Palestina – Israele: quale solidarietà, quale avvenire?
Eyal Sivan è un documentarista israeliano che ormai da molto tempo vive e lavora in Francia. Molti dei suoi lavori (Itzkor, schiavi della memoria, 1990, Route 181, frammenti di un viaggio in Palestina-Israele – con Michel Kleifi – 2003, La Meccanica dell’Arancia, 2009) hanno segnato in modo importante la chiave interpretativa degli aspetti meno indagati e meno noti del cosiddetto conflitto israelo-palestinese che ha per conseguenza determinato la “questione palestinese”.
Dopo il 7 ottobre 2023 e l’aggressione genocidaria di Israele contro la Striscia di Gaza, fin da subito Eyal Sivan si è impegnato non solo nella solidarietà con i palestinesi, ma anche smascherando sistematicamente gli alibi che la propaganda israeliana – e suoi megafoni di quella occidentale – ha sparso a piene mani per negare il genocidio, di fatto addossandone la responsabilità alle vittime.
L’analisi senza sconti o scorciatoie della società israeliana che ci offre in questa conferenza è di fondamentale importanza perché anche il movimento internazionale a sostegno del popolo palestinese per un verso non smarrisca la strada e per un altro non cada vittima esso stesso di “vittorie” che invece tali non sono. Tenendo presente che l’arma più efficace nelle lotte anticoloniali è sempre la reazione delle società degli stessi Paesi colonialistici e in questo Israele non fa eccezione.

Quando mi hanno invitato a tenere questa conferenza il compito più difficile era trovare un titolo, perché, come per molti di voi immagino, è difficile parlare di fronte a questa ecatombe, questo orrore che stiamo vivendo. Soprattutto perché nulla cambia ed ogni giorno è peggio.
Quindi ho scelto un titolo che corrisponde a due domande che probabilmente ci poniamo spesso: qual è il futuro in tutto ciò che accade e cosa possiamo fare. Nasce da qui il titolo: quale futuro quale solidarietà per la Palestina,
Vi avviso in anticipo che non farò della geopolitica e grandi analisi dei rapporti di forza, ecc. Penso che di questi argomenti è meglio ne parlino altri più indicati a farlo; inoltre, penso che non serva a granché.
Poi non sono uno storico anche se sono stato invitato a tenere dei corsi in un dipartimento di storia presso il Centro europeo di studi sulla Palestina all’università di Exter e molti miei film trattano di questioni storiche.
Vorrei evitare di entrare nella questione, perché la ritengo un anacronismo, se quello che stiamo vedendo oggi è inscritto da qualche parte nel passato, ossia nelle origini, nel DNA, nell’ideologia.
Sono un documentarista, quindi ho a che fare con il reale, certo ci sono delle messe in scena, ma il materiale è la realtà.
Per rispondere alla prima questione: quale futuro, non è necessario essere un indovino per immaginarlo. Per questo vi invito a guardare non alla vittima, i palestinesi, ma ai carnefici, gli israeliani. Ossia alla società da cui provengo, quello Stato di cui ho il passaporto.
Quando penso alla società israeliana, mi chiedo cosa pensano, al di là della questione dell’orrore, i soldati.
Ma i soldati sono legati alla società da cui provengono e l’esercito israeliano non è a ferma volontaria, quindi è più un esercito che ha un popolo che un popolo che ha un esercito.
Salto direttamente alle conclusioni: non penso che ci sia nessuna possibilità di una opposizione e una rottura all’interno della società israeliana. Da qui arriviamo alla seconda parte: cosa possiamo fare? Tenendo presente che non c’è alcuna volontà, desiderio e speranza nella società israeliana che cambi qualcosa.
Voglio soffermarmi sull’idea del “qualcosa cambi” e torno al 6 ottobre 2023. Quel giorno se avessimo fatto una riunione come questa, ci saremmo ritrovati in venti: perché la questione della Palestina non esisteva più, nessuno se ne interessava o manifestava. Questa, dal punto di vista della società israeliana, era la pace. Un momento in cui era possibile fingere agevolmente che la questione palestinese non esisteva più, sono calmi, nel loro ghetto di Gaza, dietro il muro e i checkpoint in
Cisgiordania: non ci disturbano. E se ne parla dopo il 7 ottobre, questo è il terribile paradosso, non perché sono morti dei palestinesi ma degli israeliani. Partendo da questo si è ricominciato a parlare della questione palestinese.
