Il non detto sul golpe blando in Nicaragua

di Bái Qiú’ēn

Io sono di sinistra, ma questo non significa che confonda, come fanno tanti compagni, tra l’altro a me molto cari, la religione con la politica, non sono un fanatico o religioso in politica. Non credo al fanatismo, penso che i fanatici dovrebbero essere tutti rinchiusi in manicomio, poiché sono pericolosi (Eduardo Galeano, 2013).

L’eresia è sempre attiva e costruttiva, apre nuove prospettive. L’ortodossia invecchia e fa marcire idee e uomini. […] Per pensare e agire di testa mia, pago un prezzo molto alto, bersaglio quale sono delle pattuglie di ronda di tutte le ideologie, di tutti i radicalismi ortodossi (Jorge Amado, 1981).

Sono ormai trascorsi quattro anni dal quel tragico 2018, quando dal 19 aprile il Nicaragua vide una protesta di massa, popolare e spontanea, che nessuno si aspettava, men che meno l’ambasciatrice gringa Laura Farnsworth Dogu, che dall’8 aprile scorso svolge le proprie funzioni in Honduras. Ben presto, comunque, quel dissenso istintivo che riempiva le strade e le piazze fu monopolizzato dalla destra, a sua volta diretta dalla ambasciata statunitense a Managua. Oltreché lautamente finanziata dal governo gringo.

La distanza temporale che intercorre tra l’oggi e quattro anni fa consente di affrontare quei fatti in termini storiografici, mettendo finalmente in soffitta la facile propaganda e i comodi slogan. Sia quelli di una parte sia quelli dell’altra.

Un po’ di tempo fa, avevamo concluso un articolo lasciando in sospeso alcuni interrogativi: chi aveva contribuito a creare in Nicaragua quelle «condizioni minime» di cui parla Guevara, sulle quali la opposizione interna e i gringos si sono gettati come neri e saltellanti zopilotes su una carogna da spolpare? E, soprattutto chi, pur avvisato da tempo, con uno scarsissimo intuito politico e la più assoluta mancanza di visione razionale, si è mosso come il classico elefante nella cristalleria, senza rendersi conto delle possibili, tragiche, conseguenze?

Tentiamo oggi di dare una risposta, basandoci su ciò che conosciamo e che può essere verificato da chiunque nutra dei dubbi o abbia delle legittime perplessità.

Coloro che negli anni precedenti avevano viaggiato senza paraocchi in quel Paese, con estrema facilità si erano resi conto del malessere sempre più generalizzato nei confronti del sistema politico-economico gestito da coloro che ufficialmente si richiamavano e si richiamano al sandinismo. Ma che, ormai da parecchio tempo, poco o nulla hanno a che vedere con quelle idee e con quella storia. Come avrebbe detto Umberto Eco, nomina nuda tenemus: possediamo soltanto nudi nomi. Oggi come oggi, la parola «sandinista» appiccicata alla Corte regnante e ai relativi cortigiani (che qualcuno definisce Chayal) equivale, nulla più, a un qualsiasi sostantivo/aggettivo presente nel vocabolario.

Il disagio a livello politico lo si percepiva soprattutto tra i militanti di base e i simpatizzanti dello stesso Frente Sandinista, i quali si sentivano abbandonati a loro stessi e utili solo per votare o per partecipare agli anniversari del 19 luglio. Solo chi non voleva vedere, non vedeva e continua a non vedere che «Carpi Suzzara Mantova… si cambia!», come gridava una volta il capostazione di Modena. Eppure, qui da noi, nessuno mette in dubbio che l’attuale Partito Democratico nulla abbia a che fare con il vecchio Partito Comunista e persino con la sinistra. Pur con tutti i difetti, le incongruenze e i ritardi che poteva avere il partito di Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer. Stranezze della geografia politica.

Sono state scritte pagine e pagine sugli avvenimenti del 2018, sia sulla carta stampata sia in rete. Spaccando l’ormai esiguo mondo della sinistra tra i sostenitori lancia in resta di un governo ufficialmente socialista cristiano e solidale, e i critici che condannano senza appello la risposta eccessivamente repressiva delle forze governative. Una repressione che, comunque la si pensi, mai si era vista prima in Nicaragua, neppure negli anni del neoliberalismo, quando erano i sandinisti a governare desde abajo, protestando nelle piazze e nelle strade, imbracciando i morteros caseros, costruendo i tranques (barricate) e abbattendo i giganteschi cartelloni con lo slogan di Churruco Bolaños «Sí, se puede». Senza rispolverare lo storico e del tutto insensato tu quoque, è indubbio che i protestantes del 2018 nulla di nuovo avessero inventato, ma solo ripetuto.

Entrambe le posizioni hanno la loro legittimità, sebbene gli uni tendano a indicare come «traditori e venduti» i secondi (quando sono generosi, si limitano a definirli «confusi»), rifiutando qualsiasi serio confronto politico e spesso rompendo pure decennali rapporti di amicizia. Mentre gli altri accusano di stalinismo i sostenitori a spada tratta del sistema e delle scelte da questo effettuate dal 2007 a oggi (se poi i rappresentanti del sistema fanno di tutto per essere paragonati al baffuto georgiano, compresa la pubblicazione di foto non proprio politically correct, la responsabilità è esclusivamente della loro insipienza). Se qualcuno, come noi, pur schierato da un lato della barricata (ideale), tenta nel suo piccolo di analizzare in modo sereno i fatti e le situazioni, poiché sia gli uni sia gli altri fanno parte di una polarizzazione dogmatica e settaria che non ci appartiene, in quanto frutto di una visione comunque strabica della situazione, riceve invettive da entrambe le parti. Ma tiremm innanz, fradej

È assai probabile che le vecchie categorie politiche alle quali siamo abituati, abbiano la necessità di una revisione sostanziale. Parlare, oggi, di destra e di sinistra, in una realtà bellica di distruzione e di morti che ha stravolto e travolto qualunque schema precostituito, forse non ha più molto valore. Che esistano due contrapposte visioni di ciò che dovrebbe essere il «nuovo ordine mondiale», non significa automaticamente che una sia di destra e l’altra di sinistra. Che senso ha continuare a dividere il mondo in buoni e cattivi, o stabilire le ragioni e i torti degli uni o degli altri, quando tutti si comportano in modo imperialistico? Per non dire identico e folle?

