online, ovviamente, poi anche in piazza. Una rabbia feroce, quella dei sostenitori del Fortuna Düsseldorf, che ha costretto il club tedesco di Zweite Bundesliga (la Serie B in Germania) a fare subito marcia indietro e annullare il trasferimento dell’attaccante israeliano Shon Weissman. Ultima stagione al Granada, un’annata anche in Italia con la maglia della Salernitana, Weissman è finito nel mirino dei tifosi per quei terribili post scritti dopo il 7 ottobre. Due esempi: “Cancellare Gaza dalla mappa” e “sganciare 200 tonnellate di bombe” sulla Striscia. Post poi rimossi, ma il web non dimentica. E nemmeno i tifosi tedeschi.

“Abbiamo studiato il profilo del giocatore, ma alla fine abbiamo deciso di non prenderlo“, la breve nota diffusa dal Fortuna Düsseldorf, in evidente imbarazzo. In realtà l’affare era concluso, come riportato dal tabloid Bild e dal portale israeliano Sport5 Israel: Weissman aveva già svolto le visiti mediche ed era pronto a firmare il contratto. La protesta dei tifosi ha fermato tutto, anche perché è intervenuto perfino il consiglio di sorveglianza del club. in Germania, dove vige la regola del 50+1 che impedisce a un singolo investitore di possedere la maggioranza di una società di calcio, il consiglio di sorveglianza è un organo di controllo che ha il compito di monitorare appunto l’operato del consiglio di amministrazione e tutelare gli interessi del membri del club, che sono rappresentati al suo interno.

Le mail al cda, la petizione già lanciata online su change.org, la protesta per le strade. In poco tempo la veemente reazione dei tifosi all’acquisto di Weissman è diventato un caso in tutta la Germania. Anche perché rappresenta un cambio di paradigma. Due anni fa, dopo il 7 ottobre e l’invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, avevano fatto scalpore i casi di alcuni calciatori palestinesi o arabi cacciati dai club tedeschi per le loro posizioni pro-Palestina emerse dai social. El Ghazi, ad esempio, era stato licenziato dal Mainz per aver scritto: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Uno slogan usato anche da Hamas, vero, ma all’interno di un post che non inneggiava alla violenza. Ora invece, nonostante la sua storia imponga alla Germania una sensibilità particolare riguardo alla tematica Israele, il clima sembra essere cambiato. Almeno quello dei sostenitori e appassionati di calcio: chiedono che il genocidio in corso a Gaza non venga ignorato e non accettano compromessi.

Il fatto che il Fortuna Düsseldorf volesse ingaggiare Weissman nonostante le sue posizioni è ritenuto dai tifosi talmente grave che è già prevista una protesta sugli spalti durante la partita di sabato contro l’Hannover, la prima ufficiale della nuova stagione di Zweite Bundesliga. Il fatto che l’acquisto sia saltato ha calmato gli animi, ma non ha placato la rabbia. Il Rheinische Post sottolinea come l’euforia dell’ambiente per un’estate di sogni, con l’obiettivo dichiarato di tornare in Bundesliga, sia di colpo svanita. Anzi, l’atmosfera è tesa e non è escluso che il già citato consiglio di sorveglianza non possa prendere altri provvedimenti. Intanto Weissman ha provato a spiegare le sue ragioni: “Pur accettando tutte le critiche, mi dispiace che non sia stato preso in considerazione il contesto generale“, ha scritto sui suoi profili social.

da qui

 

 

 

Elena Basile e Matteo Saudino sul nongenocidio di Liliana Segre

 

Genocidio e doppi standard: una riflessione sulle parole di Liliana Segre – Elena Basile

Il pensiero di Liliana Segre, esternato ripetutamente sulla stampa più letta, appare attualmente in minoranza. Non era così quando, dopo 10.000 morti, mi vidi accusata dall’intero arco costituzionale, nonché dallo spazio mediatico, per aver avuto l’ardire di rivolgermi alla Senatrice per condividere una riflessione sull’esistenza di una medesima mentalità — riassumibile nella disumanizzazione del nemico — che accomuna i nazisti di un tempo agli israeliani di oggi.

Mi rivolsi alla Senatrice in quanto la consideravo l’esponente più influente della comunità ebraica. L’avevo ammirata per il coraggio e l’indignazione morale espressi nella denuncia dei crimini nazisti che ella stessa aveva patito.

Sono stata così ingenua da pensare che la Senatrice avrebbe potuto, insieme al movimento di protesta contro il genocidio, levare la sua voce e condannare Israele.

