Guatemala: giornalisti indipendenti sotto attacco

di David Lifodi

Se sei un giornalista indipendente o non allineato, in Guatemala rischi grosso. Nel paese centroamericano, che dall’avvento alla presidenza di Otto Pérez Molina sperimenta quotidianamente cosa significa la “mano dura” (questo l’inquietante  soprannome dell’ex militare coinvolto nel genocidio del popolo maya degli anni ’80), il governo ha deciso che gli operatori dell’informazione devono essere messi in riga. Per almeno un trentennio il Guatemala è stato il paese dell’orrore,  con le sparizioni forzate, le fosse comuni ed una vera e propria politica di sterminio condotta contro il popolo maya, che tuttora subisce continue vessazioni e minacce nonostante gli accordi di pace del 1996 tra governo e guerriglia. Di fatto, quella guatemalteca è una democratura, la cui scure si abbatte con violenza contro qualsiasi voce di opposizione: comunità indigene, campesinos, movimenti sociali.

Nell’ultimo anno e mezzo le minacce e le aggressioni fisiche nei confronti dei giornalisti sono cresciute, in un paese dove la pace è tornata solo formalmente. Gli unici reporter intoccabili, all’insegna di un “si salvi chi può” del tutto egoistico, sono quelli legati al potere, ai gruppi della criminalità ai quali sono vicini e alle imprese multinazionali che hanno svenduto il paese per i propri interessi personali. È in questo contesto che, sicura di aver garantita l’impunità, la manodopera delinquenziale viene utilizzata dal governo per mettere a tacere giornalisti non necessariamente impegnati, ma che semplicemente dicono le cose come stanno svelando spesso il malgoverno del paese. In Guatemala avere telecamera, microfono, penna e taccuino è sinonimo di terrorismo. Alcuni esempi: la scorsa estate Oswaldo Ical Jom si trovava a San Miguel Uspantán, dipartimento del Quiché, per indagare sulla sparizione di una giovane donna, un fenomeno in preoccupante crescita, al pari del femminicidio, nell’intero paese. In quell’occasione il giornalista fu picchiato e sequestrato da una banda di criminali spacciatisi come leader comunitari. Un episodio simile è accaduto anche a Susana Morazán, giornalista di Tv Azteca Guatemala, avvicinata da alcuni motociclisti che la obbligarono a fermare la sua automobile, la presero a pugni e tra le varie minacce le urlarono che smettesse di parlare male del governo. Inquietante anche l’episodio che ha portato alla chiusura, lo scorso gennaio, della radio comunitaria Snuq Jolom Konob’ di Santa Eulalia (Huehuetenango), dove il sindaco ha utilizzato dei picchiatori definitisi, anche in questo caso, leader comunitari, per far passare di fronte all’opinione pubblica l’idea che era la stessa comunità a rifiutare la radio. Quando i giornalisti David Diego e María Victoria Pedro si sono recati in redazione, alle 5 di mattina, per iniziare la programmazione della giornata, sono stati assaliti da una squadraccia di circa cinquanta persone che sono entrate di forza all’interno dei locali che ospitano la radio, ne hanno distrutto le apparecchiature ed hanno ferito i due giornalisti. La radio aveva aderito alle mobilitazioni pacifiche organizzate nei municipi di San Mateo Ixtatán e Barillas, dove è forte la resistenza delle comunità indigene alla costruzione delle dighe e delle centrali idroelettriche. Se investigará, ha promesso Otto Pérez Molina, ma per adesso la radio resta chiusa e gli assalitori impuniti, così come gli aggressori dei giornalisti de El Periódico Pavel Vega e Alex Cruz, cacciati fuori da una conferenza stampa organizzata dalla vicepresidente del paese Roxana Baldetti. Il quotidiano non era stato invitato a partecipare alla conferenza, ma ciò non autorizza certo l’uso della violenza da parte degli agenti della Secretaría de Asuntos Administrativos y de Seguridad de la Presidencia, che hanno sbattuto fuori i due giornalisti senza troppi complimenti. Se investigará, ha ripetuto anche in questo caso Otto Pérez Molina, ma è chiaro che il governo guatemalteco non fa niente per garantire la libertà di stampa e il diritto all’informazione. E così può succedere ciò che è accaduto a Norma Sancir e Carlos Alfredo Díaz, che lo scorso settembre sono stati trattenuti per tre giorni in carcere nel dipartimento di Chiquimula, un altro caso evidente in cui il governo dimostra tutto il suo disprezzo nei confronti dei difensori dei diritti umani. Giornalista impegnata soprattutto sulle tematiche ambientali, Norma Sencir lavora per Prensa Comunitaria e fa parte della Coordinadora Central Campesina Ch’orti “Nuevo Día”, mentre Carlos Alfredo Díaz, oltre ad essere anch’esso membro della Coordinadora, milita nella rete cattolica Amerindia. I due giornalisti sono stati arrestati mentre documentavano le proteste contro l’estrazione mineraria e la cosiddetta Ley Monsanto, che il governo utilizza come strumento di repressione nei confronti di coloro che protestano contro l’edificazione di nuove miniere. A questo proposito, bisogna ricordare che la Ley Monsanto non rispetta il diritto alla previa consultazione delle comunità, tanto che la Organización Consejo de Pueblos Mayas de Occidente ha presentato un ricorso di fronte alla Corte Costituzionale affinché la legge sia abrogata. Norma Sencir e Carlos Alfredo Díaz si trovavano nei pressi del blocco della Carretera Panamericana organizzato dalle comunità Ch’orti per protestare contro la Ley Monsanto. Quando la polizia in assetto antisommossa ha deciso di attaccare i manifestanti lanciando alcuni lacrimogeni, i due giornalisti stavano facendo delle foto sulla repressione poliziesca, abbattutasi anche su due persone che cercavano di strappare i loro colleghi dalle mani della polizia e anch’esse arrestate. Tutti hanno trascorso tre giorni presso il Centro Carcelario Los Jocotes di Zacapa con le accuse di “attentato” e “disordine pubblico”, in un chiaro intento di criminalizzare la protesta sociale, in particolare quella contro l’estrazione mineraria.

In pratica, in Guatemala viene applicata la cosiddetta Ley Mordaza, anche se non in maniera dichiarata, nel segno di una dittatura militare che si spaccia come governo democratico e vieta con la violenza qualsiasi forma di pensiero critico.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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