Sistema-mondo: emigrazione-immigrazione e lavoro / 1

di Giorgio Riolo

Una dimensione storica fondamentale nel sistema mondiale e i rilevanti effetti nelle periferie e nei Paesi del centro. Il caso italiano.

Il testo che segue è la rielaborazione della relazione introduttiva tenuta da Giorgio Riolo all’incontro svoltosi a Casale Monferrato il 30 settembre 2021, primo appuntamento di un ciclo di incontri dal titolo “Cantiere migrazione: un altro punto di vista”, organizzato dal Tavolo Migrazione cittadino.

Giorgio Riolo ha ripreso quella relazione, aggiornando al luglio 2023 alcuni dati e soprattutto argomentando ancor più la centralità della questione migranti oggi in Italia e in Europa. In gioco è piuttosto il destino della nostra democrazia, della giustizia sociale e della qualità della nostra civiltà.

I.

La mia relazione si articolerà in vari punti o parti. Inizio col fare alcune considerazioni su nozioni, termini, categorie ecc. che ritengo necessari per precisare il pensiero e per “rifarci i fondamentali” rispetto al tema del nostro incontro. A grandi linee, va da sé. Così in seguito, nella seconda parte, darò alcuni tratti distintivi del fenomeno “migrazione” e del fenomeno “lavoro”.

Nella terza parte, procedo con il riassumere alcuni elementi di storia delle migrazioni, con il rapido esame di alcuni casi di paesi e di migrazioni, ritenuti esemplari, di ieri e di oggi. Mi soffermerò ovviamente sul caso italiano.

Infine una rapida conclusione, con alcune considerazioni finali per venire a oggi, alla nostra realtà contemporanea.

II.

Per comprendere il fenomeno migrazione, è utile precisare alcune nozioni chiave per avere un quadro di riferimento e di analisi da cui prendere le mosse.

1. Sistema-mondo

È la nozione decisiva. L’unità di analisi minima entro cui inquadrare i fenomeni storico-sociali, ma anche i fenomeni naturali, ambientali, climatici.

La categoria di “sistema-mondo”, elaborata dallo storico francese Fernand Braudel, è stata ripresa dal sociologo americano Immanuel Wallerstein e dalla scuola che da lui origina, chiamata “scuola del sistema-mondo”. Il sistema-mondo e l’economia-mondo capitalistica sovraordinano, strutturano, plasmano, influenzano l’economia nazionale e lo stato-nazione. Non viceversa.

Le ineguaglianze, le fratture, le scissioni ecc. entro uno stato-nazione hanno il corrispettivo decisivo nelle ineguaglianze, nelle fratture e nelle scissioni su scala mondiale. Centro-periferia, sviluppo-sottosviluppo, dominanti-dominati ecc. rappresentano le coppie dialettiche senza le quali non riusciamo a capire come funziona il mondo.

Noi terzomondisti, giovani e giovanissimi dei primi anni settanta del Novecento, usavamo allora una nozione importante, centrale ancora oggi e infatti ripresa da alcuni settori dei giovani di Friday For Future. È la nozione di “malsviluppo”, caratterizzante il capitalismo dalle origini a oggi. Percepivamo allora, anche confusamente, come il sistema capitalistico fosse irrimediabilmente asimmetrico, polarizzante, ineguale. I libri di Samir Amin di quegli anni, L’accumulazione su scala mondiale e Lo sviluppo ineguale, nelle edizioni italiane rispettivamente nel 1971 e nel 1977, ci hanno fornito il quadro teorico interpretativo fondamentale.

“Malsviluppo” non solo nella dimensione economica e sociale. Già allora avevamo chiaro che la questione ambientale era importante, che la questione di genere, la questione dei diritti umani, dei diritti civili ecc. erano importanti. Nel capitalismo “tutto si tiene”. E cercavamo di sfuggire alla gerarchia delle contraddizioni. La contraddizione capitale-lavoro salariato veniva considerata decisiva, sicuramente, ma non così egemonica rispetto alla contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente, rispetto alla contraddizione uomo-donna, rispetto alle contraddizioni riguardanti i diritti umani e civili.

