Ricordando Piaget

di Bruno Lai

 

Jean Piaget

Geniale embriologo dell’intelligenza

Jean Piaget nasce il 9 agosto 1896 a Neuchâtel, in Svizzera. Ma non è esattamente un bambino come gli altri. Ha un padre, Arthur, che si occupa di letteratura medievale il quale, dalla più tenera età, gli insegna «il valore del lavoro sistematico, anche negli argomenti minori». La madre Rebecca Jackson, francese, soffre di nevrosi e rende «la nostra vita familiare piuttosto agitata».

La «scarsa salute mentale» della madre spinge il piccolo Jean a imitare il padre, abbandonando il gioco e immergendosi subito nello studio della meccanica, degli uccelli, dei fossili e delle conchiglie. A soli sette anni comincia a comporre con orgoglio un libro, I nostri uccelli, sulla fauna avicola della zona di Neuchâtel; ma i commenti ironici del padre lo inducono ad ammettere che si tratti di una «semplice opera di compilazione».

«A dieci anni, quando cominciai a frequentare la scuola superiore, decisi di diventare più serio» scrive nella sua Autobiografia. E proprio allora dà alle stampe il suo primo articolo scientifico! Avvista un passero semialbino in un parco, lo osserva sistematicamente, lo descrive nell’articolo Un moineau albinos, una paginetta, lo invia al giornale locale di storia naturale “Rameau de Sapin”, che glielo pubblica.

Entusiasta per questo primo risultato, scrive a Paul Godet, direttore del Musée d’Histoire Naturelle di Neuchâtel e ottiene il permesso di «studiare, fuori orario, le sue collezioni di uccelli, di fossili e di conchiglie». Dedica tutto il suo tempo libero a collezionare e studiare molluschi, di cui Godet è un grande studioso, applicando i princìpi del lavoro sistematico che il padre gli ha trasmesso. Nel 1911, dopo la morte di Godet, pubblica diversi «articoli sui molluschi non soltanto della Svizzera, ma anche della Savoia, della Bretagna e perfino della Colombia». Scritti da un adolescente, sono evidentemente già lavori di tutto rispetto se è vero che i pochissimi esperti di malacologia – la disciplina che studia i molluschi – si accorgono di lui. Alcuni gli scrivono, desiderano incontrarlo, ma lui si sottrae: «essendo io ancora uno studente non osavo mostrarmi e dovetti declinare inviti così lusinghieri».

Non basta! Bedot, il direttore del Musée d’histoire naturelle di Ginevra gli offre un posto di curatore della collezione di molluschi, che comprende anche quelli di Jean-Baptiste Lamark, il celebre naturalista autore della prima teoria dell’evoluzione predarwiniana. «Dovetti rispondere che mi mancavano ancora due anni di studio per conseguire la licenza liceale». Così l’adolescente Jean declina l’offerta.

Negli stessi anni ha una serie di crisi esistenziali, filosofiche e religiose, ma il metodo sistematico acquisito negli studi naturalistici lo protegge «contro il demone della filosofia». Avverte con turbamento la «difficoltà di conciliare molti dogmi con la biologia», con l’evoluzione delle specie scoperta da Darwin. Il padrino Samuel Comut, che desidera iniziarlo alla filosofia, gli parla dell’evoluzione creatrice del filosofo Henri Bergson: «Era la prima volta che sentivo parlare di filosofia da qualcuno che non era un teologo: lo shock, devo ammetterlo, fu terribile». E si tratta di un doppio shock, emotivo e intellettuale. In particolare lo affascina il problema epistemologico, ovvero di come si generi la conoscenza: «Questo mi decise a consacrare la mia vita alla ricerca della spiegazione biologica della conoscenza». La lettura di Bergson però lo delude perché il filosofo costruisce un’ingegnosa architettura ma priva di basi sperimentali.

Il giovane Jean diventa un lettore insaziabile: legge di molluschi, di biologia, ma anche di filosofia; «tutto quello che mi capitava tra le mani: Kant, Spencer, Auguste Comte, Fouillée e Guyau, Lachelier, Boutroux, Lalande, Durkheim, Tarde, Le Dantec». Legge anche di psicologia: William James, Théodule Ribot, Pierre Janet. I suoi interessi sono piuttosto ampi: frequenta la scuola e assiste a lezioni universitarie di logica, psicologia, metodologia scientifica. Continua a scrivere e pubblicare. Coltiva con impegno l’interesse per l’epistemologia, la teoria della conoscenza, ma desidera comprendere la conoscenza come fenomeno biologico: «non ho mai creduto alla validità di un sistema che non fosse passibile di controlli sperimentali».

