La confessione come metodo
di Borislav Pekić con un saggio di Božidar Stanišić (*)
«Agli scrittori di confessioni, diari, memorie e autobiografie»
Un uomo stermina la famiglia, sette in tutto. Poi ne scrive un libro. La famiglia la seppelliamo, il libro lo leggiamo. Se comunque, grazie all’analfabetismo o all’incompresione del suo tempo, il libro non lo scrive, un giornalista o uno scrittore si troverà senz’altro. In queste circostanze rimaniamo sinceramente sbigottiti da una certa ingratitudine delle vittime nei confronti di colui che le ha fatte sprofondare nelle tenebre. In fondo, l’ombra della sua fama non cade forse in parte anche su di loro?
Giuda vendette Cristo, poi si pentì. Io scrivo un libro nel quale spiego la sua tragedia. Il crocifisso, tuttavia, fu Cristo.
Un deviatore della ferrovia si dimentica di azionare uno scambio – trenta vittime. Ma questo è un numero impersonale. In quella catastrofe l’unica personalità è di colui che ha commesso la dimenticanza. E tutto il nostro lavoro consiste nell’arrivare a capire il perché.
Alcuni ritenevano che Stalin fosse in torto. Per questo furono puniti. Altri ritenevano che avesse ragione, e poi scrissero delle memorie in cui ammettevano francamente di non aver avuto ragione. Per questo furono premiati. Inoltre, ma che diavolo, quella confessione è concepita così bene da farvi semplicemente vergognare di aver avuto ragione prima di loro.
Sapete, per caso, qualcosa della vedova uccisa da Raskol’nikov? Io non ne so nulla. Di Raskol’nikov so tutto, della vecchia niente. Ci sono note tutte le peculiarità, le abitudini di un certo Landru, ma conosciamo forse qualcosa sulle sue mogli? Credo che non siamo sicuri neppure del loro numero. Su Nerone ne sappiamo di più che su nostro padre, dei cristiani che gettava ai leoni sappiamo solo che erano in tanti.
Tradite il vostro miglior amico. Siete voi l’eroe di questa triste storia. L’amico è solo un pretesto. Se siete sagaci e seguite lo spirito dei tempi ci scriverete sopra una confessione. Poiché siete malvagi, diventerete anche famosi. (A che serve, alla fin fine, essere un farabutto in segreto?) Questo vi creerà nuovi amici con i quali sostituirete quello perso.
Potete ingannare, mentire, raggirare. Solo, quando troverete un po’ di tempo, spiegateci il vostro sistema, diteci se non avete forse avuto qualche problema di coscienza. È un bene averne. Non – si capisce – problemi tali da disturbarvi nelle vostre azioni indegne, ma il minimo necessario affinché queste non vi riescano proprio così facilmente. Questo doterà i vostri peccati di un’anima sulla quale, ve lo garantisco, piangeremo lacrime amare. E infatti, c’è qualcosa di più ingiusto delle circostanze che costringono un uomo a rendere infelici i suoi cari? Questi ultimi sono secondari. Loro non hanno un’anima. Loro sono qui solo per far emergere la vostra.
Potete anche commettere un po’ di omicidi, a condizione che, una volta messo ordine nelle vostre impressioni, ci descriviate per filo e per segno come lo avete fatto. Non sarà inutile che ci forniate anche qualche buona ragione. Ce ne sono a bizzeffe ovunque vi giriate e grazie a quelle motivazioni la vostra azione diventerà vitale.
Potete essere in preda a un errore di giudizio tale da condurre il vostro popolo alla rovina, ma basta che vi pentiate in tempo: dichiarate così, a cuore aperto, che avete sbagliato, ecco, è successo, confessatevi se possibile sotto forma di memoriali in diversi volumi, con allegata documentazione, raccontateci con parole scelte il modo in cui tutto ciò è accaduto (se ormai non possono leggervi le vittime della vostra svista, quella sarà una buona lettura per i loro figli). Poiché, infine, quello sbaglio infelice, che nella maggior parte dei casi non fa altro che mettere in luce il vostro idealismo, è la vostra personale tragedia. Siete voi quello che sta peggio, siete voi quello da commiserare. (E infatti è per voi che ci dispiace di più.) Inoltre siete così onesto, così sincero, così coraggioso. La vostra franchezza rappresenta una forza morale senza precedenti. Quasi quasi ci dispiace che non abbiate sbagliato di più, in modo tale che la vostra nobile sete di verità si potesse manifestare con forza ancora maggiore.