Ci sarà sempre qualcuno disposto a sostenere che la colpa è degli uni e qualcuno che accuserà gli altri. Entrambi prendendo a sostegno solo il poco che gli torna utile e ignorando tutto il resto che lo contraddice. Per cui, guelfi o ghibellini (o guelfi neri o bianchi), nessuno è innocente e tutti hanno (abbiamo) una parte di responsabilità. Dal canto nostro siamo assillati da una infinità di dubbi e non crediamo alla facile propaganda, da qualunque parte provenga. Che sia in buona fede o lautamente pagata, non fa alcuna differenza.

Se si ragiona con un minimo di logica su un evento come quello assai più recente di Bucha, pure ammettendo che i corpi nelle strade di quella città ucraina fossero una montatura (da dimostrare in modo inconfutabile), bisognerebbe chiedersi: se non ci fosse stata una invasione militare, con immani distruzioni e innumerevoli morti, qualcuno avrebbe mai pensato a costruire un falso del genere? Vero o falso che sia, la responsabilità iniziale non può essere messa in dubbio.

Per quanto la nostra sia solo una ipotesi, appare con evidenza che in troppi casi ci si limita a dire che una notizia è falsa, una bufala, senza mai risalire alle origini di quella mistificazione, per comprenderne gli scopi. Il che non significa voler giustificare, bensì semplicemente essere corretti a livello intellettuale.

Per cui, come direbbe il manzoniano Ferrer, Gran cancelliere di Milano: Adelante, Pedro, con juicio… cercando di analizzare le origini più o meno lontane dei fatti del 2018.

A quanto ci risulta, nessuno ha ancora provato a ricostruire ciò che era accaduto in precedenza, facendo solo generici e spesso fumosi riferimenti alle proteste studentesche di poco precedenti, in relazione all’incendio della riserva di biosfera Indio-Maíz e alla non gradita riforma della previdenza sociale ossequiente ai voleri del Fondo Monetario (FMI), casus belli degli eventi immediatamente successivi. Ci pare opportuno, dopo quattro anni, dare un piccolo contributo per iniziare a ragionare con gli occhi un po’ più aperti. Fuori dal classico schema buono-cattivo e dal complottismo a tutti i costi, sempre presente da entrambe le parti. «E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare l’osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare un po’ la loro retina da certi pregiudizi» (Antonio Gramsci, 22 dicembre 1916).

Apriamo una breve, ma necessaria parentesi: alcuni cablogrammi dell’allora ambasciatore gringo a Managua in carica dal settembre del 2005, Paul Arthur Trivelli, sono stati pubblicati da Wikileaks. Datati 2 novembre 2006, tre giorni prima delle elezioni che videro la vittoria di Daniel Ortega dopo sedici anni di sfrenato neoliberismo. Si parla di un primo incontro tra alcuni diplomatici gringos e un paio di dirigenti dell’allora denominato Movimiento de Renovación Sandinista (MRS), che qualche buontempone locale riteneva fossero le iniziali capovolte di Sergio Ramírez Mercado. L’argomento, stando a quanto scritto nei dispacci, era relativo ai possibili brogli elettorali del FSLN in combutta con i liberali di Arnoldo Alemán arroccati nella loro República independiente di El Crucero: «i portavoce del MRS Israel Lewites e la vice candidata dell’Assemblea nazionale Dora María Téllez hanno affermato che non credono che il FSLN possa vincere facilmente, ma sono sicuri che è ben organizzato per realizzare una frode elettorale e rubare la vittoria».

All’epoca l’ambasciata era ubicata al km 4,5 della Carretera Sur, oggi trasferita a Las Piedrecitas, costantemente vigilata all’esterno da poliziotti nicaraguensi e all’interno dai marines. Ci pare logico ritenere che questi poliziotti informassero regolarmente i superiori sulle visite degli oppositori, pur non potendo sapere di cosa avessero discusso. E, salendo la scala gerarchica, la informazione fosse giunta fino a El Carmen. Ma la base sandinista nulla sapeva… poiché nulla trapelava dai piani alti.

Il 5 novembre 2006 il MRS ottenne il 6,44% per il candidato presidente e l’8,69% per la Asamblea Nacional, eleggendo cinque deputati. Nel giugno dell’anno successivo il Consejo Supremo Electoral sospese la sua personería jurídica, decretandone lo scioglimento e la automatica decadenza degli eletti. La motivazione fu che non aveva rispettato alla lettera le norme statutarie interne.

D’altro canto, non è un segreto per nessuno né una invenzione che, dopo averne tessuto le basi negli anni anteriori, dal 2007 al 2017, il comandante Daniel avesse concretizzato un sistema politico-economico che – nonostante la soverchia retorica rivoluzionaria – si basava sulla stretta alleanza con le élite economiche e con le gerarchie cattoliche locali. Entrambe storicamente schierate con la destra più becera esistente nel Paese. Per non parlare della intesa con buona parte degli ex contras: il vicepresidente eletto quel 5 novembre era Jaime René Morales Carazo, uno dei fondatori e organizzatori dell’esercito mercenario. Per inciso, era pure il vecchio proprietario della reggia ubicata nel barrio Bolonia espropriata nel 1979, dove da allora vive la attuale coppia regnante, trasformata in un bunker inavvicinabile. Probabilmente con la scritta dannunziana «Cave canes ac domina» appesa esternamente: attenti ai cani e alla padrona. Ma questa è un’altra storia.

Il tutto, con il beneplacito di Washington e pure con il sostegno economico sia della Banca Mondiale sia del Fondo Monetario Internazionale: secondo i dati forniti dal Banco Central, dal 1° gennaio 2007 al 30 giugno 2021 questi due organismi avevano concesso crediti per 750 milioni di dollari al governo di Daniel. Se aggiungiamo la BCIE e il BID il totale sale a quasi quattro miliardi. Stando sempre ai dati del Banco Central, nei primi nove mesi del 2021 gli interessi pagati sul debito estero pubblico erano di quasi 548 milioni di dollari.