Si laurea in scienze naturali e nel 1918 si specializza con una tesi sui molluschi. Nello stesso anno pubblica un romanzo filosofico, Recherche, in cui si trovano già abbozzate alcune sue idee future sul rapporto fra il tutto e le parti e sull’equilibrio.

Dopo l’università, si trasferisce a Zurigo per lavorare in un laboratorio di psicologia sperimentale, continuando a leggere di tutto. Frequenta anche il Burghölzli, l’ospedale psichiatrico di Zurigo, diretto dal famoso psichiatra Eugen Bleuler; lì muove i primi passi Carl Gustav Jung, di cui segue alcune conferenze. Inoltre legge Freud e la rivista “Imago”. Per alcuni mesi è in analisi presso Sabina Spielrein, che più avanti aprirà il famoso Asilo bianco, o Solidarietà internazionale nella Mosca rivoluzionaria. Nel 1922 partecipa al congresso di psicoanalisi di Berlino e conosce personalmente Sigmund Freud; «a quel congresso io tenni una conferenza e ricordo l’angoscia che mi prese a dover parlare davanti a un pubblico tanto numeroso. Freud era seduto in poltrona alla mia destra e fumava il sigaro. Io parlavo a un pubblico che non mi degnava nemmeno di uno sguardo. Guardava solo Freud per scoprire se ciò che veniva detto era da lui approvato o meno. Quando Freud sorrideva, tutti nella sala sorridevano; quando Freud si mostrava serio, tutti nella sala si mostravano seri».

Jean ha chiaro il suo compito come studioso: «la mia strada era quella di utilizzare nella sperimentazione psicologica l’abito mentale che avevo acquisito nella zoologia». Ma non ha ancora deciso a quale area di sperimentazione dedicare le proprie energie. Ha ulteriormente ampliato i suoi interessi, ha studiato anche logica e filosofa della scienza, è tornato ai problemi concreti della malacologia, pubblicando uno «studio biometrico della variabilità dei molluschi terrestri come funzione dell’altitudine»; ha frequentato un corso di psicologia patologica, imparando ad intervistare i malati di mente di Sainte-Anne, ma non ha ancora ben chiaro che cosa fare da grande.

Qui interviene la fortuna: viene raccomandato allo psicologo francese Théodore Simon. In quel periodo Simon ha a disposizione il laboratorio del suo maestro, Alfred Binet (nato Alfredo Binetti), specialista nella misurazione dell’intelligenza. Binet e Simon sono gli autori del primo test di intelligenza, il Binet-Simon, da cui si ricava il QI (quoziente intellettivo). Simon propone a Piaget di standardizzare i test di Cyril Burt, altro psicologo, inglese, che in quegli anni lavora alla misurazione dell’intelligenza. Inizialmente Piaget non è entusiasta, ma presto si galvanizza: il laboratorio di Binet è all’interno della scuola elementare di rue de la Grangeaux-Belles, a Parigi. Il giovane talento svizzero ha a disposizione un’intera scuola per le sue ricerche!

Piuttosto che eseguire pedissequamente il compito affidatogli, che consiste nel proporre il test ai bambini e misurare successi ed insuccessi, Jean trova più interessanti le ragioni dei loro fallimenti. Impegna ciascun bambino in conversazioni strutturate, preparate sulla base del questionario psichiatrico che aveva imparato ad usare: vuole scoprire in base a quali ragionamenti i bambini giungono alle loro risposte giuste e, soprattutto, a quelle sbagliate. Scopre, infatti, che alcuni «semplici compiti razionali» per i «bambini normali» di undici o dodici anni presentano difficoltà che gli adulti non sospettano. Si dedica quindi per due anni ad analizzare il ragionamento verbale dei «bambini normali» e ottiene anche il permesso di lavorare con i «bambini anormali» della Salpétrière.

