Shellerati: una sentenza storica

Testi di Daniela Passeri e Roberto Zanini. A seguire una nota della “bottega”

NELLA FOTO La gioia di Donald Pols, direttore dell’associazione ambientalista olandese Milieudefensie (Difesa ambientale) dopo la sentenza

Vincono i cittadini, Shell condannata

Sentenza storica dei giudici olandesi: la multinazionale del petrolio e del gas dovrà dimezzare da subito le emissioni di CO2

di Daniela Passeri (*)

La compagnia petrolifera Shell è responsabile per la crisi climatica, deve tagliare le sue emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019 e cambiare la sua politica industriale. Shell non può continuare a estrarre combustibili fossili, trivellare, fare esplorazioni mentre la febbre del pianeta sale, ma deve assumersi le sue responsabilità e deve farlo subito, perché le sue attività e tutti i prodotti della sua filiera petrolifera, in Olanda e in tutti i paesi dove Shell opera, costituiscono una minaccia a un diritto umano fondamentale, quello alla vita e alla salute delle persone. Lo ha stabilito ieri – ed è la prima volta che accade – un giudice olandese della prima Corte dell’Aja nel processo che ha visto la Royal Dutch Shell citata in giudizio con l’accusa di non aver rispettato l’Accordo di Parigi sul clima da 17.379 cittadini olandesi con il supporto delle organizzazioni ambientaliste Milieudefensie (Friends of the Earth NL), Greenpeace, BothENDs, ActionAid, Fossielvrij, Jongeren Milieu Actief e Waddenvereniging.

LA SENTENZA HA FATTO IN POCHI MINUTI il giro del mondo, attesa com’era da chi è in prima linea per la giustizia climatica, per le enormi conseguenze che potrebbe avere su altre aziende petrolifere come Shell, che sono tra i principali responsabili della crisi climatica: secondo i dati discussi nel dibattimento, le 5 maggiori compagnie oil&gas (Shell, Chevron, Exxon, BP e Conoco Phillips) sono responsabili del 12,5% di tutte le emissioni climalteranti prodotte nel mondo a partire dal 1854. Da sola, Shell è responsabile di 1, 6 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, che equivalgono al 3% di tutte le emissioni globali, il doppio di quanto emetta un paese come l’Italia.

FA FATICA A CONTENERE LA GIOIA l’avvocato Roger Cox, lo stesso che aveva istruito e vinto nel 2019 una causa analoga contro il governo olandese che fu di conseguenza obbligato dai giudici a spegnere due centrali a carbone in Olanda per allinearsi agli obiettivi climatici. «Siamo ad un punto di svolta: questa causa è unica nel suo genere perché per la prima volta un giudice impone a un’azienda inquinante di rispettare l’Accordo di Parigi – ha commentato a caldo Cox – La sentenza può avere conseguenze importanti per altre aziende simili». Se lo augura anche Sara Shaw, dell’associazione Friends of the Earth International che definisce la sentenza una «vittoria storica per la giustizia climatica. Ci auguriamo che questa vittoria inneschi un’ondata di cause climatiche contro i principali responsabili delle emissioni per indurli a smettere di estrarre e bruciare idrocarburi. Questa è una vittoria delle comunità del Sud globale che già stanno facendo i conti con devastanti impatti climatici».

Shell ha già annunciato che ricorrerà in appello. Però gli avvocati che hanno sostenuto l’accusa sono convinti che la sentenza abbia effetto immediato e si aspettano che tra alcuni giorni la compagnia dichiari come intenda raggiungere i massicci obiettivi di riduzione delle emissioni che sono stati fissati dai giudici: «Come Shell dovrà raggiungere questi obiettivi non dobbiamo dirlo noi. Dipenderà da loro. Hanno nel loro staff alcuni dei migliori tecnici del mondo, troveranno di sicuro una soluzione – ha dichiarato Donald Pols, direttore di Milieudefensie – Noi continueremo a portare in tribunale, insieme ad altre organizzazioni della società civile, le aziende che mettono in pericolo con le loro attività la stabilità climatica. Una sentenza che fino a 5 anni fa sembrava impossibile oggi è stata pronunciata».

NELLE ULTIME SETTIMANE, a giocare a favore delle necessità impellente di accelerare sulla transizione energetica sono intervenute due massime autorità. In Germania, una sentenza della Corte Costituzionale del 30 aprile scorso ha dichiarato insufficiente la legge climatica tedesca e ha imposto al governo Merkel di migliorarla. Pochi giorni dopo, un report della IEA, l’Agenzia internazionale per l’energia, ha indicato la necessità di smettere di investire nelle fonti fossili come l’unico modo per abbattere le emissioni e raggiungere gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi.

