Colonialismi e Gig Economy: pillole dal Biografilm Festival

di Manuela Foschi

Pillola 1: nuove e vecchie schiavitù

Il Biografilm Festival di Bologna è reso possibile dai contributi dell’assessorato alla Cultura e al Paesaggio della Regione Emilia Romagna e da tanti altri enti con la collaborazione di associazioni e circoli culturali di Bologna. Anche quest’anno ha proposto film e documentari eccezionali su diritti umani e degli animali, su artiste/i, letterate/i, musiciste/i.

Alla fine delle visioni sicuramente si può dire è che l’umanità è ancora molto arretrata ma l’impegno civile e la lotta per i propri diritti possono rappresentare una via d’uscita da sistemi culturali ed economici asfissianti. Se in questa epoca molte merci raggiungono ogni angolo del pianeta non è lo stesso per i diritti umani. Tutti questi film non dovrebbero essere solo appannaggio di giornalisti o appassionati del settore ma passare come documentari in tv e online: per far conoscere agli abitanti di Europa, Usa, Canada, Cina e Australia e tutti i Paesi “benestanti” perché tante persone stanno fuggendo dai loro Paesi d’origine e perché bisogna accogliere.

Ho seguito in prevalenza film dove le protagoniste sono donne che hanno scelto di lottare per i loro diritti impegnandosi a cambiare cultura e tradizioni che da millenni le condannano a vivere come persone inferiori con l’unico ruolo di generare figli e prendersi cura di tutta la famiglia. Il denominatore comune di questi film è che la classe dominante benestante (direttamente o tramite aziende e agenzie) continua a non dar valore alle persone. Sono cambiati i nomi dei re e delle regine che espropriavano terre per farne piantagioni o miniere – sostituiti ora da nomi di multinazionali finanziarie – ma il sistema è sempre lo stesso e porta agli stessi risultati. Il mondo avanza a livello tecnologico, cambiano i confini, ci sono più Paesi indipendenti, ma la possibilità di una vita dignitosa nel rispetto dei diritti umani è una chimera per troppi.

«The Gig is Up» regia di Shannon Walsh, Canada-Francia – 2021

(a very human tech doc)

Il docufilm “The Gig is Up” è tratto dal libro «Ghost Work: How to stop Silicon Valley from Building a New Global Underclass» (Houghton Mifflin Harcourt, 2019) di Mary L. Gray, antropologa e co-autrice con il ricercatore Siddharth Suri: scoperchia i miti della Gig-economy, del Crowdwork, del Crowdsourcing. Si tratta di piattaforme che per conto di aziende chiedono consigli, suggerimenti, contributi per la soluzione di problemi da masse di persone esterne all’azienda … in cambio di misere remunerazioni. Questi lavori stanno cambiando la vita delle persone e delle loro comunità illudendole che con il lavoro online ci sia più libertà e veri guadagni. A dirlo nel film sono alcune vittime della Gig-economy che vivono negli Stati Uniti, in Francia e nei Paesi sottosviluppati. La scena iniziale riprende un’ammasso gigantesco di biciclette. Man mano la cinepresa si alza da terra l’ammasso è sempre più vasto; il narratore solo alla fine ci darà una spiegazione di quelle immagini. Si stima che nel 2025 più di 540 milioni di persone cercheranno lavoro attraverso le piattaforme on line. Ogni gig worker protagonista del film inizia parlando degli aspetti positivi e delle sue speranze rispetto al lavoro intrapreso. Leila Quadad lavora per la Uber-eats e Deliveroo a Parigi. Annette Rivero invece per la Uber di Los Angeles e poi per la Lift driver; lo stesso per l’autista yemenita da 12 anni a San Francisco. Jason Edwards viene ripreso sempre davanti al suo computer dentro e fuori casa: è il lavoratore che nessuno vuole. Così si descrive lui per il fatto che ha tutti i denti d’oro, dicendo di aver guadagnato anche 30mila dollari facendo sondaggi online. Lui che deve sostenere la madre dipendente dal gioco è il filo rosso conduttore di tutto il documentario. Jason conduce una vita solitaria e da emarginato. Vive nella gigantesca e sperduta periferia nel Nord America, favoloso bacino di risorse umane per la Gig economy.