Finalmente ha trovato la sua strada: analizzare i processi psicologici sottostanti alle operazioni logiche dei bambini. Ha scoperto che la logica non è innata, ma si sviluppa gradualmente nel bambino, seguendo tappe precise, disposte in un ordine non casuale, ma costante in tutti i bambini. Il suo studio di questi processi mentali è per lui «una sorta di embriologia dell’intelligenza».

Pubblica i risultati provvisori delle sue ricerche, in collaborazione con le sue allieve Alina Szeminska e Bärbel Inhelder, e ottiene un immediato riconoscimento presso la comunità scientifica internazionale. Da qui in poi pubblica tantissimi libri. La sua bibliografia, oggi, conta centinaia di titoli fra libri, articoli su riviste specialistiche, testi di conferenze ecc.

Conosce un altro grande studioso, Édouard Claparède, psicologo e pedagogista, autore di un’importante teoria dell’intelligenza. Claparède gli offre di dirigere gli studi presso il prestigioso Institut Jean-Jacques Rousseau o École des sciences de l’éducation di Ginevra. Prosegue le sue ricerche sullo sviluppo dell’intelligenza presso la Maison des Petits dell’Institut J.-J. Rousseau coinvolgendo tutti gli studenti dell’Istituto. Incontra così Valentina Châtenay, che sposa e con cui continua a collaborare. Avranno tre figli, che saranno oggetto di studio ed esperimenti per osservarne attentamente lo sviluppo intellettivo. Piaget ha chiaro che il pensiero deriva dall’azione, dalle attività manipolatorie che compiono i bambini più piccoli. Gradualmente individua gli stadi di sviluppo dell’intelligenza.

Si susseguono inviti all’estero per tenere conferenze, incarichi prestigiosi, sempre accompagnati da un’intensissima attività di ricerca e di insegnamento universitario. Durante la sua lunga carriera universitaria insegna un po’ di tutto: filosofia, psicologia infantile, filosofia della scienza, storia del pensiero scientifico, psicologia sperimentale e sociologia. Nel 1929 diventa direttore del Bureau International de l’Education, poi più avanti, dopo la guerra, membro del consiglio esecutivo dell’UNESCO. Diverse università del mondo lo insigniscono della laura ad honorem in psicologia: in fondo, era laureato in scienze naturali. Nel 1956 fonda il Centre International d’Epistémologie Génétique a Ginevra, che diventa un vivace luogo di incontro per studiosi di differenti discipline, provenienti da tutto il mondo.

Con la sua monumentale produzione scientifica, Jean Piaget rivoluziona la psicologia e può essere considerato un filosofo suo malgrado. Nel 1965 pubblica Sagesse et illusions de la philosophie – Saggezza e illusioni della filosofia – in cui critica il carattere speculativo della filosofia. Le teorie filosofiche, apprezzabili quando si tratta di riflessioni teoriche e norme etiche – argomenta lo psicologo svizzero – falliscono quando si addentrano nel campo delle scienze della natura e dell’uomo, perché le loro affermazioni non possono essere sottoposte al controllo dell’esperienza.

Personalità geniale, Piaget è un ricercatore nato: «sono fondamentalmente un inquieto che solo il lavoro può placare». Lavoratore infaticabile, continua a scrivere e tenere conferenze per tutti gli anni Settanta. Muore nel 1980.

Fare considerazioni sulla sua teoria dello sviluppo cognitivo rischia di essere troppo per le mie forze. Però si può accennare ad alcune sue conquiste. Per Piaget, l’intelligenza è la forma più elevata di adattamento all’ambiente, un adattamento mentale. Questo adattamento è frutto di due processi che tendono all’equilibrio: l’assimilazione e l’accomodamento. Abbiamo assimilazione quando il bambino applica a un’azione nuova schemi d’azione preesistenti: i bambini piccoli, per esempio, mettono in bocca e mordono tutto ciò che capita alla loro portata, soprattutto gli oggetti nuovi. È come se esplorassero il mondo attraverso l’azione che sanno già compiere: mordere. Ma non tutti gli oggetti si lasciano mordere. Qui entra in gioco l’accomodamento: il bambino modifica uno schema di azione già acquisito per renderlo compatibile con l’oggetto nuovo, per adattarlo a esso. Se si dà a un bimbo una palla troppo grande per essere morsa, egli proverà qualche nuova azione sulla palla. Così se scopre che, schiacciandola, quella palla suona, una volta trovata la nuova caratteristica, continuerà a schiacciarla per farla suonare, adeguandosi a tale aspetto (accomodamento). Tutto lo sviluppo mentale, per Piaget, è dato dalla tensione fra queste due tendenze – assimilazione e accomodamento – e dalla conquista dell’equilibrio tra di esse.