NON SENZA UN PIZZICO DI IRONIA, Pols ha detto che la sentenza di ieri aiuterà Shell «diventare la prima compagnia petrolifera a partecipare alla transizione energetica» e che il verdetto non avrà effetti sulla sua competitività, dal momento che «stiamo lavorando ad altre cause simili, quindi le altre compagnie petrolifere non godranno di alcun vantaggio competitivo».

Resta da capire a cosa potrebbe andare incontro Shell se non rispettasse la sentenza. Secondo l’avvocato Cox, i cittadini olandesi che hanno fatto causa e le organizzazioni ambientaliste potrebbero chiedere un risarcimento, «ma riteniamo che non sia necessario. Ci aspettiamo che una compagnia come Shell rispetti la giustizia. Diamogli solo il tempo di reagire».

Shell da parte sua ha diramato un comunicato nel quale dichiara di investire «milioni di dollari in energia a basse emissioni, in stazioni di ricarica di veicoli elettrici, idrogeno, fonti rinnovabili e biocarburanti. Vogliamo far crescere la domanda per questi prodotti e aumentare queste nuove attività sempre più velocemente. Continueremo con questi sforzi e faremo appello contro questa spiacevole sentenza».

Secondo Michael Burger, a capo del Sabin Center for Climate Change Law, un dipartimento della Columbia University che monitora in tempo reale i casi di giustizia climatica globali, «senza dubbio questa sentenza contribuirà a sviluppare cause simili nel mondo». Per la deputata verde europea Jutta Paulus «le aziende non possono nascondersi dietro l’inattività degli stati, ma hanno il dovere di contribuire alla politica climatica. Da domani, tutti gli investimenti in progetti del settore oil&gas saranno sempre più a rischio».

Il messaggio per le compagnie che producono petrolio e gas è forte e chiaro. Per Greenpeace International «Shell non potrà più violare i diritti umani per conseguire i propri profitti a scapito delle persone e del pianeta. Il carbone, il petrolio e il gas devono rimanere nel sottosuolo. I popoli del mondo chiedono giustizia climatica». Ieri un po’ di giustizia è stata fatta.

(*) ripreso da “L’extraterrestre” – del 27 maggio – inserto settimanale ecologista che esce con “Il manifesto” ogni giovedì

 

Shell di tutto il mondo, preoccupatevi. C’è una giudice all’Aja

Prima mondiale. La multinazionale anglo-olandese deve tagliare le sue emissioni di gas serra. Subito. È il terzo schiaffo giudiziario in pochi mesi. Il gigante petrolifero è il nono inquinatore globale. I primi dieci sono tutti nel business dei combustibili fossili. Intanto, sempre riguardo agli investimenti “oil only”, azionista “attivista” riesce a cacciare due direttori del Cda della Exxon

di Roberto Zanini (**)

Petrolieri di tutto il mondo, preoccupatevi. Un’associazione ambientalista e 17mila cittadini olandesi hanno vinto contro un peso massimo del petrolio, la Royal Dutch Shell. A cui una giudice dell’Aja ha ordinato di tagliare le emissioni di gas serra e di farlo ora, non fra trent’anni.

È UNA PRIMA MONDIALE, gioiscono i capi di Milieudefensie (Difesa ambientale, in olandese). Perché Shell è il nono inquinatore mondiale. E perché non sono solo i governi a dover rispettare gli Accordi di Parigi sul clima. Ora anche le aziende, almeno quelle che hanno fatturati come il pil di un piccolo-medio stato.

Milieudefensie è nata come associazione di scienziati nel 1971, oggi è la branca olandese di Amici della Terra e dichiara 90mila iscritti. Con 300mila dollari di budget per avvocati, ricerche ed esperti, ha sfidato una delle quattro più grandi compagnie del pianeta, che fattura 260 miliardi di dollari l’anno in 140 paesi. L’ha sfidata in casa sua – il quartier generale e a Houston, in Texas, ma la sede fiscale è L’Aja. E l’ha sfidata sulla base del «danno imminente» e della preminenza del danno collettivo sull’interesse aziendale, e anche questa è una prima.

Perché Shell non ha fatto niente di illegale, ha stabilito la giudice Larisa Alwin. Ma siccome il 95% dei suoi investimenti sono e continuano ad essere spesi per trivellare petrolio o per cercarne altro, e da decenni si è a conoscenza dei danni dei gas serra, i generici impegni non bastano più: troppo evidente il danno in arrivo per i cittadini olandesi (e magari per tutti quelli che respirano un’aria simile), troppo lieve l’impegno per contrastarlo – la definizione del giudice è «intangibile, indefinito e non vincolante». Quindi la sentenza: taglio del 45% dei gas serra entro il 2030, sia i vostri che quelli provocati dai vostri prodotti. Fate come volete, scrive il giudice, ma tagliate.