Qui si nomina appena, ma meriterebbe una trattazione a sé, la nozione decisiva di colonialismo (e poi di neocolonialismo e di imperialismo) per comprendere le dinamiche contemporanee in generale. E in particolare rispetto alla “mente colonialistica” europea e occidentale, plasmata nei secoli del colonialismo, e che molto ha a che fare con il comportamento nei confronti dei migranti.

Entro questo contesto, per il tema del nostro incontro, si anticipa qui la nozione di “differenziazione etnica della forza-lavoro”, caratterizzante il capitalismo dalle origini a oggi, dallo schiavismo al cosiddetto “proletariato esterno” (Marx), formato da migranti.

2. Il lavoro

a. La categoria “lavoro” è il fenomeno originario del processo di ominazione. Possiede una dimensione “filosofica”, oltre alla sua ovvia dimensione materiale, economica. Ma il lavoro è un’astrazione. E come ogni astrazione unifica fenomeni concreti diversissimi. Pertanto le scissioni e le differenziazioni sono tantissime al suo interno. Lavoro manuale e lavoro intellettuale, lavoro direttivo e lavoro esecutivo, lavoro dipendente privato e lavoro dipendente pubblico, lavoro nel mercato del “lavoro formale” e lavoro nel mercato del “lavoro informale” (lavoro precario, lavoro nero, lavoro senza diritti e senza protezioni ecc.).

Il neoliberismo, ripetiamolo, già negli anni ottanta con la signora Thatcher e con Ronald Reagan, ma soprattutto negli anni dopo il 1989 (caduta del Muro di Berlino) e il 1991 (fine dell’Urss e quindi del socialismo reale) ha comportato un potente processo di svalorizzazione e di umiliazione del lavoro. Con il concomitante processo di “solitudine” del lavoro, a causa del venir meno del sostegno per lavoratrici e per lavoratori di settori sociali importanti come intellettuali, insegnanti, professionisti ecc. Il venir meno di quegli strati sociali in seguito denominati “ceto medio riflessivo” che tanto hanno apportato, tra fine anni sessanta e anni settanta (“il lungo 68 italiano”), alle lotte, alle mobilitazioni, alle conquiste complessive delle classi subalterne in Italia.

Entro questo quadro del classico laisser faire, laisser aller, con il neoliberismo la flessibilizzazione, la precarizzazione, la segmentazione estrema delle forme del lavoro e delle figure lavorative.

Alla vecchia formula del divide et impera si aggiunge la nuova formula del “segmenta e domina”. Centinaia e centinaia di tipi di contratto, di figure, fino alle partite Iva fasulle, hanno investito e continuano a investire il mondo del lavoro italiano e coinvolgendo soprattutto i migranti.

b. A proposito di mercato del lavoro formale e mercato del lavoro informale. Oggi nel mondo 6 lavoratrici e lavoratori su 10 sono impiegati nel settore informale. Naturalmente come media, con ovvie differenze tra paese e paese. In India, solo come esempio su scala mondiale, il 70% della manodopera rientra in questo settore.

c. Si diceva “differenziazione etnica della forza-lavoro”. Wallerstein lo considera tratto distintivo del “capitalismo storico”, dalle origini. E questa dinamica riguarda più da vicino il nostro incontro.

Marx ed Engels analizzarono bene la questione irlandese e trattarono, entro il complessivo movimento operaio inglese, in particolare delle cause e degli effetti della scissione, fino all’odio reciproco, tra operaio irlandese e operaio inglese. Tra gli effetti anche una delle ragioni del mancato sbocco rivoluzionario in Inghilterra, benché vi esistessero nell’Ottocento le condizioni oggettive per un rivolgimento. È il modello classico della dinamica della non-unità dei subalterni. Una situazione tanto nefasta e tanto significativa, sempre avendo come riferimento il tema al centro di questa relazione.

d. Altra classica nozione, trattata da Marx nel Libro I del Capitale, è il cosiddetto “esercito industriale di riserva”. Disoccupati, sottoccupati, precari, disperati, come la gran parte dei migranti, che premono sul mercato del lavoro e che in tal modo consente ai capitalisti e alle imprese di tenere bassi i salari e precarie le condizioni di lavoro.