Tutto deriva dall’azione, dall’agire del bambino nel mondo e su se stesso. Conoscere è agire, manipolare: dapprima concretamente, poi nella mente. Il bambino mette in atto all’inizio schemi d’azione semplici e ripetitivi. Gradualmente, da queste azioni più semplici si sviluppano azioni sempre più complesse, che danno luogo anche ad «azioni mentali», cioè rappresentazioni mentali dell’azione, fino alle operazioni, che sono azioni caratterizzate dalla reversibilità, indispensabili per accedere alle conquiste dell’aritmetica e delle scienze.

Lo sviluppo dell’intelligenza avviene attraverso una successione di stadi che seguono un ordine preciso e inalterabile per tutti i bambini. Nel primo anno e mezzo di vita il bambino ha uno sviluppo caratterizzato dal progressivo perfezionamento del coordinamento fra sensi e motricità: siamo nello stadio senso-motorio. Segue un periodo che dura all’incirca fino all’età dell’ingresso nella scuola primaria (6 o 7 anni) in cui il bambino sviluppa un’intelligenza preoperatoria, non ancora adatta alla matematica e al rigore delle scienze fisiche e naturali, ma già sufficiente come guida per la maggior parte delle attività della vita quotidiana.

L’ingresso nella scuola primaria coincide con l’importante conquista delle operazioni, cioè di azioni reversibili. Una prima fase del pensiero operatorio vede questo legato ancora ad azioni concrete, incapace di astrazione. Piaget lo chiama, appunto, stadio delle operazioni concrete o operatorio concreto. L’esempio più efficace è dato dal travaso di liquidi.

Le azioni reversibili, o «operazioni», sono azioni che possono essere compiute, ottenendo un risultato; dopodiché possono essere “annullate” dall’azione inversa, tornando alla situazione di partenza. È più chiaro con un esempio concreto: il travaso di un liquido è una tipica operazione, cioè un’azione reversibile. Se verso dell’acqua da un bicchiere alto e stretto in uno basso e largo, nel secondo bicchiere il livello dell’acqua appare più basso; ma io posso versare di nuovo l’acqua nel primo bicchiere e ottengo che il livello torni quello di prima. Questo è il principio della «conservazione della quantità»: se cambiamo la forma di una data massa di sostanza (nell’esempio appena fatto, muta la forma del contenitore) la sua quantità rimane inalterata.

È di estremo interesse osservare un bambino che sta per conquistare lo stadio di sviluppo delle operazioni. Se, davanti ai suoi occhi, travasiamo un liquido da un bicchiere ad un altro, di forma diversa, e gli chiediamo se nel secondo bicchiere ci sia la stessa quantità di acqua che c’era nel primo, oppure di più o di meno, il bambino pre-operatorio osserverà con molta attenzione i due bicchieri e il travaso, cercando la risposta in quel che vede. Il bambino operatorio, invece, ha acquisito la nozione di conservazione della quantità e ha chiaro che, sebbene il livello del liquido nei due bicchieri sia differente, la quantità dell’acqua rimane la stessa. Questa conquista, che di solito avviene verso i sei sette anni, è fondamentale per aprire al bambino il mondo della matematica.

Detto con le parole non sempre semplici di Piaget: «Il criterio migliore per valutare l’apparizione delle operazioni a livello delle strutture concrete (intorno ai 7 anni circa) è il costituirsi di invarianti o nozioni di conservazione. Un’operazione è ciò che trasforma uno stato A in uno stato B, lasciando nel corso della trasformazione almeno una proprietà invariante, e con possibilità di ritornare da B ad A annullando la trasformazione. A livello operatorio, il bambino ammette l’esistenza, che gli sembra anche evidente, di invarianti, perché concepisce l’azione di trasformazione come reversibile».