Deuda eterna in crescita esponenziale anno dopo anno. Sebbene qualche esponente della sinistra non confusa riesca a definire i prestiti bancari come «solidarietà indiretta»…

Al tempo stesso, grazie ad altri quattro miliardi di dollari praticamente regalati in dieci anni dal Venezuela tra il 2007 e il 2017 (un milione al giorno), Daniel aveva promosso una serie di politiche sociali volte ad alleviare la situazione di estrema povertà causata dal neoliberismo, pur senza combatterla in modo sostanziale né mutando di una virgola il sistema economico capitalistico, anzi, rafforzandolo e implementandolo. Ottenendo comunque il crescente appoggio delle fasce più diseredate del Paese, le quali non potevano né possono fare altro che accontentarsi della carità governativa e ringraziare per quei pesci che nulla cambiano nella loro realtà quotidiana, non avendo imparato a pescare né possedendo gli strumenti per farlo, in una sorta di triplice alleanza tra capitalisti, ex-contras e diseredati, con la benedizione degli ecclesiastici. Timeo danaos et dona ferentes, diceva Laocoonte nella Eneide di Virgilio: temo i Danai [i Greci], anche quando portano regali.

La stessa USAID contribuiva al welfare con il finanziamento di programmi pubblici in svariati settori. Per citarne uno solo tra i molti, il «Family Planning Graduation Strategy» dal 1° ottobre 2007 al 30 settembre 2012 con un investimento di 13 milioni e mezzo di dollari in cinque anni, in collaborazione con il ministero della Famiglia, quello della Salute, l’INSS e altri enti statali. Circa la medesima cifra era arrivata dalla stessa USAID alla opposizione, però in un periodo assai più lungo: tra il 2007 e il 2017. Il raffronto è indicativo, al di là delle semplicistiche chiacchiere propagandistiche e populistiche. Se si facesse il conto di tutti i progetti governativi finanziati da USAID nel settore sanitario e in quello educativo, aggiungendo pure quelli per l’ammodernamento e l’addestramento sia dell’esercito sia della polizia, il paragone sarebbe ancora più eloquente.

Neppure è un segreto che, fin dagli anni di Ronald Reagan, Gringolandia abbia finanziato e finanzi i vari gruppi della destra locale, più o meno eversiva. Anche con gli intrallazzi delle covert operations, come il famoso Iran-Contras-gate del colonnello Oliver North.

Che Washington non abbia mai gradito i sandinisti nel patio trasero, è noto pure ai congiuntivitici: un vero pruno nell’occhio, come si diceva un tempo. Chiedersi per quale motivo, nel corso di un decennio, abbia contribuito economicamente alla realizzazione di vari programmi sociali del Buon governo di Daniel e al tempo stesso abbia operato per abbatterlo, sarebbe il primo passo per comprendere il meccanismo mentale assai contorto dei gringos. E pure per togliere il velo che ricopre la vera “ideologia” di coloro che continuano a definirsi sandinisti e reggono le sorti del Paese, retoricamente blaterando di imperialismo e di ingerenza a ogni pie’ sospinto mentre accettano i lauti finanziamenti di organismi strettamente dipendenti dalla White House. Sarà il famoso pecunia non olet? «Ah, saperlo, saperlo!», diceva anni fa Riccardo Pazzaglia nella trasmissione televisiva Quelli della notte.

Sarebbe pure opportuno chiedersi il motivo per cui, per oltre un decennio, dal 2007 al 2017, finché e biròcc el va, ossia tutto era tranquillo e teoricamente sotto controllo, dai piani alti nessuno avesse mai accennato pubblicamente al finanziamento della destra da parte di Washington. Per quanto lo sospettassero, i militanti sandinisti di base non ne erano debitamente informati né esisteva un vero dibattito interno nelle file del partito sulle questioni più rilevanti, attestando uno scollamento sempre più palese con il vertice, il quale si identifica con le istituzioni nella formula non certamente pluralista né democratica del partito-Stato. Non occorre un grosso sforzo per rendersene conto: basta osservare Daniel nei discorsi ufficiali come presidente della Repubblica o qualsiasi ufficio statale o qualunque ambasciata che espongono regolarmente affiancate la bandiera nazionale e quella del partito. Cosa che non ci risulta per nessun altro Paese al mondo. Non riusciamo a immaginare le rappresentanze diplomatiche italiane che esibiscano accanto al tricolore pure quella del partito di maggioranza che al momento governa… Nemmeno riusciamo a pensare, negli ultimi sette anni, a Sergio Mattarella con la bandiera di un qualunque partito alle spalle per il messaggio di fine anno. Qualcuno ricorda Sandro Pertini che restituì la tessera del suo partito, per essere il presidente di tutti gli italiani? Ah, scordavamo la cosa essenziale: il nostro non è un Paese socialista!

Per rimanere nella stessa area geografica del Nicaragua, qualcuno ha mai visto una foto di Fidel con entrambe le bandiere alle spalle? O Raúl o Díaz-Canel? Eppure a Cuba c’è il partito unico, tanto sognato a El Carmen.

Non si tratta di quisquilie, bensì di sostanza: la doppia bandiera serve a mantenere la illusoria illusione che l’orteguismo, o peggio il chayismo, sia la stessa cosa del sandinismo storico. Illusionisti e illusi… al di qua e al di là dell’Atlantico. Grosso modo come la tessera del PD di una nostra zia deceduta alcuni anni fa, nella quale era riportato testualmente: «anno di iscrizione: 1945» a un partito fondato nel 2007. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da scompisciarsi dal ridere: all’epoca il segretario generale era il genietto di Rignano sull’Arno, l’ex boy-scout con i dentini aguzzi come gli squali che va a insegnare cosa sia la democrazia alla famiglia Saud. In un inglese maccheronico, però lautamente pagato: scioc, scioc bicos evrifing in auar maind is totali conected vitz tze iuchei… female pig Maremma!

Sarebbe forse da rispolverare l’antico mito di Narciso, il quale scambiò la propria immagine riflessa nell’acqua per un’altra persona e se ne innamorò perdutamente. Ciò, ci farebbe comprendere la facilità con cui possiamo essere attratti, fino ad appassionarci follemente, di tutto ciò che è in grado di restituirci positivamente la nostra immagine o il nostro pensiero (ideologia). Una bandiera rossa con la falce e il martello o una rosso-nera con la scritta cubitale FSLN, come mere estensioni “narcotizzanti” del nostro stesso «io» (narciso e narcotico hanno la stessa origine etimologica). Argomento affrontato alcuni decenni fa da Marshall McLuhan, con molta più competenza di quella che possiamo avere noi: «Il senso di questo mito è che gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso da quello di cui sono fatti» (Understanding Media, 1964; pessimamente tradotto in italiano con Gli strumenti del comunicare, ma di certo non con Il villaggio globale come afferma qualcuno, datandolo peraltro al 1961).