L’intervista che avevo letto su la Repubblica, credo, nella quale la Senatrice — pilotata forse male dal suo intervistatore — esordiva affermando di non riuscire a dormire pensando ai bambini israeliani sterminati dall’attacco terroristico del 7 ottobre, per poi aggiungere, alla fine, che era spiacente per la morte di tutti i bambini di ogni religione e nazionalità, mi colpì sgradevolmente. Mi spinse a pubblicare un video sui social media in cui mi appellavo a Liliana Segre per fare chiarezza.

Non avendo ritrovato l’intervista, aggredita persino da coloro che reputavo amici, decisi di scusarmi. Lo feci in buona fede, pensando di essere stata vittima di un’allucinazione.

Naturalmente, le mie scuse furono interpretate malignamente e subii un linciaggio mediatico: si sostenne che mi ero scusata per paura delle querele della Segre. Così, del resto, si può leggere su Wikipedia in inglese (non quello italiano), che mi fa l’onore di uno spazio, elencando i miei incarichi diplomatici e la mia attività di scrittrice ed editorialista.

Malgrado le due querele, civile e penale, per diffamazione con l’aggravante della discriminazione razziale, stiano andando avanti, ho continuato, per dimostrare che non mi lascio intimidire né silenziare, a confutare in diverse occasioni il pensiero della Senatrice — non, e dico non, perché abbia qualcosa di personale contro la donna Liliana Segre, e certamente non contro l’ebrea, che rispetto e ammiro per la sua instancabile opera di testimonianza contro i crimini nazisti — ma in quanto considero le sue dichiarazioni sul conflitto israelo-palestinese pericolose e fuorvianti.

Purtroppo, nell’ideologia della Senatrice rintraccio quel pensiero binario, quei doppi standard che mi avevano colpito fin dall’inizio e che avevo denunciato, attirandomi le violente critiche di tutto lo spazio politico-mediatico.

L’opposizione all’uso della parola “genocidio” per indicare quanto sta avvenendo a Gaza, a mio avviso, è indicativa di una distinzione tra il popolo ebraico — che merita il riconoscimento di avere patito lo sterminio — e tutti gli altri popoli. Insomma, da una parte c’è il popolo eletto, dall’altra tutte le altre vittime. È una logica terribile, non lontana, per certi aspetti, da quella incarnata dalla Germania, la cui propaganda faceva credere ai tedeschi di essere migliori degli altri.

La CIG, organo giudiziario principale dell’ONU, ha chiesto a Israele di prendere misure concrete per evitare il genocidio, considerandolo quindi plausibile. È stata adita dal Sudafrica, che nel 2024 ha rivolto questa terribile accusa a Israele.

La Corte Penale Internazionale (CPI), di cui fanno parte molti Paesi europei — Italia in primis — ha emesso un mandato di arresto contro il Primo Ministro Netanyahu e il Ministro della Difesa Gallant per crimini di guerra e contro l’umanità, non eseguito (né eseguibile) da Washington e da vari Paesi europei, tra cui Italia e Ungheria.

Se Israele venisse considerato uno “Stato genocida” dalla comunità internazionale, scatterebbero misure di isolamento e sanzioni in grado di colpire duramente Tel Aviv e indurre forse il governo terrorista a cessare la sua attività criminale.

La Senatrice giustifica la sua opposizione al termine “genocidio” affermando che questa accusa rivolta a Israele è piena di odio ed è vendicativa. Essa sarebbe antisemita.

L’antisemitismo, un’accusa infamante, è oggi rivolta ai critici di Israele, a coloro che odiano i crimini contro un popolo inerme. È una menzogna, che serve a proteggere l’impunità dello Stato terrorista israeliano.

L’antisemitismo si è manifestato storicamente con la persecuzione della minoranza ebraica, della diaspora: una minoranza nei vari Paesi europei, discriminata, uccisa, torturata per i suoi usi e costumi, per la religione, per l’etnia, addirittura per i tratti somatici. È durato secoli.

Dopo l’Olocausto, con il riconoscimento pieno delle comunità ebraiche e dei crimini perpetrati, la nascita dello Stato di Israele — alleato dell’Occidente — ha, a mio avviso, quasi del tutto cancellato un fenomeno che aveva radici storiche e caratteristiche proprie.

L’odio odierno per Israele è odio politico, è indignazione nei confronti di uno Stato terrorista, per i suoi crimini, per la sua illegalità, per il totale disprezzo mostrato verso il diritto internazionale e verso le sue vittime.

Il rancore politico per il governo israeliano, sbagliando, viene trasferito ai suoi sostenitori, ebrei e non. L’accusa agli ebrei della diaspora di proteggere Israele sfocia in un odio politico che nulla ha a che vedere con la discriminazione razziale.