Lo stadio successivo, quello più elevato e definitivo, consiste nella capacità di compiere operazioni formali, cioè astratte. Siamo ormai all’adolescenza e il ragazzo diventa in grado di ragionare in termini di ipotesi astratte, del tipo «se… allora…». Un esempio efficace del pensiero operatorio formale è dato dall’uso dei dadi. Si pone al ragazzo questo problema: due individui giocano a dadi, per tantissime volte. Uno punta sempre sul 2, l’altro sul 7. Chi vincerà più spesso? O vinceranno un numero di volte all’incirca uguale? In altre parole, nel gioco dei dadi il 2 e il 7 hanno le stesse probabilità di uscita o hanno probabilità diverse?

La soluzione corretta è possibile solo a livello di intelligenza operatoria formale, ovvero di pensiero ipotetico deduttivo. La soluzione può essere raggiunta anche da chi non abbia mai giocato a dadi, perché non dipende dall’esperienza concreta. Ciò che conta sono i termini del problema. Sulla sola base di questi è possibile infatti concludere che il 7 uscirà più spesso del 2, dato che esso è frutto delle sei combinazioni 6+1; 1+6, 5+2; 2+5; 4+3; 3+4; mentre il 2 può essere dovuto alla sola combinazione 1+1.

Il contributo di Piaget alla psicologia dello sviluppo non si ferma a questi importantissimi risultati. Egli si è occupato anche di sviluppo del linguaggio e del giudizio morale, nonché delle conseguenze pedagogiche delle sue scoperte. Alcuni suoi risultati sono stati oggetto di critiche circostanziate. Il grande psicologo russo Lev Vygotskij, per esempio, scrisse: «Le regole che Piaget ha fissato, i fatti che ha trovato, hanno un significato non universale, ma limitato. Sono validi hic et nunc, qui e ora in un ambiente sociale dato e determinato. Così si sviluppa non il pensiero del bambino in generale, ma il pensiero di quel bambino che ha studiato Piaget». Per Vygotskij quella di Piaget è la psicologia del «bambino svizzero». Al di là di questa e di altre osservazioni critiche, i risultati dello studioso svizzero sono comunque imprescindibili per psicologi, pedagogisti ed educatori che si occupino oggi di bambini.

Piaget ha investito molte energie anche nella nuova disciplina da lui inaugurata, l’epistemologia genetica – in realtà frutto dell’impegno multidisciplinare di studiosi di differenti specializzazioni scientifiche. «L’epistemologia genetica – scrive – si occupa della formazione e del significato della conoscenza e dei mezzi attraverso i quali la mente umana passa da un livello di conoscenza inferiore a uno giudicato superiore. Non è compito degli psicologi decidere quale conoscenza sia inferiore ma è loro compito, piuttosto, spiegare come avviene il passaggio dall’una all’altra. La natura di questi passaggi, che sono storici, psicologici e talvolta anche biologici, è un problema reale. L’ipotesi fondamentale della epistemologia genetica è che ci sia un parallelismo tra il progresso compiuto nell’organizzazione razionale e logica della conoscenza e i corrispettivi processi psicologici formativi». C’è quindi un parallelismo, secondo lui, fra lo sviluppo storico delle scienze e lo sviluppo mentale del bambino; una identità strutturale fra il percorso storico dell’umanità dall’homo primitivo allo scienziato occidentale contemporaneo e il processo evolutivo mentale dell’individuo odierno, dal neonato all’adulto.

Ricordato come pedagogista, oltre che come psicologo, così il ricercatore svizzero considerava la funzione della scuola: «L’obiettivo principale dell’educazione nelle scuole dovrebbe essere quello di creare uomini e donne che siano capaci di fare cose nuove, non soltanto di ripetere semplicemente ciò che le altre generazioni hanno fatto».

Bibliografia essenziale:

Paolo Legrenzi, Piaget e la scuola di Ginevra, in Id. (a cura di), Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna 1980.

Luciano Mecacci, Storia della psicologia del Novecento, Laterza, Roma-Bari11992.

Jean Piaget, Autobiografia, in Id., Che cos’è la psicologia, a cura di Richard I. Evans, Newton Compton, Roma 1979, 2000.

Renzo Vianello, Lo sviluppo dell’intelligenza secondo Piaget, in Id., Psicologia, Juvenilia, Milano 1998.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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