Annette Rivero vive a Los Angeles. Faceva un lavoro ben remunerato che le lasciava tempo per la famiglia e le vacanze ma è stata attratta dalla Gig Economy parlandone con un’amica: «le piattaforme come Uber quando arrivano in una città allettano gli autisti con paghe molto alte ma quando diventano quasi un monopolio dettano le loro regole e tagliano gli stipendi». Annette è diventata una schiava della piattaforma: non può rifiutare i clienti, per avere una paga decente lavora 10/12 ore al giorno e non ha più tempo per la famiglia, per una piccola vacanza, per fare visita ai genitori. Si è molto impoverita. «Da 2000 dollari a settimana iniziali ora ne guadagno 1000 se va bene. Uber ha esternalizzato tutti i costi costringendo i lavoratori a essere liberi professionisti. Devo stare molto attenta ai punteggi: se sono inferiore a 4,7 ti disattivano l’account e rimani senza lavoro». Disperata piange davanti alla cinepresa.

La rider francese Leila Quadad, che percorre centinaia di chilometri per le strade di Parigi era felice all’inizio di andare tutto il giorno in bicicletta perché le piace fare sport e rimanere in forma. In più come Annette pensava di guadagnare bene, di non avere un capo, di poter stabilire gli orari: ciò significa stare più tempo con la famiglia e non stare tra le mura di un ufficio. Ma poi capirà: «Fare la rider è uno sporco lavoro, molti ristoranti ti trattano come merde e attendiamo tanto tempo. Vorrei stare un po’ di tempo con i miei figli e non fare più 100 km al giorno. La gente che è nata con la camicia, non sa cosa vuol dire venire dal basso e quello che dobbiamo fronteggiare. Il cellulare è diventata la cosa più importante, più dell’appartamento. Se lo perdo, resto senza lavoro, perdo tutto».

Derek Thom, studioso delle nuove tecnologie, ci spiega la massimizzazione delle comodità per i consumatori cioè offrire buoni servizi a un ottimo prezzo. Il cliente è la cosa più importante e l’applicazione deve esaudire ogni loro desiderio. Ma fra i clienti e la piattaforma chi c’è? C’è una massa di lavoratori schiacciati fra l’algoritmo che li comanda chiedendo l’impossibile e i clienti che spesso sono molto esigenti: i Ghostworkers.

Lo spiega ancora meglio Jérome Pirot, cofondatore del Collettivo dei Lavoratori Autonomi di Parigi, nato in seguito agli incidenti in cui hanno perso la vita alcuni riders o sono stati gravemente feriti. Jerome è sindacalista dei rider che lavorano per Deliveroo: «Il capoufficio lo vediamo a prendere il caffé una volta alla mattina. L’algoritmo è sempre presente nelle nostre tasche. Ed è molto più preciso sulla distanza, sulla direzione, sulla velocità. Se non accettiamo un ordine sa tutto di noi ci controlla. Ma ti tratta come se tu fossi niente». Eppure questi lavoratori si sacrificano per i clienti e per la piattaforma. La coautrice di Ghostwork, Maria L. Gray, afferma: «Per le aziende è legittimo eliminare chi fa il lavoro peggiore, chi è più in basso nella classifica. Questi sistemi di valutazione portano il potere da una parte sola del mercato, quella del consumatore e il lavoratore che sta in mezzo è annientato»-

L’ingegnere informatico indiano Prayag Narula fondatore di LeadGenius Tech Entrepeneur a Berkeley in California (è un software privato che combinando l’Intelligenza Artificiale con la Computazione Umana trova clienti mirati per chi usa i suoi servizi) dichiara: «Sostituiremo la teoria del capo con quella dell’algoritmo ed è molto peggio ve lo garantisco da tecnico informatico».

Mary L. Gray racconta: «Quando sono venuta a fare ricerca alla Microsoft volevo capire come funziona l’Intelligenza Artificiale, com’è costruita. Ho iniziato a chiedere agli ingegneri e hanno iniziato a descrivermi la Computazione Umana. Ci sono tantissimi casi in cui l’ Intelligenza Artificiale non può, non riesce a prendere una decisione da sola. Una caratteristica davvero unica degli esseri umani è la capacità di prendere decisioni senza informazioni precedenti. Quando chiedevo chi assumete ricevevo non risposte ed erano molto a disagio. Ma se da questa forma di lavoro tutte le piattaforme on line (dalle più conosciute come Google a Facebook e via dicendo) traggono tanti benefici e profitti mi sembrava molto importante capire chi sta facendo questo lavoro».