Potete essere un necrofilo, uno scassinatore, un fracassatore di teste, un assassino di anime, un delatore, un imbroglione, un omicida a contratto, un pappone, un tiranno, un traditore, un sadico, uno spacciatore, un ricattatore, un maniaco sessuale, in breve tutto ciò che vi aggrada e che meglio corrisponde alla vostra visione del mondo… solo, vi scongiuro, non dimenticate di metterlo un giorno su carta. Vi suggerisco di dichiarare quanto questo mondo infame sia stato spietato e corrotto nei vostri confronti, per cui non avete avuto altra scelta se non essere ancor più spietato e corrotto di lui, a seconda del tipo di malvagità che ci confessate.
In realtà, non prendete tutto ciò assolutamente alla lettera: siate malvagi, se proprio dovete, solo vi scongiuro, in nome di Dio, non costruite su questo né libri né dottrine.
E se proprio dovete confessarvi – eccovi le chiese!
[traduzione di Alice Parmeggiani]
Un Nobel mancato
Il ventennale della Fondazione “Borislav Pekić” di Belgrado, istituzione dedicata alla cura e alla pubblicazione dell’enorme eredità letteraria dello scrittore scomparso nel 1992, è un’occasione per ricordare uno dei maggiori narratori, saggisti, drammaturghi e sceneggiatori serbi e jugoslavi.
di Božidar Stanišić
1991,Belgrado. Borislav Pekic alle manifestazioni anti-Miloševic
L’opera oceanica dello scrittore serbo e jugoslavo Borislav Pekić (1930-1992), tra i fondatori del Partito Democratico nel 1990, rivela ancor oggi nuovi tesori, grazie all’opera della Fondazione di Belgrado a lui dedicata.
Il ventennale della Fondazione “Borislav Pekić” di Belgrado, istituzione dedicata alla cura e alla pubblicazione dell’enorme eredità letteraria dello scrittore scomparso nel 1992, è un’occasione per ricordare uno dei maggiori narratori, saggisti, drammaturghi e sceneggiatori serbi e jugoslavi.
Tempo fa, nella mia relazione a una conferenza sulle opere di Danilo Kiš, provando a spiegare il perché delle dediche contenute in «Una tomba per Boris Davidovič», nominai anche Borislav Pekić. A lui Kiš dedicò il capitolo «La scrofa che divora la propria prole», che tratta del destino di Gould Verskols, rivoluzionario irlandese che, dopo un tentativo di fuga dal lager stalinista di Karaganda, fu assassinato dai suoi persecutori in modo terribile. Qualcuno dei presenti mi chiese chi era Pekić. Risposi che serviva un’altra conferenza. Dire di Pekić «era uno scrittore» mi sembrava banale. Ripensai al ricordo che Pekić serbava dello stesso Kiš: «Negli ultimi momenti della sua vita, quelli visibili per i viventi, un amico fedele chiese a Danilo se c’era qualche cosa che gli facesse male. Sì, aveva risposto l’autore di Clessidra. Che cosa? La vita, rispose Danilo».
La vita e le opere
Ad eccezione di due romanzi («Come placare il vampiro», De Martinis, Messina, 1992 e «Il tempo dei miracoli», Fanucci, Roma, 2004, entrambi tradotti da Alice Parmeggiani) per i lettori italiani la sua vasta opera narrativa, saggistica e teatrale è ancora sconosciuta. L’opera omnia di Pekić, in realtà, è un oceano. Da quest’oceano emergono migliaia di pagine inedite. Questo è il compito più importante della Fondazione voluta dallo scrittore verso la fine della sua vita. In questi due decenni il compito è stato portato avanti innanzitutto dalla moglie Ljiljana.
Pekić (Podgorica, 1930 – Londra, 1992), quando era studente di liceo a Belgrado, nel 1948, venne privato dei diritti civili e condannato a quindici anni di carcere e lavori forzati in quanto membro della vietata Lega della gioventù democratica. Trascorse la condanna, che più tardi venne commutata a cinque anni, nelle prigioni di Niš e Sremska Mitrovica. Dopo gli studi di psicologia sperimentale a Belgrado, dal 1959 lavorò per il cinema. Ottenne il primo successo con la sceneggiatura del film «Il quattordicesimo giorno» (regia di Zdravko Velimirović). Dalla pubblicazione del suo primo romanzo, «Il tempo dei miracoli» (1965), Pekić si dedicò solo alla prosa, al teatro e al cinema. Con il secondo romanzo, «Il pellegrinaggio di Arsenije Njegovan» (1970) ottenne il “Premio NIN” dell’omonima rivista belgradese, il cui elenco dei premiati contiene i nomi dei romanzieri più importanti della letteratura jugoslava del secondo Novecento. Nello stesso anno chiese alle autorità di poter raggiungere la moglie Ljiljana e la figlia Aleksandra a Londra. In un primo momento gli sequestrarono il passaporto ma, un anno più tardi, gli consentirono di emigrare.