Che dire, poi, se fino al 17 aprile 2018 la poetessa Rosario Murillo, detta Chayo, definiva «hermanos» i funzionari di USAID, ringraziandoli ripetutamente per il loro sostegno tecnico ed economico al Paese? Dal canto suo, Evo Morales li aveva cacciati dalla Bolivia fin dall’aprile del 2013. Ma pure questa è un’altra storia…

Non è possibile credere che una organizzazione politico-militare come il Frente Sandinista che, nel corso della sua storia, era riuscito a infiltrare non solo la contra, ma persino la CIA (stando a quanto affermò a suo tempo il comandante Tomás Borge), non avesse informatori nelle file della opposizione. Sarebbe ingenuo pensare il contrario. Questi infiltrati nelle scarse e frastagliate schiere di una galassia troglodita, litigiosa e senza alcun programma, nulla scoprirono fino all’aprile del 2018, quando i buoi erano ormai usciti dalle stalle e invadevano le strade. È impensabile che nulla sapesse un esperto come Néstor Omar Moncada Lau detto Chema, ufficialmente consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale. Però, come è probabile, nessuna insurrezione era in programma e nulla c’era da scoprire se non i classici intrallazzi sottobanco.

A tutti gli effetti, il vertice del partito-Stato (o, meglio, famiglia-Stato) era perfettamente informato dei maneggi eversivi che si stavano allestendo, “programmati” a lunga scadenza come vorrebbe un tipico golpe blando. Lo sapevano perfettamente, non solo grazie ai suddetti infiltrati, ma anche e soprattutto perché, da tempo e in numerose occasioni, l’ambasciata cubana a Managua aveva provveduto a fornire loro puntuali informazioni e documenti. Avvertendo che il piano eversivo prevedeva la organizzazione di proteste per i più svariati motivi, a partire dalla questione del Canale interoceanico, nella speranza che fossero duramente represse e con ciò innescare l’isolamento internazionale del Paese sulle questioni della libertà, della democrazia e dei diritti umani.

Alcune avvisaglie, infatti, si ebbero con le proteste del 2016 da parte dei contadini espropriati con indennizzi irrisori proprio per la realizzazione di quella opera faraonica mai avviata in concreto. All’inizio di dicembre di quell’anno, la polizia sparò proiettili di gomma e lacrimogeni. Ci fu qualche ferito più o meno grave, ma in pratica nulla di irreparabile. Se non un aumento dei mugugni, anche tra le file dei militanti sandinisti.

Qualcuno si è preso la briga di calcolare che dal 1° gennaio 2016 al 31 marzo 2018 si erano verificate ben 568 proteste, la maggior parte delle quali assolutamente insignificanti se considerate singolarmente. In genere, la risposta nei confronti delle rimostranze economiche e sociali era tollerante, mentre si realizzava in forme più repressive se si trattava di manifestazioni politiche (essenzialmente quelle delle femministe per l’aumento della violenza sulle donne, fino ai femminicidi in costante crescita, e quelle per il suddetto Canale). In ogni caso, pur essendo spontanee, su questioni di vario tipo, poco partecipate e distribuite in svariate località senza connessione tra loro, era un sintomo rilevante che la media fosse di venti ogni mese, quasi una al giorno. Indice, senza possibilità di dubbi, di un malcontento sempre più generalizzato, il quale però non significava una automatica opposizione politica nei confronti del governo.

Tutto andò bene pure con le infime proteste per i ritardi governativi nello spegnimento dell’incendio nella riserva naturale Indio-Maíz, nella regione di Río San Juan, scoppiato il 3 aprile 2018. Con ben poca lungimiranza e a la zumba marumba, il Buon governo inizialmente rifiutò qualunque collaborazione esterna, come quella offerta dai pompieri del confinante Costa Rica: intromissione negli affari interni, si diceva. Come se l’aria che tutti respiriamo grazie alle sempre più scarse foreste pluviali ancora esistenti fosse un semplice affare interno (il che, dà il senso di cosa si intenda a El Carmen con il termine solidaridad). Ma tant’è… e in una decina di giorni andarono distrutti quasi seimila ettari di selva tropicale (kmq 60, come il territorio del Comune di Varese), con relativa fauna. Circa una settimana dopo l’inizio dell’incendio, alcune decine di studenti universitari iniziarono a manifestare quotidianamente, la polizia interveniva con i lacrimogeni, eseguiva qualche fermo e rilasciava i ragazzi dopo alcune ore. Per quanto agisse più pesantemente del solito, tutto finiva lì, senza neppure un interrogatorio o un arresto, tanto meno un procedimento giudiziario. Si potrebbe dire a tarallucci e vino, se in Nicaragua sapessero cosa sono i tarallucci: rosquillas somoteñas y güaro, si potrebbe tradurre con un po’ di fantasia.

La protesta continuò per alcuni giorni, sostenuta dai mezzi di comunicazione della opposizione ma nella sostanziale indifferenza del Paese e verso la metà del mese le fiamme furono spente: secondo le dichiarazioni ufficiali, il 13 aprile. Anche grazie al supporto tecnico straniero, finalmente accettato, integrato pure con alcuni specialisti di USAID e del Servizio forestale degli Stati Uniti. Sentitamente e pubblicamente ringraziati da Rosario e amorevolmente definiti «hermanos», accantonando finalmente la folle retorica della ingerenza mentre andava in fiamme un polmone di ossigeno.

Non conosciamo esattamente la data, essendo un segreto di Stato, ma verso il 15 aprile il comandante Daniel si recò a La Habana per sottoporsi ad alcune cure mediche. Si sa che soffre di una malattia autoimmune, probabilmente il lupus, che gli impedisce di esporsi ai raggi solari, i quali potrebbero causargli serie lesioni cutanee e persino un deterioramento cognitivo (ma pure questo è un segreto di Stato). Da parecchi anni, le iniziative alle quali partecipa, pertanto, o sono al chiuso o si svolgono quando è già calata la notte. Per maggiore sicurezza, visto che gli ultravioletti arrivano pure nelle ore notturne, chiunque può facilmente notare nelle immagini fotografiche e nei video messi in rete che indossa sempre un giubbetto leggero a maniche lunghe e spesso copre la testa con una gorrita.