Cambio Immagine: Lagos in Nigeria, clacson che suonano nel traffico cittadino pieno di persone che vanno e vengono nelle strade senza marciapiedi. Inquadratura su Mitchell Amewieye mezzo sdraiato su un letto improvvisato accanto a una parete mal dipinta. E’ un Artificial Intelligence Gig worker e le sue parole sono illuminanti: «La maggior parte dei lavori che eseguo riguardano l’IA». Sul computer le appare un ragazzo che ride immerso in una vasca con molta schiuma. «Credo che stiano cercando di valutare un sistema di I.A. Probabilmente riguarda un sito di incontri. Quindi devo rispondere a una serie di domande come – Se vedessi questa persona penserei che è intelligente? Affidabile? Attraente? E mi chiedono un suggerimento per migliorare la foto. Ecco tutto il lavoro. Ho appena guadagnato 10 centesimi». Penso: ma è pochissimo. Sul taxi in mezzo al traffico Mitchell apre il cellulare e dice: «Essere di Lagos significa trascorrere molto tempo nel traffico. Perché sprecare tanto tempo prezioso? Così apro la mia applicazione M-Turk e do un’occhiata se ci sono risultati disponibili per me. Mi piace fare le trascrizioni di video o degli audio. Non mi piace fare lavori da meno di 10 centesimi. Vengo pagato in buoni acquisto Amazon che vengono caricati sul mio account Amazon, quindi faccio l’acquisto e chiunque viene dagli Usa mi aiuta ad incassarlo».

Siete stupiti? Ma non è tutto. Continua Mitchell. «Me ne sono fatto una ragione, qui non c’è proprio altro modo per guadagnare. Ci ho provato. I buoni di acquisto non li vedo come soldi veri ma come moneta amazon». Finisce l’intervista ridendo amareggiato.

Tantissimi ragazzi e ragazze da ogni continente confessano di fare questo lavoro online. C’è chi dice: «è diventata una dipendenza e mi sento isolato se non lo faccio. Certi giorni lavoro 8 ore e guadagno 10 dollari». E ancora: «E’ un lavoro che ti rende asociale. Passi tutto il giorno al computer». La retribuzione media su Mechanical Turk è di 2 dollari l’ora. La stessa di molti migranti che lavorano nelle campagne italiane.

Ma cos’è Mechanical Turk e cosa c’entra Amazon?

Mary L. Gray lo spiega: «Amazon nel 2000 si mise a raccogliere tutti i Database che poteva: libri, elenchi di libri, da librerie e da editori per diventare la più grande libreria sulla terra. Si rese conto che questi metadati erano pieni di refusi e titoli da sistemare e se un computer non li riconosce le persone ci mettono un attimo a vederli. Creò così una piattaforma per cercare persone che correggessero questi refusi. Amazon poi offrì questo servizio ad altre aziende che ne avevano bisogno. Quello fu l’inizio di questo mondo Amazon’s Mechanical Turk». Attraverso questa piattaforma chiunque può assumere lavoratori Gig – gli M-Turker – anche per piccoli lavori on line. Taggare immagini, pulire dati, trascrivere audio, fare sondaggi e tante altre piccole mansioni che sono pagate anche solo 1 centesimo. E i poveri del mondo, che sono tanti, non avendo molta scelta si assoggettano a questo sistema di sfruttamento on line.

Jason non accetta lavori per pochi centesimi e si sente superiore per aver raggirato l’algoritmo e fingersi un afroamericano repubblicano… ma infine ammette di lavorare giorno e notte. Gli ingegneri di Amazon e di Mechanical Turk, come di tutte le altre piattaforme, hanno inventato un sistema ad hoc per accontentare e guidare i propri clienti azzerando i costi dato che Amazon – con 500mila lavoratori sulla sua piattaforma – paga con prodotti che non sono suoi ma che vende per altre aziende. Gli M-Turker sono obbligati a diventare clienti Amazon.

Iniziano a essere tantissimi gli effetti sulla salute psichica e fisica degli M-Turker come dei Riders di Deliveroo di Parigi e dei Drivers di Lift di Los Angeles e di San Francisco che però si stanno unendo per ottenere diritti e nuove regole dalle piattaforme online: per diventare visibili e non essere più Ghostworkers. Stanno organizzando scioperi in tutto il mondo. Shannon Walsh (il regista che concorre per la sezione Contemporary Lives) afferma: «Se non ci si unisce adesso i prossimi 20 anni saranno terribili per un lavoratore medio, tanto che il Medioevo sembrerà il Paradiso. Se non prendiamo posizione resterà tutto uguale». Leila dice infine «La gente deve capire cosa sta succedendo». E c’è da rabbrividire se si pensa che in Cina nel 2020, forse anche grazie alla pandemia, sono stati 410milioni gli utenti delle piattaforme di cibo. Numeri enormi che fanno riflettere. A causa del Covid-19 e dei lock down in tutto il mondo si sono impennate incredibilmente le cifre della Gig economy come mai era successo.