Questo terribile paradosso ci interpella. Questa situazione che perdura da tempo è stata resa possibile perché è stata normalizzata dagli israeliani e dai loro amici e alleati. Si è quindi resa normale una situazione terrificante: occupazione accelerata, arresti arbitrari, uccisioni di persone, tortura, distruzione di infrastrutture, divieto di associazione e molto altro.
Gaza sotto blocco.
Il risveglio dopo il 7 ottobre perché sono morti degli israeliani mostra bene il loro valore mediatico, politico ed emotivo. Infatti, questi fanno i titoli, non i morti palestinesi.
Si sottolinea l’estrema violenza dell’attacco del 7 ottobre e quello che la simbolizza di più è ciò che è accaduto al festival organizzato a ridosso della barriera con Gaza. Coincidenza vuole che io abbia insegnato anni fa in un college israeliano, che si chiama Shapir, ad appena due chilometri da quella barriera e già all’epoca gli studenti, nel 2012 e nel 2013, facevano feste di quel genere e questo dimostrava il sentimento profondo di sicurezza e di pace degli israeliani. “Nulla ci può accadere”, anche se la musica della nostra festa arriva nelle case al di là della barriera Beit Hanun e altre città di Gaza, oggi tutte totalmente rase al suolo, che non esistono più sulla carta geografica.
Il 7 ottobre è stato prima di tutto, dopo le vittime, un attacco alla sicurezza israeliana, il ritorno dei profughi: arrivati dal nulla. Cosa è accaduto? Perché? Tutto andava bene…vivevamo bene, facevamo la festa, la borsa di Tel Aviv esplodeva… Oggi comprare una casa a Tel Aviv è più caro che a Parigi. Israele è un Paese carissimo. Secondo i sondaggi internazionali Israele è il terzo Paese dove la gente è più felice.
È stato chiesto, per un sondaggio agli israeliani come vedono il loro futuro economico, se peggiore, uguale o migliore e per la schiacciante maggioranza, il settanta per cento, la risposta è stata: migliore.
La società israeliana ha subito un colpo formidabile riguardo al suo senso di sicurezza; improvvisamente non si poteva più fingere che la questione palestinese non esistesse, malgrado quattro anni di manifestazioni gigantesche contro il governo Netanyahu ma non contro l’occupazione o la colonizzazione: contro la riforma giudiziaria in quanto attacco a quella che i manifestanti chiamavano “democrazia” …
Democrazia in un Paese nel quale il cinquanta per cento dei governati non godono di nessun diritto civile. Questo si chiama apartheid.
Tuttavia si lottava per la democrazia, certo quella che riguarda una parte della popolazione solo di poco maggioritaria che sono gli ebrei israeliani.
Questa è l’opposizione.
Per quattro anni si manifesta contro l’attacco alla democrazia, ma la questione palestinese non esisteva. Quindi si manifestava per preservare questo privilegio che è l’apartheid, una discriminazione legalizzata e praticata in quelli che vengono chiamati “territori occupati”.
Quindi è una situazione che ha l’aria del temporaneo in cui invece è stata creata una sequenza temporale definita “il provvisorio permanente”, cosa che permette da un lato di legittimare a priori e a posteriori di giustificare il fatto che “per il momento” (i palestinesi) non hanno diritti. Nonché giustifica il fatto che l’accaparramento di terre, la colonizzazione, la rapina, sono cose “provvisorie” …da sessant’anni. Quindi il provvisorio diventa perenne. Infatti, tra la proclamazione dello Stato di Israele, la Nakba, e la conquista dei Territori Occupati sono passati solo diciassette anni, durante i quali, fino al 1965/66, i palestinesi rimasti erano soggetti a un regime militare.