Sarebbe pertanto importante che le comunità ebraiche prendessero tutte le distanze da Netanyahu ma anche dai crimini passati di Israele, dalla sua illegalità iniziata nel 1967, dalle spedizioni e punizioni collettive della popolazione di Gaza, dalle forme di apartheid instaurate in Cisgiordania — esattamente come i tedeschi hanno rinnegato i loro passati leader nazisti.

Hamas è una creazione occidentale e israeliana. La CIA e Netanyahu hanno utilizzato il Qatar al fine di finanziare Hamas, in modo da erodere il potere dell’Autorità Palestinese. Hamas, eletto nel 2006, fece non poche aperture verso il riconoscimento di Israele.

L’Occidente, spinto da Israele e dagli Stati Uniti, non volle mai iniziare un dialogo politico, né riconoscere una organizzazione democraticamente eletta dai Palestinesi, né avviare quel processo virtuoso che negli anni Novanta trasformò l’OLP — organizzazione allora armata e responsabile di attacchi terroristici — in una entità politica con cui affrontare il conflitto nel quadro del processo di Oslo.

Spiace notare che, accanto alla Segre, alcuni amici parlino del ritiro di Sharon da Gaza nel 2005 come di un’occasione persa per i Palestinesi, che invece di esserne felici elessero Hamas.

La Segre, e i tanti analisti che diffondono queste tesi false, non rivelano come, immediatamente dopo, venne instaurato l’illegale blocco economico di Gaza e si procedette alla violazione delle più elementari libertà individuali palestinesi.

Fa tristezza pensare che la Segre e alcuni amici continuino a chiamare il 7 ottobre “pogrom”, espressione utilizzata per stigmatizzare le esplosioni di odio razziale contro le comunità ebraiche. Come ho cercato di chiarire più volte, Hamas è riconosciuta dal diritto onusiano come un’organizzazione con un braccio politico e uno armato, per la liberazione di un popolo sotto occupazione illegale e criminale.

Se Hamas uccide i soldati israeliani che mantengono il blocco e l’occupazione di Gaza, condannata da tante risoluzioni ONU, agisce in linea con il diritto internazionale, a protezione di un popolo oppresso.

Se Hamas, fuori da Gaza, uccide civili israeliani, compie atti di terrorismo. Questi non sono atti antisemiti, ma atti terroristici contro una potenza occupante, considerata nemica. Gli Ucraini colpiscono civili russi per le stesse identiche ragioni.

L’odio per Israele, per i suoi sostenitori, ebrei e non, è politico e ideologico: non è razziale né antisemita.

Se i tedeschi non avessero chiesto perdono per i crimini nazisti, ma avessero cercato di giustificarli, sarebbero stati disprezzati — non in quanto ariani, ma per l’indulgenza verso crimini inenarrabili.

Mi ripeto, ma credo sia importante fare chiarezza in una confusione che semina il male. Essa non giova a nessuno: non alla diaspora ebraica, né a Israele, né all’Occidente.

La nostra civiltà giudaico-cristiana sta perdendo l’anima. Israele si sta autodistruggendo, come gli Stati Uniti di Biden e Trump, come l’Italia, governata da una Presidente che rivendica di essere cristiana e donna, ma applica doppi standard brutali e non condanna né sanziona Israele.

Il Presidente Mattarella non è da meno. Le sue affermazioni ingiuriose contro la Russia, di cui ha offeso la memoria dei 27 milioni di caduti nella guerra contro la Germania nazista, sono state accompagnate dai balbettamenti nei confronti di Israele.

Appare tragicomico che Mattarella, dopo 60.000 civili morti, riconosca solo ora una “ostinazione a uccidere a Gaza”.

Nelle sue dichiarazioni si è immediatamente soffermato sull’antisemitismo: uno strumento, ormai, utile solo a silenziare le critiche e assicurare l’impunità di uno Stato terrorista.

I nostri valori costituzionali sono allora rinnegati, la nostra Costituzione tradita.

Pensate ai padri costituenti che si rivoltano nella tomba, mentre assistono alla complicità dell’Italia con un genocidio che avviene accanto a noi, nel Mediterraneo, grazie alla nostra cooperazione politica, militare ed economica.

Francesca Albanese, esperta giuridica dell’ONU che svolge in modo egregio il suo lavoro, è stata sanzionata da una potenza straniera. Non ha diritto alla protezione del Presidente della Repubblica né del Primo Ministro italiano.

Ex detenuti statunitensi, autori di omicidi, di cui si chiede giustamente l’estradizione, sono invece accolti dalla Meloni in pompa magna all’aeroporto.

Un mondo surreale, orwelliano, che non dobbiamo stancarci di denunciare.