Annette Rivero conclude: «Ci sono società là fuori che cercano di trasformare ogni azienda in una Uber».

E quelle discariche di biciclette? Dove sono e perché? Il bikesharing è nato in Cina nel 2017: fino a 70 società gareggiano per vincere gli appalti. «E’ come esser in guerra, ogni mese ci sono nuove città da conquistare» dice la OFO una società di bikesharing. Il fotografo WU Guouong è l’autore di quelle immagini: li ha chiamati i cimiteri delle biciclette e sono il prodotto del bikesharing solo dopo 3 anni. L’algoritmo non è solo contro l’uomo ma anche contro l’ambiente. Pensiamoci bene prima di affidargli le nostre vite e la sopravvivenza dell’ecosistema da cui siamo nati. «The Ghostwork» è un ottimo documentario per riflettere su come funzionano e quale può essere l’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre vite.

«White Cube» di Renzo Martens (Paesi Bassi, Belgio, Repubblica Democratica del Congo, 2020)

«White Cube» di Renzo Martens, il documentario che ha vinto il Festival per la sezione Biografilm Art&Music, ci fa fare un salto nel passato più buio e cupo della colonizzazione europea in Africa … mai conclusa. Le immagini si aprono su una piantagione a Boteka, nella Repubblica Democratica del Congo nell’anno 2012, con un lavoratore che si arrampica con i piedi su una palma da olio alta 20 metri. Alla fine della giornata i lavoratori stremati si presentano di fronte al “controllore”. Hanno raccolto 13 tonnellate di bacche di olio da palma e sono pagati un dollaro al giorno. Alcuni di loro lavorano in quella piantagione da 25 anni. Le loro famiglie vivono in case fatiscenti senza nulla dentro, dormono a terra, non c’è scuola e neppure un ospedale. Esiste solo la fatica nel viso di questi uomini e delle loro donne. Alla scena assiste un bianco che invita i lavoratori a partecipare a un meeting. Si tratta di un artista visivo olandese Renzo Martens. Sta organizzando una serata in quella piantagione perché è convinto che l’arte può portare capitali anche in mezzo all’Africa. Lui ha già prodotto un filmato senzazionale «Enjoy Poverty» nel 2008. Ha invitato economisti e artisti in collegamento con l’Europa e René Ngongo un congolese di Greenpeace esperto di piantagioni.

Da cosa ha origine tutto ciò?

Renzo Martens: «Sono stato all’inaugurazione del mio film (il terzo episodio di Enjoy Poverty, un lavoro sensazionale) alla Tate Gallery di Londra e dappertutto c’era scritto Unilever, Unilever, Unilever. Così volevo conoscere chi aveva sponsorizzato il mio lavoro e ho fatto alcune ricerche. Ho scoperto che William Lever nel 1911 fu autorizzato dal governo belga a distruggere intere foreste vergini del Congo per piantarvi le palme che producono olio». Quindi l’olio da palma fa parte dei nostri cromosomi da molto tempo ma a parte questa considerazione nutrizionistica, i prodotti ottenuti con l’olio da palma – come la margarina Blue Band o il sapone Monsavon – hanno arricchito infinitamente la dinastia Lever e ora Unilever, un colosso anglolandese, titolare di 400 marchi tra i più diffusi nel mondo nel campo dell’alimentazione, delle bevande e dei prodotti per la casa con un fatturato di oltre 50 miliardi di euro nel 2020. Unilever finanzia mostre e progetti artistici nelle gallerie d’Occidente più quotate mentre mantiene in schiavitù nel Sud del mondo i lavoratori delle piantagioni che le procurano le bacche delle palme da olio, come se la colonizzazione non fosse mai finita. Perché i diritti dei lavoratori in Belgio devono essere così tanto differenti da quelli dei congolesi che lavorano per una multinazionale belga? «White Cube» ci mostra come la colonizzazione sia sempre presente nella Repubblica Democratica del Congo.