LA MULTINAZIONALE anglo-olandese – nata nel 1907 per contrastare lo strapotere della Standard Oil di Rockefeller e adeguatasi molto in fretta alla sua prassi industriale – ha espresso «disappunto» e annunciato ricorso, sulla base tra l’altro del fatto che a dover dar retta agli Accordi di Parigi sono i paesi che li hanno firmati e non le aziende. I più grandi e inquinanti firmatari di quegli accordi, peraltro, erano gli Stati uniti, e appena Trump divenne presidente li stracciarono di gran carriera. Perché dovrebbe conformarvisi un’impresa, che ha negli azionisti i soli elettori che contano?

Ma «ci sarà un giudice a Berlino»: come il mugnaio settecentesco bistrattato dal suo conte si rivolse a Federico II, così la piccola Milieudefensie ha congregato un altro po’ di associazioni – tra cui Greenpeace – e si è rivolta al giudice dell’Aja. E ora gli imperi dei combustibili fossili devono guardarsi da una pioggia di cause simili nelle rispettive sedi fiscali. L’avvocato di Milieudefensie, Roger Cox, già lo teorizza: «Raccogliete il guanto di sfida», ha detto, chiedendo di aprire cause così ovunque sia possibile.

CHE SHELL È IL NONO INQUINATORE mondiale lo dice il Carbon Majors Database. I primi dieci sono tutti nei combustibili fossili e da soli fanno oltre un terzo della percentuale dei gas serra mondiali: China Coal (14,3%), Saudi Aramco (4,5%), Gazprom (3,9), National Iranian Oil (2,3%), ExxonMobil (2%), Coal India (1,9%), Pemex Mexico (1,9%), Russia Coal (1,9%), Royal Dutch Shell (1,7%), China national petroleum (1,6%).

La causa è iniziata lo scorso 1 dicembre e Shell, sicura di vincere, aveva presentato il suo calendario contro i gas serra che prevedeva di tagliare le emissioni carboniche del 20% entro il 2030, per arrivare a emissioni zero entro il 2050. Ma per taglio, il gigante petrolifero intendeva più che altro l’impiego di una tecnologia detta Ccs (Carbon capture & storage), che prevede di “catturare” l’anidride carbonica nell’aria e ficcarla in profondi pozzi sotterranei per i secoli dei secoli amen. Una tecnologia non ancora completamente disponibile. Per la quale comunque la Norvegia, grande e socialdemocratico produttore di petrolio, sta trivellando i suoi stessi mari nella fabbricazione di queste cisterne per rifiuti sempiterni – e sui cui anche l’Italia sembra contare per spendere un po’ dei soldi europei per l’ambiente.

È COMUNQUE IL TERZO SCHIAFFO giudiziario a Shell in pochi mesi. Lo scorso gennaio un tribunale olandese aveva condannato la multinazionale a compensare le vittime del disastro provocato dalla perdita di un oleodotto in Nigeria una decina di anni fa, e in febbraio la corte suprema della Gran Bretagna aveva reso possibile a migliaia di nigeriani di fare causa a Shell per danni ambientali nei tribunali inglesi.

E non è la sola batosta ecologica per i top petrolieri mondiali. Per la prima volta al mondo, due direttori nel consiglio d’amministrazione di Exxon – la più grande compagnia petrolifera americana, uno dei quattro big del mondo – sono stati cacciati da un azionista “attivista” che protestava per i pervicaci investimenti oil only dei gigante del greggio, quello che più di tutti si ostina a investire solo in petrolio e niente – ma proprio niente – in energie alternative (perdendoci anche, che è il vero motivo della cacciata). L’hedge fund “Engine N. 1” ha guadagnato i voti di un gruppo di potentissimi fondi-pensione americani e ha vinto due posti nel cda, estromettendo due dirigenti “nemici”.  È la prima volta che un azionista vince una battaglia ”ambientale”, ma è solo l’inizio.