Tornando alla Senatrice Segre: non capisco dove sia finita la forza morale che l’ha portata a stigmatizzare, con atroci dettagli, la crudeltà nazista. Non mi sembra che stia facendo lo stesso con le crudeltà israeliane, che esistevano anche prima del 7 ottobre.

Purtroppo, la tendenza a difendere l’esclusività del Giorno della Memoria, riferito solo alle vittime dell’Olocausto, senza comprenderne il significato più profondo — la difesa di tutti i popoli e di tutte le vittime della violenza di Stato — è indicativa di doppi standard inaccettabili.

Il desiderio di proteggere a qualsiasi costo lo Stato terrorista Israele dall’accusa di genocidio rivela una intenzione discriminatoria nel giudizio dei fatti storici.

La Senatrice condanna Netanyahu, affermando tuttavia di saper distinguere tra un governo democraticamente eletto, quello israeliano, e una organizzazione terroristica come Hamas. A parte il fatto che Hamas è stata anch’essa eletta, la dichiarazione della Segre è sintomo di un pensiero binario, incapace di comprendere che maggiori sono le responsabilità di uno Stato rispetto a quelle di un’organizzazione terroristica, che — dopo decenni di abusi e mancanza di canali politici — si è ribellata brutalmente all’oppressore.

Rimpiangiamo Craxi, Andreotti, Barak: in grado di dichiarare che, se fossero nati in un campo profughi palestinese, sarebbero stati terroristi.

Che sensibilità, che cultura, che senso obiettivo della storia — rispetto alle affabulazioni razziste e al suprematismo bianco oggi in voga!

Oggi si considerano i terroristi di Hamas dei subumani, Untermenschen, proprio come tutti i palestinesi, colpevoli di averli eletti o di simpatizzare per loro.

Si finge di non sapere che il terrorismo nasce sempre dove cresce l’oppressione e manca ogni dialogo politico.

I carbonari, che portiamo ad esempio nelle scuole elementari, erano terroristi.

Menachem Begin era un terrorista, poi divenuto Primo Ministro israeliano. La nascita dello Stato di Israele è stata accompagnata dal terrorismo ebraico.

Come ho detto in un video, e vorrei che fossimo tutti d’accordo — la Segre inclusa — non esistono popoli eletti, non esistono potenze eccezionali o indispensabili.

Esiste l’umanità, con i suoi diritti e la sua lotta perpetua contro la barbarie.

da qui

 

 

Non tutte le occupazioni sono uguali – Francesco Masala

Se qualcuno non ha ancora chiaro cosa significa il concetto di doppio standard, potrebbe dare un’occhiata alle variazioni del Codice penale Italiano, a causa del Decreto Sicurezza, sul tema delle occupazioni di altrui proprietà, faccia lo sforzo di leggere le righe sotto, fra parentesi:

(La fattispecie di nuovo conio vuole differenziarsi da alcuni reati simili già previsti dall’ordinamento. Il primo è quello di invasione di terreni o edifici (articolo 633 c.p.) che punisce a querela l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui privati o pubblici al fine di occuparli o trarne profitto e che diventa punibile d’ufficio quando il fatto è commesso da più di cinque persone o da persona palesemente armata…

…L’art. 634 bis vuole punire con la reclusione da 2 a 7 anni la condotta commessa con violenza o minaccia di occupazione o detenzione senza titolo di immobile destinato a domicilio altrui, e di impedimento al rientro del proprietario o del legittimo detentore nell’immobile e la condotta commessa con artifizi o raggiri di appropriazione dell’altrui immobile o di cessione ad altri dell’immobile occupato. L’acquisizione fraudolenta, nel testo del nuovo articolo, sembra riferita a tutti gli immobili altrui, mentre la condotta di occupazione violenta si limita a quelli destinati a domicilio del proprietario. In sede referente è stata estesa l’applicazione della fattispecie all’occupazione o appropriazione fraudolenta delle pertinenze dell’immobile.

Il secondo comma dell’art. 634 bis applica la stessa pena a chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile (al di fuori dei casi di concorso), ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione… da qui)

Il governo Meloni ha deciso che ci saranno fino a sette anni di galera per chi occupa una proprietà altrui e per chi coopera nell’occupazione dell’immobile, in Italia.

Provate a pensare quanti anni di galera dovrebbe fare ogni singolo componente del governo italiano, che coopera nell’occupazione, non solo di un immobile, ma di una nazione, e nel genocidio di un popolo intero, se applicassero la legge in maniera ampia.

Sicuramente nel governo Meloni pensano che una singola morte (in Ucraina) è una tragedia, un milione di morti (in Palestina) sono una statistica.

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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