Renzo con grande facilità coinvolge una parte dei lavoratori delle piantagioni e le loro famiglie, curiose e interessate come forse non ci si aspetterebbe da chi vive isolato dal mondo e lavora tutto il giorno: con loro decide di dare vita a un piccolo centro creativo in un vecchio negozio abbandonato della Unilever. I congolesi lo pitturano. Ragazzi, bambini e adulti iniziano a creare disegni, a realizzare pupazzi a cantare tutti insieme grazie ad alcune collaboratrici e collaboratori di Renzo. Vogliono realizzare una piccola mostra e costruiscono palafitte bellissime per ospitare i turisti. Poi una sera arriva una email dalla sede di Londra della Unilever firmata Bill Dry, in cui avvisa che nella piantagione c’erano state aggressioni con machete e lance e ciò era la conseguenza dell’ingenuità dell’artista nel procedere con il progetto … perché la piantagione è una proprietà privata. Così le palafitte vengono distrutte e tutte le opere create portate via. Renzo Martens in lacrime vuole continuare il progetto ma coloro che vorranno partecipare dovranno lasciare la piantagione.

Due anni dopo a Lusanga (Repubblica Democratica del Congo 2014). Le immagini sul fiume Congo e la foresta sono bellissime: proprio questo territorio era la ribatezzata Leverville (città di Lever) dove arrivavano da tutto il Congo per lavorare fino al 1995 quando fu abbandonata perché i terreni erano troppo sfuttati. 84 anni di tonnellate di bacche di palma raccolti dai lavoratori delle piantagioni congolesi i cui utili sono andati lontano da queste terre. Anche qui a Lusanga si parte dalla stessa immagine: un uomo si arrampica sopra una palma per raccogliere bacche ma non lavora per la Unilever, le raccoglie per fare l’olio con un frantoio artigianale con gli altri abitanti della comunità. Quelle terre abbandonate dalla Unilever sono tornate libere. Il raccoglitore è Matthieu Kasiama che diverrà il portavoce del Circolo degli Artisti Lavoratori delle Piantagioni di Lusanga – The Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC), il cui obiettivo è creare un luogo d’arte, The White Cube, nel proprio ecosistema naturale e produrre opere per attrarre persone da tutto il mondo.

Renzo inizia il suo progetto di Arte Critica sotto una tenda sorretta da una decina di pali di legno. Partecipano donne e uomini. Illustra alla lavagna come sfruttando i contadini congolesi la Unilever e molte altre multinazionali finanzino poi la costruzione di musei nel mondo, creino il fenomeno della gentrificazione con l’aumento dei prezzi degli immobili attorno ai musei e la fuga di chi vi abita. «La disuguaglianza sopravvive attraverso i musei europei. Però le difficoltà che i congolesi vivono e si portano dentro ora le possono esprimere con l’arte».

Un giorno mentre gli artisti plasmano le loro opere con l’argilla del fiume Congo, Martens dona a tutti una tavola di cioccolato incartata, dicendo loro che quel cacao viene dalle loro terre. Nessuno di loro lo ha mai assaggiato. A tutti piace molto e sono felici di averlo provato. Per chiunque di noi è impensabile che chi vive nella terra del cacao non l’abbia mai mangiato. Renzo incita i suoi artisti che lavorano nelle piantagioni di Lusanga:«Volete lanciare un messaggio al signor Lever o alla gente che mangia cioccolata? Il cioccolato è la chiave per aprire i loro occhi. Le vostre sculture di argilla le faremo di cioccolato». Proprio da quella tenda una delle ragazze coinvolte nel progetto scannerizza le sculture per inviare le immagini a una stampante 3D a Londra.

Una delle scultrici di Lusanga si confessa: «Qui ci sono solo dei capi e non mangi se non lavori la terra. Ci lavoriamo da sempre, specialmente noi donne e non siamo importanti. Ho realizzato un’opera che ho chiamato “Amore forzato”. Se un uomo ti segue nei campi e vuole violentarti o ucciderti può farlo senza essere punito. L’ho vissuto sulla mia pelle». Un’altra ragazza molto giovane riprodurrà lo strupro da parte di un uomo bianco su una donna congolese che – come le ha narrato la nonna – fece scoppiare una ribellione nella piantagione di Lusanga.

Nuove immagini ci portano nella sala di un museo di Londra gremito di gente vestita elegante, tutti in nero, per una inaugurazione. Le statue di quella comunità congolese che tanto ha sofferto e soffre sono arrivate in una delle capitali dell’Occidente. Le più piccole sono riprodotte in serie coi calchi da due chef cioccolatieri e c’è la fila per acquistarle. A venderle c’è Renzo che aveva promesso di dare ogni utile a chi le aveva create. Porterà a Lusanga un assegno di duemila dollari, una cifra mai vista per queste persone che festeggeranno tutta una giornata: così potranno acquistare 65 ettari di terre per risanarle e ripiantumarle.