III.

Queste ultime nozioni ci introducono al fenomeno migrazione vero e proprio.

Per chiarezza di esposizione, procedo per punti.

1. In sociologia, per spiegare i fenomeni migratori, si utilizzano due termini della lingua inglese per indicare due distinte dinamiche. Da una parte il push, la spinta, per indicare tutto ciò che spinge, che determina persone, gruppi umani, popoli a partire e a trasferirsi in un luogo dove poter lavorare, dove poter stabilirsi e poter vivere. Dall’altra il pull (da to pull, tirare), il richiamo, a indicare la dinamica della domanda di manodopera, del paese o luogo che presenta opportunità di lavoro e comunque di insediamento.

L’esempio classico di queste dinamiche è offerto dal caso dell’Irlanda. Tra il 1846 e il il 1848 condizioni climatiche sfavorevoli determinarono cattivi raccolti di patate, l’alimento fondamentale per la popolazione irlandese. Un milione e più di irlandesi morirono letteralmente di fame e di stenti. Un altro milione fu costretto a emigrare (il push) in Inghilterra e negli Usa (il pull, per il bisogno di manodopera in questi paesi in forte espansione economica).

Va da sé che storicamente la spinta a partire era data da problemi economici e di lavoro e in generale da problemi di sopravvivenza materiale, da guerre, da instabilità politica e sociale, da sistemazioni geopolitiche altamente problematiche (questione palestinese, questione curda, varie questioni in Africa ecc., tutte retaggio netto del colonialismo e dell’imperialismo).

Oggi si aggiunge la migrazione a causa di disastri ambientali e climatici, da penuria d’acqua potabile e di cibo ecc. Vedi gli esempi illustrati più avanti a proposito delle alluvioni in Pakistan e della grave situazione nel Corno d’Africa.

2. L’emigrazione costituisce sempre un vantaggio economico in sé per il paese di destinazione, oltre alla possibilità dello sfruttamento vero e proprio, e di converso un impoverimento per il paese di origine.

In primo luogo, il paese di origine contribuisce a formare l’individuo fino all’età adulta, fino all’età lavorativa, con alimenti e tutto ciò che serve per vivere. Ancor più contribuisce, in presenza di persone alfabetizzate o addirittura diplomate o laureate, con altre spese per la formazione scolastica, per l’apprendistato e la formazione professionale nel lavoro ecc. Al momento in cui lo stesso individuo è in grado di ripagare con il lavoro la propria comunità e il proprio paese e anzi di contribuire ad aumentare la ricchezza complessiva nel contesto d’origine, questo non avviene. Il paese di destinazione, il quale non ha speso niente per la formazione dell’immigrato, riceve una persona che produce immediatamente ricchezza.

Si dice pertanto che l’emigrazione è di per sé un “trasferimento di valore” nella persona stessa del migrante. Sia esso un ingegnere, un medico, un tecnico o semplicemente un bracciante, un manovale, un muratore, una forza-lavoro senza alcuna qualifica. Un aspetto importante della più generale dinamica dello “scambio ineguale” e dello “sviluppo ineguale” di cui un paese come gli Stati Uniti, come caso esemplare, ha beneficiato enormemente.

Paolo Cinanni, fondatore, nel lontano 1970, con Carlo Levi della Filef (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie) ed esponente del Pci, a suo tempo calcolò quanto valore fu trasferito agli Usa con l’emigrazione. Sempre prescindendo dallo sfruttamento supplementare di una forza-lavoro così subalterna e ricattabile come quella propria di un migrante.