La pratica del regime militare imposto su una parte della popolazione del Paese e dei privilegi per l’altra, non è nata con l’occupazione del 1967, ma con la creazione stessa dello Stato, che la inscrive nella sua stessa definizione di Stato ebraico e democratico. Alcuni diranno che c’è autonomia tra “ebraico” e “democratico”. È come se dicessimo che uno Stato è “maschile” e “democratico” e legiferasse in quanto tale.
Questo è il paradosso israeliano: vivono in una democrazia esattamente come pensavano i sudafricani bianchi. Come una sorta di democrazia a due cerchi, che però non si incrociano. Questa è la differenza con la democrazia vera.
Di fronte a questa visione di se stessi, sistematicamente ribadita dai mass media, dalle leggi, ecc., la questione si riduce a come non vedere l’aberrazione della discriminazione, dell’apartheid…i palestinesi sono lo specchio di questo paradosso: è l’altro. Quindi si fa di tutto per non vederlo perché non rinvii l’immagine di ciò che io sono.
Tutto questo inizia, sicuramente nella fase che stiamo vivendo, paradossalmente con il cosiddetto processo di pace che porta all’inscrizione fisica della separazione tra due comunità presentata come un progresso.
La separazione che si materializza, per esempio, con il Muro che si vede solo da un lato, ossia dalla Cisgiordania, mentre dal lato israeliano lo stesso Muro non esiste perché nascosto da ornamenti floreali che lo nascondano complemente.
Questa è la situazione di questa società che improvvisamente riceve un colpo in faccia: questo è il 7 ottobre.
Poi c’è l’altra faccia del 7 ottobre: la terrificante sconfitta di quella che è considerata la quarta potenza militare a livello mondiale e la più forte della regione, capace di sapere cosa pensano i palestinesi prima che loro stessi lo pensino, che conosce dove si trova un qualunque dirigente (palestinese, NDT). Una società in cui i sistemi di allarme, di spionaggio con droni e alta tecnologia, che costano miliardi di dollari, sono stati polverizzati in una sequenza storica: la guerra trai mezzi senza tecnologia e l’high-tech. Ciò che ha salvato alcuni israeliani è che la serratura della loro porta chiudeva bene. Dall’altra parte si è potuto polverizzare il sistema di sorveglianza israeliana utilizzando i motori delle macchinine per bambini trasformandoli in piccole bombe…poi quarantott’ore di caos totale: non si riesce a mobilitare le unità militari che a volte non trovano le chiavi dei posti dove ci sono le armi, gli elicotteri che sparano su chiunque si muova. L’esercito israeliano: invincibile.
Certo, si può ironizzare, ma questa è una sconfitta fondamentale dell’idea stessa della costituzione (non in senso giuridico) di questo Stato.
Questa disfatta è quella del movimento che ha costruito questo Stato e di chi lo sostiene come risposta al genocidio ebraico in Europa, quello che alcuni chiamano Shoah (spiegherò dopo perché io non uso questo termine), che è stato possibile perché gli ebrei europei non avevano mezzi di autodifesa. Quindi bisognava dare loro questi mezzi, fondando uno Stato che avrà un esercito, quello degli ebrei, che sarà lo scudo per prevenire un altro giudeocidio.
Che il 7 ottobre rappresenti la sconfitta dello Stato e del movimento sionista che lo ha fondato ce lo hanno detto loro stessi e i loro amici fin dal giorno dopo parlando del 7 ottobre come del giorno più sanguinoso dopo la Shoah. Una specie di “mini Shoah”, ma questo gli si è rivoltato contro perché lo Stato ha perso legittimità o comunque agli occhi dei suoi cittadini lo Stato non può più difendere la sua stessa ragion d’essere. Il paradosso più straordinario è che il posto più pericoloso per gli ebrei in tutto il mondo è nello “Stato ebraico”. Questo ha innescato un sentimento di sfiducia terribile rispetto all’educazione che abbiamo ricevuto, anche perché nella storia di Israele non c’era stata mai una battaglia all’interno delle sue frontiere riconosciute dal diritto internazionale. In più, contro una popolazione e una resistenza armata su cui dall’inizio dell’occupazione sono state scritte pagine e pagine di definizioni spregiative: animali, bestiali, vermi, ecc. Contemporaneamente, questi riescono a sfidare l’esercito e attaccare la ragion d’essere stessa dello Stato.