La mostra sbarca inaspettatamente al The Sculpure Center di New York e il New York Times la proclamerà «The Best Art of 2017» con intere pagine dedicate all’evento e a Matthieu Kasiama. Sarà lui a seguirla e a presentarla alla stampa internazionale con la semplicità di chi non ha studiato sui libri ma è interconnesso con la natura, con lo spirito delle cose e dei suoi antenati i quali lo nutrono di energia, di ottimismo e di amore per la vita nonostante la schiavitù, le violenze e le crudeltà vissute sulla propria pelle o subite dagli avi. Matthieu aveva sempre sperato in una specie di redenzione per la propria gente e quel sogno ora si è realizzato. A New York avrà la possibilità di visitare il Metropolitan Museum e nello specifico le sale dedicate al Congo e alla cultura Pende propria dei suoi villaggi. E’ sconcertato che tutti quei manufatti fossero rinchiusi in teche di cristallo. Mantenendo la calma, anche se con difficoltà, chiede alla guida come siano arrivati a NY dall’Africa. «Sono stati donati da Nelson Rockefeller che li ha acquistati da mercanti d’arte europei negli anni ’70» risponde la guida. Mathieu allora domanda: «Acquistati o rubati?». Si sa purtroppo fin troppo bene come tante opere d’arte africana siano state trafugate. Alla domanda di un giornalista «Se dovesse scegliere fra la terra e le sue operte d’arte cosa sceglierebbe?» senza batter ciglio Mathieu lo spiazza in un baleno: «Se dovessi optare per una sola cosa sceglierei la terra perché dove potrei sedermi per creare la mie sculture se non ci fosse la terra e con cosa le farei? Non esistono altri progetti che uniscano l’arte alla terra come questo e fra l’altro le foreste che stiamo risanando assorbono grandi quantità di carbonio dando un contributo per l’atmosfera e l’umanità».

Renzo Mantens è riuscito in un’opera che ha portato allo scoperto con queste statue del collettivo CATPC la violenza e lo sfruttamento del nuovo colonialismo nelle piantagioni congolesi che poi finanziano i musei. «Quei musei sono in debito con i lavoratori delle piantagioni. Le scuse non sono sufficienti». Un bellissimo film dunque. Ascoltate Matthieu alla conferenza nel Sculpure Center di NY: «Venite a vedere cosa succede in Africa». Parole rivolte a chi crede che il proprio benessere sia opera dell’ “ingegno imprenditoriale occidentale” e non abbia nulla a che fare con la rapina operata dai Paesi occidentali. Su Vimeo è possibile visionare White Cube – a postcolonial utopia e ve lo consiglio.

Pillola 2: Pezzi d’Africa

«African Apocalypse» di Rob Lemkin (Regno Unito, 2020)

«Le Derniere Refuge» di Ousmane Samassékou (Francia-Mali-Sudafrica, 2021)

«Motherlands» di Gabriel Babsi (Ungheria – Romania 2020)