Durante gli anni dell’esilio Pekić scrisse molto: «L’ascesa e la caduta di Icaro Gubelkian» (1975); «Come placare il vampiro» (romanzo-resoconto sui totalitarismi, pubblicato solo perché giunse a Belgrado come testo di partecipazione a un concorso anonimo del 1977 dedicato a Danilo Kiš); la saga «La difesa e gli ultimi giorni» (1977); «Il vello d’oro» (sette volumi, 1978-1986) fantasmagoria romanzesca che racconta le infinite traversie della famiglia Njegovan.
Negli anni ottanta scrisse i romanzi fantascientifici «L’Atlantide» e «1999», e il romanzo fantastico «Rabbia», che diventò un best seller. Compose inoltre testi radiofonici per emittenti tedesche, spesso adattati da testi teatrali. Nella Jugoslavia dell’epoca, già colpita dalla crisi, le sue «Lettere dall’estero» giungevano come la voce della ragione e «Gli anni divorati dalle cavallette», una prosa autobiografica, fece luce sui tempi bui del dopoguerra. L’interesse del pubblico verso la sua opera fu risvegliato dal film «Il tempo dei miracoli» (1989) basato sul suo omonimo romanzo (regia di Goran Paskaljević, con Miki Manojlović).
Al ritorno a Belgrado, nel 1990, fondò il Partito democratico e la rivista «Democrazia» con un gruppo di intellettuali indipendenti.
Pekić nei ricordi
Una volta lo scrittore raccontò che la ragione della sua fuga da Belgrado erano le «kafane», nelle quali «la letteratura serba si ubriaca e muore», e il fatto che sua moglie Ljiljana, architetto, a Londra poteva guadagnare per tutti e due. «Ljiljana accettò la mia proposta credendo in una mia missione, e questo ancor oggi mi sembra incredibile» disse lo scrittore in un’intervista. E quella «missione incredibile» di Ljiljana Pekić si è prolungata dopo la scomparsa del marito. Pekić letteralmente risorge in ogni nuova pagina da lei redatta o ascoltata (lo scrittore non si staccava mai dal suo registratore).
«A Pekić mancava sempre tempo» disse una volta Ljiljana. «Di solito scriveva al mattino, guardava poco la televisione, leggeva e lavorava sempre contemporaneamente su più tavoli. A Londra avevamo un grande giardino e lui, quando la scrittura non funzionava, se ne stava lì, toglieva le erbacce, curava i fiori, ma sempre con il registratore appeso al collo. Quando la fine di un libro era vicina, lavorava come un pazzo. Si alzava alle cinque del mattino e andava a letto a mezzanotte. Penso che sognasse interi racconti, interi drammi. Mentre stava scrivendo “Il vello d’oro”, la sua opera capitale, leggeva i libri più assurdi e noiosi, annotandosi in fretta e furia tutti i dati che gli servivano. Potete immaginarlo mentre trascrive la legge finanziaria serba del 1820?».
Lo scrittore Filip David, ricordando l’amico, scrisse: «Come redattore del programma di drammi televisivi della TV di Belgrado, negli anni settanta andavo spesso a Londra. Bora Pekić non mi permetteva di alloggiare in albergo. Così ero ospite della sua cara e generosa famiglia… Appena arrivato, raccontavo a Pekić della vita a Belgrado, specialmente dei nostri amici comuni Kiš, Mirko Kovač, Glavurtić… Lui, semplicemente, non sapeva scendere sotto un certo livello professionale, altissimo. Tutto ciò che faceva si trasformava in oro letterario».
Anni fa un noto editore americano chiese a Pekić un romanzo. Doveva trattarsi di una tematica allora di moda, la catastrofe. Pekić scelse di scrivere di un’ipotetica epidemia di rabbia che scoppiava nell’aeroporto londinese di Heathrow. Gli mancava però la topografia dettagliata della struttura aeroportuale. Così si recò molte volte in aeroporto: disegnava, annotava. Non passò inosservato alle guardie di sicurezza. Spiegare i motivi delle sue visite non era un’impresa facile, ma Pekić ci riuscì e gli agenti gli regalarono addirittura una mappa dettagliata dell’aeroporto. Lo scrittore era felice come un bambino.
Il romanzo «La rabbia» non è mai stato pubblicato in America. L’editore rifiutò l’opera, perché il numero di pagine oltrepassava quello previsto. Pekić non faceva concessioni a nessuno.
(*) Entrambi questi testi sono stati pubblicati sulla rivista on line «Zibaldone».
quel film di Goran Paskaljevic merita davvero:
http://markx7.blogspot.it/2012/06/vreme-cuda-il-tempo-dei-miracoli-goran.html
Wow! Che prosa! È come sono attuali le idee di questo scrittore. Non lo conoscevo. Mea culpa. Mi catapulto in biblioteca a cercare i suoi testi. Grazie D.D.D. (Daniele Devastante Divulgatore).