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’ulteriore impoverimento dei paesi d’origine. I quali vengono privati di persone potenzialmente attive, non rassegnate, intraprendenti, coraggiose, magari dissidenti rispetto al contesto politico eventualmente oppressivo ecc. e che solo in parte questi paesi vengono compensati dalle “rimesse”, i risparmi dei migranti inviati alle famiglie nella terra d’origine.

3. Il migrante è spesso una persona senza diritti. È spinto dal bisogno e pertanto accetta ogni condizione di lavoro. Un solo esempio.

Negli Usa, all’inizio del Novecento, il sindacato più forte numericamente e più organizzato era l’American Federation of Labor (Afl). Il risentimento contro i migranti era grande entro questo sindacato, fino a sfociare in manifestazioni di aperto razzismo. Spesso i padroni statunitensi ricorrevano alla manodopera di immigrati in occasione di scioperi e dei relativi picchetti davanti alle fabbriche ecc. Gli immigrati venivano utilizzati come strikebreakers (“crumiri”). E questo fatto non faceva che rinfocolare l’odio nei confronti di questi stranieri. Inoltre, essendo gli immigrati disposti a lavorare anche per salari più bassi, venivano utilizzati dai padroni stessi per abbassare in generale i salari di tutti.

La Afl aveva tra i propri iscritti solo lavoratori e lavoratrici statunitensi. Il sindacato minoritario degli Industrial Workers of the World (Iww) era l’organizzazione radicalizzata che annoverava tra le proprie fila anche migranti.

4. Il migrante, spinto dal bisogno, mostra normalmente un’incredibile capacità di fare sacrifici pur di risparmiare e di poter inviare così un poco di denaro alla propria famiglia nel paese d’origine. Allo sfruttamento normale si aggiunge così l’autosfruttamento. Spesso per queste famiglie è l’unico reddito su cui possono contare per sopravvivere. Le rimesse costituiscono voci importanti per il bilancio di molti paesi d’origine.

5. Il migrante e lo “sradicamento”. La difficile condizione del migrante ha spesso effetti nel suo equilibrio psichico. La sua è la condizione dello sradicato. Ha perso, da una parte, il suo legame con il paese d’origine ed è, dall’altra, comunque estraneo, per cultura, costumi, lingua, per tratti antropologici, per condizione materiale ecc. al luogo dove è immigrato. Ciò a prescindere da eventuali manifestazioni di razzismo, di umiliazioni, di xenofobia che lo possono investire.

È questo il terreno propizio per il disagio psichico. Ciò mette a dura prova il proprio equilibrio. Il disagio psichico fino alla vera e propria malattia mentale è molto diffuso tra i migranti. Le continue umiliazioni, la rabbia repressa, la ghettizzazione ecc. conducono a ciò. Frantz Fanon, psichiatra, filosofo, rivoluzionario, solo come riferimento, ha scritto pagine memorabili sulla condizione del colonizzato, tra malattia mentale ed esplosione improvvisa della violenza compressa.

Spesso depressione, malinconia, comportamenti anomali, esplosioni d’ira, aperta violenza rappresentano i sintomi di questa condizione. Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso hanno scritto, negli anni settanta, A mezza parete, un libro memorabile come indagine sul campo nella Svizzera tra i migranti, soprattutto italiani. Lo Heimweh, la nostalgia e il continuo pensare al proprio focolare domestico, caratterizzante il pensiero dominante del migrante, viene descritto e analizzato dai due autori con precisione e come soglia pericolosa di possibili problemi psichiatrici.

6. L’emigrazione rappresenta comunque anche la possibilità, ripetiamo la possibilità, per i soggetti coinvolti non solo di migliorare la propria condizione materiale, ma anche di elevare e di arricchire la propria visione del mondo, la propria cultura, la propria padronanza di tecniche, di capacità lavorative e non ecc. Solo la possibilità, qualora si sia sfuggiti al duro destino di annichilimento della condizione di migrante.

Fine prima parte. La seconda parte sarà pubblicata il 26 luglio.

Redazione
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