«African Apocalypse» di Rob Lemkin (Regno Unito, 2020) arriva in Italia grazie alla collaborazione con il centro Amilcar Cabral di Bologna. Femi Nyalander, coautore e protagonista è uno studente di Oxford. Leggendo «Cuore di Tenebra» di Joseph Conrad, pubblicato nel 1899 ambientato in Congo, è colpito dalle violenze perpetrate da Kurtz, un tagliatore di teste e autore di violenze indicibili durante la conquista. Gli antenati di Femi Nylander abitavano in Niger ma lui non sa cosa abbia voluto dire la colonizzazione francese (difficilmente lo insegnano sui libri di scuola). Andando alla ricerca di documenti originali scopre le immagini di bambini e adulti del Niger senza mani e braccia dopo le violenze subite dai colonialisti, di villaggi in fiamme, di mucchi di cadaveri. Va alla ricerca del “Mister Kurtz” nel Niger e lo individuerà nel capitano francese Paul Voulet, capace di atrocità peggiori del personaggio di Conrad. Voulet aveva ricevuto l’incarico di guidare la Missione Africa-Ciad: missione di civilizzazione, così era chiamata dal ministro delle Colonie francese. La Missione Voulet-Chanoine, partita da Dakar in Senegal, nell’estate 1898 aveva lo scopo di raggiungere il lago Ciad passando dal Niger, per unirsi ad altre due missioni francesi (una partita dall’Algeria e l’altra dal Congo) completando l’Impero francese in Africa. Femi Nylander, andando in Niger per la prima volta, visiterà tutti i villaggi lungo la strada tracciata dal sangue dei genocidi eseguiti da Paul Voulet e dai suoi uomini che hanno saccheggiato, bruciato e brutalizzato ogni villaggio con la scusa che i nativi non fornivano cibo e accoglienza. Tagliavano le teste a donne, uomini e bambini mettendole sui pali per terrorizzare la popolazione. Sarà il tenente Louis Péteau a scrivere al ministro delle Colonie e a raccontare i crimini commessi nonostante la resa della popolazione indigena ai francesi. Il protagonista di «African Apocalypse», accompagnato da Amina e Assan, parte dal villaggio di Dioundiou dove vengono accolti da tutta la popolazione che silenziosa li circonda e ascolta i racconti dei vecchi del villaggio che hanno visto coi loro occhi, perché la memoria rimane anche dopo 100 anni. Degno di nota è che nessuno, prima di Feni, era mai andato a chiedere a queste popolazioni cosa era successo in quel periodo. «Gli europei bombardarono la città. Come fa la Francia a pensare che li perdoneremo? La Francia non risarcirà mai la perdita di vite umane. Il 50% della popolazione di ogni villaggio se non di più è stata uccisa. Nel villaggio di Birni-N’ Konni furono massacrate 15mila persone». Da queste parti oggi ci sono gli uomini di Boko Haram che fanno stragi, ma – spiega il protagonista – non sono tanto diversi dal capitano Voulet e dai suoi uomini. In un altro villaggio dicono: «Come possiamo perdonare i Francesi? Ci creano problemi anche oggi. Nel 1978 hanno iniziato ad estrarre uranio, lo yellowcake. L’uranio ci ha ucciso per trent’anni e fino al 2014 lo abbiamo fornito alla Francia esentasse. Una lampadina su tre della Francia è alimentata da uranio del Niger». I bambini e le bambine dei villaggi intervistati conoscono bene l’imperialismo europeo e cosa abbia significato – e significhi tuttora – per le loro comunità che non hanno dimenticato. Gli intervistati considerino gli europei come barbari. Tante le storie che raccoglie Feni lungo la strada del Niger. Le andrà a raccontare, una volta tornato a Oxford, a una manifestazione Black Lives Matter dello scorso anno: «il colonialismo non è una cosa del passato ma del presente».

«Le Dernier Refuge» di Ousmane Samassékou (Francia, Mali, Sudafrica, 2021) arriva in Italia grazie alla collaborazione con We World e Refugé Welcome Bologna. Nelle prime scene vediamo cadaveri nel deserto del Mali e un gruppo di uomini che li seppellisce. In questo luogo nella cittadina di Gao, grazie alla Caritas, è nato un centro chiamato “la Maison du migrant”, che accoglie i migranti che passano da lì per raggiungere l’Europa e quelli che tornano dopo viaggi allucinanti, torture e soprusi nei territori ancora sotto il governo di Al Qaeda e nei Paesi “trampolino” per l’Europa come l’Algeria. A condurre il centro è l’operatore della Caritas che dichiara: «conosco il Sahara molto bene, l’ho attraversato 4 volte. Non c’è pietà nel Sahara: ci sono 8/9 posti di blocco. Tutti ti chiedono i soldi e se non li hai inviano le tue immagini sotto tortura ai tuoi parenti. Il Sahara è l’inferno». Oggi conduce questa struttura per far cambiare idea ai migranti che vogliono lasciare l’Africa o per avvisare i loro parenti che sono in salute. Sotto i riflettori la storia di due ragazzine fuggite dalle loro famiglie in Burkina Faso con i loro sogni. Esther racconta: «Quando andavo a scuola desideravo tre cose: suonare, recitare o fare la pugile per esprimermi e tirare fuori tutta la rabbia che ho dentro». Kadi invece sognava di fare la poliziotta o il medico per salvare vite oppure l’insegnante di francese. In quella palazzina tutta azzura – tanti ragazzi e ragazze con la vita in sospeso tra l’Europa e l’Africa – l’operatore incontra le due ragazzine alle quali chiede il numero di telefono dei parenti per informarli che stanno bene e poi cerca di dissuaderle da intraprendere quel viaggio perché per le donne gli stupri sono la normalità: la prostituzione o vivere sulla strada è ciò che le aspetta una volta in Algeria. In quel luogo invece possono frequentare corsi di formazione per trovare un lavoro. «L’istruzione è fondamentale per la vostra indipendenza mentre scegliere la via per l’Europa significa vivere in strada e prostituirsi. Lo sapete che succederà così. E’ questo che volete?» ripete a loro più volte. Un gruppo di ragazzi studia inglese, altri reppano strofe come «nel Sahara sparano come ai polli». Esther solo al termine del colloquio guarderà l’operatore negli occhi. E’ in un mare di lacrime e sembra essersi convinta. La sua vita è stata molto dura fino ad allora. Poi parteciperà a un altro incontro e assisterà allo sfogo di un ragazzo iraniano: nulla lo convincerà a interrompere il viaggio perchè spiega «sono partito per cercare me stesso e nessuno potrà fermarmi». Alla fine Esther deciderà di partire. La sua testimonianza è molto toccante per la consapevolezza con cui parla di se stessa nonostante la giovane età: «fin da bambina ho odiato la vita perché non sono stata amata da mia madre e da mio padre. Sono stata sempre sola ed esclusa dagli altri. Dall’età di 2 anni ho vissuto con un’amica di mia madre e mia mamma l’ho incontrata per la prima volta solo a 13 anni. Non sono riucita a chiederle il perché mi ha abbandonata. Chi sono per giudicarla? Poi è morta e dopo la sepoltura la sua famiglia mi ha detto di andarmene e mi ha lasciato sola come una statua anche quel giorno. Mi dispiace, voglio partire. Da quando sono qui e mi sono liberata dei miei segreti, il fardello è come sparito e ho capito che devo amare la vita. Quindi ora devo realizzare la mia vita. Incoraggiatemi per favore è solo quello che vi chiedo incoraggiatemi».