Di certo, oltre a un pesante infarto nel 1994 da lui stesso confermato, soffre ancora dei disturbi psicologici conseguenti ai sette anni di carcerazione nel periodo della dittatura somozista (1967-’74), come dichiarò in una intervista con la giornalista Claudia Dreifus: «Ho passato un periodo molto difficile dopo tanti anni in prigione. In carcere avevo sviluppato alcuni meccanismi di difesa per sopravvivere. E improvvisamente, mi trovavo liberato da quell’ambiente e dovevo adattarmi a una vita totalmente nuova… la libertà. Uno si trova improvvisamente in una condizione nella quale non esiste persecuzione, né pericolo… e sembra così strano! Rilasciato, mi sentivo teso. Soffrivo di claustrofobia. Se entravo in una stanza, volevo subito uscirne. Se ero in auto, cominciavo a sentirmi disperato. Era come se la cella fosse sempre con me» (Playboy, novembre 1987).

En passant, verrebbe da chiedersi: se Daniel non si curava in una struttura ospedaliera nazionale, quale è il livello della sanità pubblica nel Paese, propagandata come il non plus ultra? Per inciso, esiste l’Ospedale Militare, gestito dall’esercito e da una decina di anni trasferito in un nuovo edificio poco distante dal precedente: «una institución hospitalaria de excelencia a nivel nacional e internacional», si legge nel sito web. Del tutto casualmente, il capo costituzionale delle forze armate è lo stesso Daniel. Idem con patate, dicasi per quello che era l’ospedale della polizia, oggi del ministero dell’Interno. Ma pure questa è un’altra storia…

Tornando all’argomento principale, il 18 aprile la Gaceta Diario Oficial pubblicò il testo della riforma pensionistica (Decreto presidenziale 03-2018), la quale stabiliva un aumento della trattenuta sulla busta paga per i lavoratori (dal 6,25% al 7%) e per i datori di lavoro (dal 19% al 22,5%) e una riduzione del 5% dell’importo delle pensioni in essere. Per par condicio, si affermò (qualche lettore ha presente i diritti acquisiti?). Questa ultima decisione fece sì che alcuni gruppetti di pensionati, in varie località del Paese, scendessero spontaneamente e pacificamente in strada per protestare contro il taglio al loro scarso reddito: mediamente 180 US$ mensili, 6 US$ dal giorno, sui quali 9 US$ in meno si sentono. In solidarietà, manifestarono pure alcune decine di studenti universitari.

Negli anni del neoliberismo, le masse popolari manifestavano gridando «Derecho no defendido, derecho perdido»… concetto che vale a qualsiasi latitudine e con qualunque governo. E poco importa se Gustavo Eduardo Porras Cortés fosse il segretario di un sindacato che indiceva scioperi e manifestazioni con morteros caseros e tranques o, con una carriera fulminante, oggi sia il presidente di una Asamblea Nacional che approva a tamburo battente leggi liberticide inaccettabili in un Paese capitalista e ancor più in uno che si autodefinisce socialista. Se queste norme fossero esistite quando era il capo del FNT (Frente Nacional de los Trabajadores), sarebbe stato arrestato, processato e condannato a svariati anni di carcere.

Con quale logica di sinistra si possa sostenere che il Nicaragua ha il diritto di emanare leggi forcaiole poiché esistono pure nei Paesi capitalisti, lo sa solo il baffuto georgiano (dovunque si trovi attualmente) o il suo successore in carica, strenuamente impegnato a portare la democrazia in un Paese sovrano, scimmiottando la motivazione storica dei gringos.

Un anno dopo, il solito Innominabile affermava che «Gli incidenti a Managua scoppiarono dopo l’annuncio di una riforma della fiscalità generale» («Ricostruendo il Nicaragua», 25 aprile 2019). Possibile che non conosca la differenza tra una riforma previdenziale e una fiscale? Si potrebbe parlare, con beneficio d’inventario e un sorriso di compatimento, di una sua tipica e classica svista. Peccato che i suoi articoli siano stracolmi di neonati gattini ciechi che non aprono gli occhi dopo una settimana, come abbiamo rilevato in altre occasioni e come continueremo a segnalare ogni volta che ci si presenterà la opportunità di farlo. Ma tant’è, questo è ciò di cui dispone Sua Eccellenza l’ambasciatrice nicaraguense a Roma, pure lei con le due bandiere regolarmente appaiate e sempre presenti. Costui è ciò che passa il convento e chi si contenta… Speriamo che a forza di insistere, pur mantenendo le sue opinioni, eviti la faciloneria e ponga almeno un minimo di attenzione in ciò che scrive (non solo sul Nicaragua, por supuesto). Per lo meno quel tanto che possa giustificare la qualifica di «altamente especializado en temas económicos, políticos, sociales y comunicacionales en el ámbito europeo».

Riprendiamo il filo sulla seconda metà di aprile del 2018, quando sarebbe stato sufficiente che la polizia avesse agito come aveva fatto fino a pochi giorni prima. E, probabilmente, le alte sfere di questa istituzione avrebbero preferito comportarsi così. Non solo perché era il suggerimento dei cubani, ma per il pessimo ricordo di ciò che accadde dopo l’unico ucciso dalla polizia nel corso di una manifestazione, durante le proteste studentesche per il 6% nell’aprile del 1999 all’epoca di Arnoldo Alemán (quel tragico giorno in cui gli antimotines uccisero il 24enne Roberto González eravamo a poche decine di metri dal Banco Central, non molto distanti dai ragazzi che protestavano). Nell’aprile del 2018 i vertici della polizia sapevano bene che sarebbe bastata una goccia per far traboccare il vaso dei mugugni. Però, stando alle voci di corridoio circolanti all’epoca, in assenza di Daniel la vicepresidenta facente funzioni ordinò all’allora capa della polizia Aminta Granera Sacasa: «¡Vamos con todo!».