(**) ripreso dal quotidiano “il manifesto”

UNA NOTA DELLA “BOTTEGA”

Qui spesso scrivendo Shell togliamo la “s” iniziale come fanno in Nigeria: e diventa «hell» cioè inferno in inglese. Allo stesso modo in “bottega” ogni volta che nominiamo le politiche dell’ENI (in Italia e nel mondo) scriviamo «vel-ENI» per ricordare di che lacrime grondi e di che sangue il suo potere. Diamo molto spazio a chi racconta cosa davvero accade e viene invece taciuto dai “grandi” media (servi nell’anima e ulteriormente corrotti a suon di pubblicità milionarie) perchè la «dittatura del petrolierato» è ben più lunga e tragica di quella che fu detta «dittatura del proletariato» e che è da tempo finita… eppure i media presunti e autoproclamati “grandi” continuano a tormentarci con i crimini veri (o presunti) del proletariato versione russa senza parlare mai del petrolierato che ogni giorno avvelena i popoli e la Terra. Lo ricordiamo – a chi magari passa in “bottega” di rado – e chiediamo un aiuto in questa lotta per diffondere notizie, appelli e iniziative dal basso contro uno dei più temibili nemici dell’intera umanità. Ecco alcuni dei nostri post più interessanti per chi si accosta adesso alle infamie Shell: Delitti in Nigeria: sotto processo la Shell (del 2017) e Ken Saro-Wiwa, S-hell, Eni e i silenzi in Italia (del 2010). Vedi anche il recente Tre sconfitte per Shell: due in tribunale e… con articoli di Amnesty, Luca Manes (Re:Common) e Maurizio Bongioanni.

 

Redazione
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Un commento

  • Nuova sconfitta per Shell In Nigeria. E la riforma del settore petrolifero agita la regione del Delta
    di Bridget Ohabuche (*)
    Dopo la recente sentenza della Corte suprema di Londra che impone a Shell di pagare 111 milioni di dollari alle comunità di Ejama-Ebubu in Nigeria, per le decennali fuoriuscite di petrolio dai suoi impianti, lunedì la Corte d’appello di Abuja ha detto sì alla revoca della licenza con cui la compagnia anglo-olandese avrebbe potuto operare nel blocco petrolifero Oml 11, situato nella regione di Ogoni, nel Delta del Niger, per i prossimi vent’anni.

    I diritti di sfruttamento del blocco Oml (Oil Mining Lease), con 33 giacimenti di petrolio e gas di cui otto operativi, vengono così trasferiti alla Nigerian National Petroleum Company (Nnpc), la società petrolifera di stato. Fatto che, secondo il suo direttore generale Mele Kyari, rappresenta «un’enorme vittoria per il Paese, che ora può sbloccare responsabilmente le riserve che il blocco offre». Delusione per la sentenza è stata invece espressa da Shell, che ha annunciato ricorso. Shell resta inoltre oggetto di azioni legali per danni ambientali nella regione del Delta del Niger.
    Il blocco Oml 11 è considerato potenzialmente il più prolifico asset di petrolio e gas in Nigeria, con una produzione giornaliera stimata in 250mila barili con tutti i suoi 33 pozzi in produzione. Il pieno sfruttamento aiuterebbe non poco l’economia nigeriana dopo l’instabilità causata dalla pandemia.
    In questo contesto si inserisce la firma messa dal presidente Buhari sulla legge di riforma del settore petrolifero. Dopo vent’anni di tentativi falliti da parte di diversi governi, la legge – Petroleum Industry Act 2021 – viene considerata da Buhari «una grande vittoria» perché dovrebbe garantire un ampio controllo al governo nigeriano nella gestione delle risorse petrolifere, che da decenni costituiscono la principale causa dei conflitti etnici nel Paese.
    Tuttavia non sembra una «vittoria» condivisa da tutti. Le comunità del Delta e del Sud-Est nigeriano sono già sul piede di guerra. Alhaji Mujahid Asari-Dokubo, leader di etnia Ijaw, fondatore in passato del gruppo armato Niger Delta People’s Volunteer Force. descrive la riforma come «il più grande torto che sia mai stato fatto alla regione». Spiegando che «la quota delle entrate petrolifere richiesta della regione era del 10%, ma il governo non è andato oltre il 3%». Secondo lui la nuova legge ha solo rafforzato la politica di esclusione ed espropriazione che caratterizza il rapporto tra il governo centrale e le comunità residenti nella regione, i cui abitanti da anni patiscono enormi danni ambientali e vengono spesso costretti ad abbandonare le loro terre senza alcun preavviso o consultazione.
    Il petrolio e il gas – di cui la Nigeria vanta le maggiori riserve dell’Africa subsahariana – dominano l’economia della Nigeria, rappresentando circa il 90% dei proventi delle esportazioni.
    La nuova legge, che in sostanza trasforma la Nnpc in una società commerciale, punta ad incrementare significativamente le entrate statali e promette sia di arginare gli alti livelli di corruzione strutturale presenti nel settore, sia di distribuire meglio la ricchezza tra le comunità residenti. Con il prezzo del petrolio che è tornato a 74 dollari al barile, dopo il crollo a 35 circa dello scorso anno, il messaggio più forte però è per gli investitori internazionali.
    (*) dal quotidiano «il manifesto» del 25 agosto

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