Una parte della popolazione si fa presto i conti e dopo il 7 ottobre decine di migliaia di israeliani abbandonano il Paese, che non è poco su un totale di cinque milioni e mezzo di ebrei israeliani. L’altra forma di sfiducia è il rafforzamento della visione apocalittica molto presente nel discorso pubblico israeliano, innanzitutto con il mito di Masada la città assediata dove, durante l’occupazione dell’impero romano della Palestina, quando di fronte all’arrivo delle truppe si sceglie il suicidio collettivo. Lo slogan è: “Masada non cadrà una seconda volta”.
Il grande programma nucleare israeliano, costruito grazie alla Francia, si chiama “Opzione Sansone”, questo personaggio catturato dai filistei, ormai cieco e legato alle colonne del Tempio, decide, con le ultime forze, di far crollare il Tempio suicidandosi insieme ai filistei.
Quindi, nel discorso israeliano è inserita l’autodistruzione violenta, ossia una parte degli ebrei israeliani si rifugiano nella visione apocalittica. Si attacca l’Iran, lo Yemen, ecc., tutto il mondo è antisemita, non ci importa se siamo isolati…infatti la settimana scorsa il primo ministro ha detto: “saremo Sparta”. E lui sa di cosa parla e condanna Israele a trentatré anni di isolamento. Su questa scia c’è chi vede nel 7 ottobre un segno di redenzione come una estrema legittimazione dell’eliminazione fisica e totale del nemico. Questo argomento, peraltro, non è stato usato solo dai religiosi, ma da tutti i leader politici israeliani.
Questa tendenza è rappresentata nel governo, da Smotrich (ministro dell’economia) e Ben Gvir (ministro dell’interno), poi c’è anche il vicepresidente del parlamento e altri.
In mezzo c’è la società israeliana che vorrebbe che tutto questo finisse per non fare i riservisti all’infinito e inoltre si rischia di perdere gli ostaggi che è l’altra cosa che interessa.
Alla società israeliana non interessano le vittime, rispondendo in modo immediato a qualunque questione: “è Hamas che usa la popolazione come scudo”, “sono le organizzazioni internazionali che impediscono l’ingresso del cibo”, ecc. Tutti argomenti molto conosciuti perché ripetuti come un ritornello su tutti i mass media.
Tuttavia questa società ha un problema: non vuole essere riservista militare o collaborare con l’esercito…e questo è il problema di quella che viene chiamata l’opposizione israeliana. La quale malgrado rimproveri a Netanyahu il rifiuto delle proposte per la liberazione degli ostaggi, quando si tratta di assumere una posizione attiva, pur potendolo fare non lo fa.
Da qui nasce la domanda: cosa si può fare in queste condizioni?
L’unica via è spingere una parte della società israeliana a non avere scelta. Spingerla a fare delle azioni perché tutto questo finisca. Ossia: disobbedire, rifiutare, scioperare…qualunque cosa per fermare la guerra.
Fermare quello che anche loro chiamano genocidio.
La solidarietà non è solo quella con le vittime palestinesi, ma deve essere anche con tutti coloro che parlano in nome del diritto internazionale. La solidarietà è composta da diversi elementi, il primo dei quali, chiaramente, è il soccorso delle vittime – è importante – , ecc. , sono quindi importanti le pressioni delleorganizzazioni internazionali.
Un altro fattore è la consapevolezza che l’aspetto politico è riassunto da quello umanitario. Sapendo che gli israeliani hanno l’interesse a ridurre la questione palestinese a un caso umanitario. Per questo motivo affamare la popolazione non ha il solo scopo di farli morire (cosa che sarebbe anche poco efficace), ma soprattutto quello di cancellare la questione palestinese come problema politico.