In base all’art. 97 della Costituzione, il presidente della Repubblica è il capo supremo della polizia. E con la legge n. 872 del 26 giugno 2014 la polizia non dipende più dal ministro dell’Interno, bensì direttamente dal presidente: «Estará sometida a la autoridad civil que será ejercida por el Presidente de la República, en su carácter de Jefe Supremo de la Policía Nacional» (art. 1). Ovvio che, in sua assenza, lo diviene automaticamente la vicepresidenta.

Granera era in carica dal 5 settembre 2006 per volere dell’allora presidente Churruco Bolaños e con il doppio mandato quinquennale scaduto da oltre un anno ma prorogato contra legis. Come Garibaldi, laconicamente rispose: «Dale, puej», che possiamo tradurre con «Obbedisco». Mancandole il coraggio di agire come dichiarò nell’ormai lontano 1979 il fondatore della Policía Sandinista, René Vivas Lugo: «la polizia non sparerà mai sul popolo, perché è il popolo stesso in uniforme». Tanto che in una intervista a La Primerísima nei giorni delle proteste affermò che quella che stava operando nelle piazze e nelle strade non era più la stessa polizia che lui aveva creato dopo il triunfo.

Per completezza della informazione è necessario riportare le sue parole, pubblicate nella rivista Envío del giugno 2011: «Eravamo una polizia partigiana, perché la Rivoluzione era il Fronte Sandinista. Ma non era il partito che abbiamo oggi, che non mi piace e in cui non credo. Ci sentivamo tutti parte della Rivoluzione, ma non eravamo agli ordini del partito, come accade attualmente».

Il resto è noto e ciascuno ha il diritto di leggerlo a suo modo. Compreso l’incallito bufalaro de Roma.

Una indicazione va comunque data ai sostenitori della versione ufficiale e a coloro che in buona fede ci credono: per quanto qualcuno ne avesse accennato in precedenza, soprattutto una parte della sinistra all’estero, in Nicaragua si cominciò a parlare ufficialmente di golpe blando solo verso la fine di maggio. Un mese dopo l’inizio delle proteste e soltanto dopo che la comunità internazionale, ispirata e istigata da Washington, cominciò a ventilare possibili sanzioni. Trovando così una motivazione più o meno credibile per rispondere militarmente, anziché politicamente, a un evidente disagio parecchio generalizzato. In precedenza non esistono documenti o dichiarazioni ufficiali che facciano riferimento a questa lettura dei fatti. Se qualcuno la ritiene una coincidenza, libero di farlo. Se qualcuno ha documenti ufficiali di provenienza nicaraguense che parlino di golpe blando prima di questo periodo, gradiremmo che li rendesse noti. E ben volentieri ci cospargeremo il capo di cenere.

Lo stesso Chele William Grigsby Vado, direttore della emittente La Primerísima, assieme alla capo-redattrice Tirsa María Sáenz, nelle trasmissioni settimanali A los cuatros vientos, almeno fino alla fine di maggio facevano a gara a chi criticava più aspramente l’operato del governo e della polizia. Affermando che lo stesso FSLN avrebbe dovuto cambiare radicalmente. In rete si trovano ancora alcuni video di quelle trasmissioni, che suggeriamo ai lettori di visionare con attenzione. Poi è accaduto qualcosa che ha fatto fare loro una giravolta obbligata di 180 gradi a partire da giugno-luglio: secondo alcuni, fu la minaccia di sospendere la propaganda pagata dallo Stato e dagli enti pubblici (oltre a quella degli imprenditori legati al Frente), la quale era ed è la maggior parte, con la conseguente e inevitabile chiusura della emittente. Il che significava la disoccupazione per chi ci lavorava.

Un bel po’ di tempo dopo chiacchierammo con il Chele, il quale sostenne a spada tratta la tesi ufficiale del golpe blando. Però, non ebbe alcuna incertezza nel criticare l’operato della polizia che, pure secondo lui, all’inizio si comportò assai malamente.

Facciamo, a questo punto, un necessario salto indietro di circa un anno e mezzo, per comprendere gli antecedenti. Sulle pagine de La Jornada, quotidiano messicano di sinistra (quella «confusa», ovviamente), nella rubrica delle opinioni comparve un articolo assai dettagliato di àngel Guerra Cabrera intitolato «Nicaragua: el golpe blando en marcha». Era esattamente il 3 novembre 2016 e, evidentemente, questo giornalista era in possesso delle medesime informazioni della ambasciata cubana a Managua. E le rese di pubblico dominio. In un contesto più generale, che abbracciava tutte le nazioni latinoamericane allora governate dai progressisti, all’inizio del gennaio 2017 ribadì l’avviso sul «Nicaragua sandinista, donde también se planifica el golpe blando».

àngel Guerra è un giornalista cubano da anni residente nel Paese azteco. In gioventù partecipò alla guerriglia castrista contro Fulgencio Batista y Zaldívar e alcuni anni dopo la fuga del dittatore diresse Juventud Rebelde e la rivista settimanale Bohemia. Si autodefinisce «romántico y rebelde con causa: por una América Latina unida sin yugo yanqui».

Con il suo articolo, pubblicato pochi giorni prima delle elezioni in cui Daniel fu riconfermato presidente (con il 72,44%), rese noto nei dettagli il piano di destabilizzazione gringo, con tanto di nomi e cognomi, il quale prevedeva che le opposizioni interne «lavoreranno negli ambienti giovanili per mobilitarli attraverso i social network digitali nella speranza che le forze di sicurezza operino con violenza contro gli attivisti e gli eventuali manifestanti per scaldare gli animi e poter passare alla seconda fase, consistente nel mettere il Nicaragua sul banco degli accusati davanti alle organizzazioni internazionali e regionali per presunte violazioni dei diritti umani». Le «Organizzazioni finanziate dal NED, nota facciata della CIA» agiranno «invocando tattiche pacifiche ma cercando di far scorrere il sangue».

L’unica differenza, sostanziale e inaspettata, fu la protesta di massa che vide scendere nelle strade di Managua almeno trecentomila persone in varie occasioni dal 22 aprile alla fine di maggio, nel Día de la madre. Secondo la opposizione oltre mezzo milione e in base ai dati forniti dalla Questura non più di trentamila (tutto il mondo è paese). Buona parte delle quali, se non la maggioranza, erano militanti e simpatizzanti del Frente: comunque elettori di Daniel nel 2016. Lo stesso avvenne in numerose altre città. Naturalmente, chi sostiene la linea ufficiale, oltre a negare, come qualunque questore che si rispetti, la esorbitante quantità dei protestantes ai quali les salió el indio, non si è mai chiesto per quale motivo si fosse verificato questo scollamento tra il vertice e la base, generalizzato in tutto il Paese. Per dovere di informazione, nella capitale il Frente aveva ottenuto soltanto il 60,5% dei voti e in numeri assoluti tutta l’opposizione non era arrivata a 200mila preferenze (nell’intero Paese: 587mila). I conti sono presto fatti, pertanto. A meno che non ci sia il solito zelante Questore che non sa o non vuole contare.