Una notte, coi loro fagotti in spalla, Kadi e Esther si incamminano nel buio del Sahara verso Tombouctou (Timbuktu). Di Kadi si sa che è ritornata dalla famiglia in Burkina Faso mentre di Esther si perdono le tracce in Algeria.

«Motherlands» di Gabriel Babsi (Ungheria-Romania 2020) racconta 5 anni della vita di Hervè, arrivato dalla Costa d’Avorio in Grecia senza documenti quando nel suo Paese è iniziata la guerra. «I militari complottando con la Francia hanno formato milizie armate, arruolando i ragazzi più poveri e analfabeti. Stavo studiando ad Abidjan ma sono tornato in campagna dai miei genitori e mi sono unito alle forze di resistenza: poi ho abbandonato la lotta e sono fuggito». Il regista conosce Hervé nel 2012 ad Atene. Una volta in Grecia, dopo aver conosciuto le vie di passaggio tra le foreste che portano in Macedonia eppoi in Serbia, Hervé decide di aiutare i neri africani a fuggire da lì perché il destino sarebbe finire in una cella greca o essere rimpatriati. Hervé vive di stenti nella periferia di Salonicco sempre in pericolo tra la vita e la morte e soffre moltissimo per il destino dei suoi fratelli africani. Conosce bene la situazione politica del suo Paese: «Outtara il presidente dice che va tutto bene ma vuol tenere nascosta la guerra alla Ue mentre va in Turchia a chiedere il rimpatrio di tutti gli ivoriani». Hervè si fa pagare dai migranti per il viaggio tra le foreste, ma li aiuta a scappare per continuare a sperare di raggiungere le terre sognate ed evitando loro di essere derubati da bande criminali. Lui ha scelto di rimanere in Macedonia dove ha trovato un po’ d’amore e una compagna che gli darà il suo primo figlio. Non hanno una casa e un vero lavoro. Possiamo considerare Hervé un trafficante di esseri umani? Possiamo giudicarlo? Sicuramente come gli altri migranti è un pezzo di umanità africana in fuga dalle catastrofi che devastano quel continente. La Costa d’Avorio è in guerra da più di venti anni quando Alassane Outtara nel 1999 sostenne un golpe militare che rovesciò l’allora presidente. In più finanziò una ribellione militare durata fino al 2010 che ha ucciso migliaia di ivoriani. Nelle nuove elezioni fu eletto Laurent Gbagbo ma la comunità internazionale con la Francia in testa insediò al suo posto Outtara, amico di Sarkozy. Iniziò la lotta di Resistenza e accusarono Gbagbo della repressione portandolo di fronte alla corte di giustizia per crimini di guerra. Seguì una guerra di ribellione in cui sono morte più di 3000 persone. Il 17 giugno 2021, dopo dieci anni, Laurent Gbagbo è ritornato in Costa d’Avorio in quanto la Corte penale internazionale lo ha assolto dall’accusa di crimini contro l’umanità. In tutti questi anni Hervé è tornato in Costa d’Avorio solo per la morte del padre. Ora forse potrà fare ritorno nella sua patria senza essere perseguitato come dissidente politico e regolarizzare i suoi documenti.

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