Oltre a quelle di Managua, pure le strade di tantissime altre località erano strapiene di protestantes. Migliaia di persone di ogni età, ceto sociale e appartenenza politica.

Tutto estremamente chiaro nell’articolo di àngel Guerra, al contrario delle sparate del super-disinformato e disinformante Innominabile. Il quale fino al maggio del 2018 mai aveva accennato a questo progetto di golpe blando in Nicaragua. Per la precisione, mai prima di allora aveva accennato al golpe blando o a Sharp in relazione a qualsiasi Paese del mondo: svelt cum’è un gat da marmo. E ne era così bene informato che in seguito affermò candidamente che «È un progetto in piedi dal 2017» («Il Nicaragua e l’isteria imperiale», 22 agosto 2021). Ossia da un po’ di tempo dopo la denuncia pubblica sulle pagine di La Jornada e, tanto per gradire, tradotto immediatamente in italiano sul sito progettocubainformAzione. Neppure si rendeva conto che non era possibile organizzare in un anno un golpe, senza avere l’appoggio di una parte sostanziale dell’esercito e della polizia. Quindi, certamente non blando. Oltretutto, la destra locale non aveva e non ha alcun poder de convocatoria, ossia la capacità di smuovere una massa sufficiente per replicare le manifestazioni dei Paesi arabi o dell’Est europeo: non solo non sarebbe mai riuscita a portare in piazza trentamila persone, ma neppure tremila. Forse, trecento. Lo testimonia il fatto che i social funzionassero pure prima del 18 aprile 2018, ma la destra non era mai riuscita a mobilitare più di qualche decina di persone.

Come, del resto, non è mai corretto politicamente, né in Italia né in Nicaragua, criminalizzare tutti coloro che scendono pacificamente nelle piazze, accomunandoli a gruppi più o meno numerosi di provocatori, se vogliamo definirli così.

Per cui, gli suggeriamo caldamente di prendere esempio da àngel Guerra per imparare a fare una vera controinformazione e non della semplice e semplicistica propaganda, probabilmente suggerita dalle veline della rediviva Agenzia Stefani più che dalla purtroppo defunta Agencia Nueva Nicaragua. Utile solo per convincere i già convinti, i quali però poco conoscono della effettiva realtà e ritengono che il Nicaragua attuale sia ancora quello degli anni Ottanta. L’Innominabile ha tutto il diritto di sostenere la tesi che più gli aggrada, però con informazioni veritiere e verificabili. Prima o poi, mentre dal canto nostro continueremo a evidenziare le sue costanti castronerie, speriamo che qualche suo lettore si decida a verificare l’attendibilità di ciò che pubblica. E a trarre le debite conseguenze.

«La sceneggiatura è già nota. È quella dei cosiddetti golpes blandos. […] Il governo sandinista gode di una elevata popolarità e si prevede che Daniel Ortega vincerà le elezioni di domenica 6 novembre. Però continua il percorso del golpe blando».

Se la destra, pur con un uso intensivo dei social e di svariati programmi televisivi su alcuni canali della opposizione, non riusciva a mobilitare le masse, cosa era successo alla metà di aprile del 2018? Come era possibile che tremila, trentamila, trecentomila persone protestassero nelle piazze? Inizialmente contro la riforma pensionistica e, immediatamente dopo, chiedendo libertà e democrazia. Mantenendo il Paese in una situazione di quasi guerra civile per ben cinque mesi.

Prima di rispondere, è necessaria un’altra domanda retorica ai lettori: vi pare chiaro ciò che scrisse il giornalista rivoluzionario cubano nel lontano 2016? «Más claro no canta un gallo», recita un detto nicaraguense. Però, nonostante che in Nicaragua i galli cantino a qualunque ora del giorno e della notte, a quanto pare la sordo-cieca, ma purtroppo logorroica Rosario non aveva compreso il rischio e le possibili conseguenze di una eccessiva repressione. O se ne è bellamente fregata, forse canticchiando e qui comando io e questa è casa mia… Eppure, a quanto ne sappiamo, l’ambasciata cubana aveva fornito alla dirigenza orteguista elementi assai più puntuali e minuziosi rispetto all’articolo giornalistico. Parecchio tempo prima, peraltro: ci risulta almeno dal 2015.

A chi dare la responsabilità di ciò che è accaduto in quel 2018? Poche decine di pensionati e altrettanti scarsi universitari protestantes non avrebbero mai messo a rischio il sistema. Non ci riuscirono neppure le proteste assai più partecipate contro la realizzazione del Canale interoceanico e nonostante il crescente mugugno nella base sandinista, dei quali abbiamo detto sopra. Il patto scellerato con la Chiesa e con gli imprenditori, oltre che con una parte di ex-contras, non sarebbe stato minimamente scalfito. E Washington avrebbe continuato a versare dollari in un calderone del tutto infruttuoso di una opposizione insignificante, senza programma e litigiosa all’inverosimile. Inutile chiedersi se poteva andare in modo diverso, risolvendosi tutto con piccole contestazioni senza alcuna conseguenza. Insomma, se tutto sarebbe continuato come sempre. La storia non si fa con i «se»…

Invece, la geniale e astutissima vicepresidenta (oggi co-presidenta ufficiale e presidenta de facto) ha preferito ignorare non solo il disagio pregresso e sempre più generalizzato, ma pure i reiterati avvertimenti cubani, mobilitando con todo sia la militanza acefala della Juventud Sandinista sia le forze di polizia: ogni dì voglio sapere chi viene e chi va. Devi pagarle con sangue e dolor, finché la luna non cambia i color… Senza minimamente informarsi sulla reale situazione, chiedendo lumi a chi poteva sapere. Per esempio a Moncada Lau.

Ingenuità politica, ignoranza abissale della realtà, arroganza insolente, megalomania stratosferica, egocentrismo sfrenato, inettitudine congenita, pazzia scatenata… ai lettori la scelta. Dal canto nostro, propendiamo per una miscela bene amalgamata di questi elementi. Con una abbondante spruzzata di esoterismo e di gufi impagliati.

Che lo stesso 18 aprile la opposizione avesse diffuso false notizie su violenti pestaggi e persino su un morto inesistente causato dalla polizia, generando una indignazione generalizzata, oltre a essere prevedibile, rientra nel ragionamento che abbiamo fatto su Bucha. La bufala che avesse sparato e ucciso una persona era più che credibile e in molti ci avevano creduto, poiché era ritenuta possibile visto il comportamento criticato pure dal Chele Grigsby. Dando avvio alla protesta di massa.

Concordiamo con chi afferma che «Sandinismo sa che governare significa gestire, pianificare, prevedere, organizzare e, soprattutto, immaginare» («Nicaragua, a chiudere con la destra», 21 ottobre 1921). Il tempo verbale utilizzato al presente, è però totalmente errato: nel passato, prima della senilità, era così. Peccato che Rosario non sia in grado di fare nulla di tutto ciò, specialmente prevedere, evidente sinonimo di ragionare. Sa solo ordinare, sapendo che i suoi collerici e imperiosi comandi, per nulla poetici né estetici, saranno eseguiti senza fiatare. In base alla vecchia mistica sandinista: «Todas las órdenes serán cumplidas, menos una: rendirse». O, più probabilmente, per il semplice timore di rappresaglie. Ordini eseguiti anche per rispetto e affetto nei confronti del simbolo-Daniel, piuttosto che nei suoi. Trovare un sandinista di una certa età e con un minimo di formazione politica che ne apprezzi le qualità (?) è assai arduo. Per inciso, dai primi anni Novanta Daniel ha chiuso la scuola centrale di partito, rinunciando in tal modo alla formazione dei quadri politici. Non sappiamo se per decisione propria o se dietro suggerimento interessato. Sta di fatto che si trattò di una scelta scellerata ed è il motivo evidente per cui la stragrande maggioranza dei giovani militanti attuali della Juventud Sandinista sono assolutamente digiuni non solo di politica e di storia, ma incapaci di analizzare qualsiasi evento. Soltanto usi obbedir tacendo… basta parlare dieci minuti con qualcuno di loro per rendersene conto. Sembrano i geniali concorrenti de «La pupa e il secchione», per lo meno come appaiono in Blob.

Alcuni anni prima del 2018, quando ancora circolavano le banconote da 10 pesos con il ritratto di Miguel de Larreynaga (sostituite a partire dal 2015), chiacchierando con un gruppetto di questi giovinotti e giovinotte, restammo allibiti nello scoprire che nessuno di loro sapesse chi era questo personaggio. Era come se a un concorrente de «La pupa e il secchione» si mostrasse Garibaldi o Cavour o Mazzini…

Nella sostanza, attualmente non esiste alcun possibile ricambio nella dirigenza politica del Frente: «Poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per vincere», scrisse il carcerato Gramsci. La scuola di partito era in grado di formare i futuri politici, ma quelli attuali non sono come Fidel e Raúl, capaci di dimettersi e passare il testimone. Meglio non avere concorrenti e, più che Patria o muerte, nel Regno del Nicaragua si tratta di Curul o muerte.

Se qualcuno ritiene che stiamo esagerando per oscure e non confessabili motivazioni, in una lunga intervista videoregistrata ai giornalisti nordamericani Max Blumenthal e Ben Norton (The Greyzone), nell’agosto del 2019 la stessa Rosario aveva dichiarato: «Non sono capace di restare seduta. Penso sempre e cerco sempre di fare. Daniel è molto paziente ed è una grande qualità, un grande valore umano perché, quando sei paziente, sai portare, magari con passione, sì, ma senza disperazione, devi pensare a tutti i diversi modi per superare qualsiasi circostanza, qualunque difficoltà si sta affrontando. In mezzo alle circostanze più dure lui ha questa pazienza, questa serenità, questa prudenza che io non ho. Lo devo confessare. Non ce l’ho. Non so come faccia. Io non sono paziente. Non riesco a stare seduta». Conferma indiretta ma chiara che, quando si alza dalla sua comoda curul: ¡Vamos con todo y petrechos!

«Specchio, specchio delle mie brame, dimmi: chi è la più geniale del Reame?» «Sei tu, sei tu, Rosario, la più estrosa del circondario».

Se Daniel non fosse stato a Cuba, se quell’ordine non fosse stato dato, se quell’ordine non fosse stato obbedito… se, se, se… se Daniel comandasse davvero, invece di essere solo un giocattolo nelle mani di una moglie che lo ha salvato da una assai probabile condanna infamante… Tempo perso ragionare con i «se». I fatti sono fatti e non si possono mutare, a meno che non si ricorra a una propaganda che li ignora o li trasfigura.

A pagare lo scotto di una decisione non sua, oltre all’intero Paese, è stata un’altra donna: il 20 aprile, dopo quasi dodici anni in carica, Aminta Granera si dimise dal comando della polizia. Non ufficialmente. Il ritiro ufficiale avvenne il 31 luglio successivo. Non sappiamo se, dopo una profonda riflessione cristiana, abbia finalmente deciso di farsi suora, riprendendo gli studi teologici nel convitto delle Sorelle dell’Assunzione di Città del Guatemala, abbandonati in gioventù per entrare nella guerriglia sandinista. Alcuni affermano che si sia accordata con Washington: è l’unica persona che fu ai vertici della polizia a risultare indenne dalle sanzioni piovute a catinelle.

In ogni caso, dal 1° agosto è stata ufficialmente sostituita da Francisco Javier Díaz Madriz detto Paco (decreto presidenziale 113 A-2018, 31 luglio 2018), consuocero degli Ortega-Murillo dal gennaio 2010.

«Dio, Patria, famiglia e proprietà ve lo vogliamo svelare / Dio, Patria, famiglia e proprietà serve a tenerci al potere», cantava il torinese Fausto Amodei con la sua tipica ironia nei giorni della campagna referendaria sul divorzio (1974).

Mutatis mutandis, così va il mondo. Almeno a quelle latitudini.

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