La distruzione dei campi di rifugiati in Cisgiordania, sistematica dopo il 7 ottobre, spingendo gli abitanti verso le periferie delle città. Quindi i rifugiati da politico diventano un problema di quartieri di periferia.
Il terzo elemento è la parte maggioritaria della società israeliana che non si mobilita, anzi partecipa attivamente perché hanno dei privilegi da difendere.
Il più importante però sono le sanzioni internazionali che in definitiva sono uno strumento banale nelle relazioni internazionali. Ci sono circa trentasei Paesi sotto sanzioni o sotto embargo da parte dell’Unione Europea. Ma le sanzioni contro Israele che potrebbero andare dalle forniture di armi fino alla dipendenza economica (il settanta per cento delle esportazioni israeliane va in Europa, non in America), non vengono mai decise. Non le possiamo decidere né io né voi, ma si può chiederle.
Le sanzioni non sono una punizione, ma la difesa del diritto internazionale. Ossia: oggi c’è un Paese che più di ogni altro se ne frega del diritto internazionale e anzi da ordini agli altri e questo va contro i nostri interessi, al di là della questione palestinese. Perché se si dovesse prendere ad esempio il rapporto di Israele con il diritto internazionale, per esempio, si potrebbe di dire buttiamo a mare Taiwan perché Israele ha fatto altrettanto. Quindi, le sanzioni sono lo strumento per difendere l’ultimo strumento rimasto, ma se queste tardano ad arrivare è necessario scendere di livello.
Far sì che i cittadini stessi, la massa, mettano in pratica le sanzioni. Certo, non penso che tra voi ci sia qualcuno che compra dei droni dall’industria militare per controllare il proprio giardino…e se c’è invito a non farlo.
Ma Israele ha bisogno di esportare i propri avocado, ma noi possiamo non comprarli per il buon motivo che poi con quei soldi viene comunque finanziata la guerra. Questo vale per molti settori e l’effetto comincia a farsi sentire, ma bisogna rafforzare l’azione.
Più complicato è fare pressione su coloro che collaborano col genocidio. Ma tuttavia, Microsoft oggi impedisce di usare il cloud da parte dell’esercito israeliano, usato per immagazzinare ottomila megabyte di conversazioni telefoniche dei palestinesi della Cisgiordania e Gaza. Questo è successo grazie alle manifestazioni contro Microsoft e perché dei lavoratori si sono rifiutati di collaborare e ha perso contratti con piccole aziende che si sono rivolte ad altri, anche perché la rappresentante speciale dell’ONU per i Territori Occupati ha pubblicato una lista di grandi aziende che collaborano attivamente con il genocidio.
Ma c’è una questione più importante: la normalizzazione delle relazioni culturali, universitarie e sportive con una società che ne ha bisogno per rivendicarsi “normale” e allo stesso livello degli altri.
Il boicottaggio in questi settori è fondamentale perché tocca la classe più privilegiata degli israeliani, quelli che hanno più da perdere.
Ostracizzare gli israeliani, poiché è inutile attendersi che accada qualcosa all’interno, è necessaria una pressione esterna perché i cittadini ebrei israeliani facciano il collegamento diretto tra ciò che gli succede e non la politica del loro regime, ma delle loro azioni. Per questo è importante che i soldati israeliani sappiano di essere ricercati (per i crimini che commettono) da varie organizzazioni internazionali, quando vanno all’estero o che, per esempio, vengano annullati i concerti di cantanti israeliani nella regione e altrove. Perché questi artisti devono essere messi di fronte ad una scelta: non possono cantare per l’esercito e poi fare tournée come se niente fosse. Questo non può più essere normale.
Stessa cosa per il cinema e per il mondo universitario.
In questi ambienti ci sono persone formidabili, ma ai convegni non possono rappresentare le loro università, come nel caso del Technion di Haifa che ha sviluppato i droni da combattimento. Queste azioni sono efficaci quando diventano molte, perché l’idea di fondo è: noi agiamo perché i governi non lo fanno. E a coloro che obiettano su queste azioni, si risponderà che finché l’Unione Europea non sospenderà gli accordi con Israele, lo faremo noi con i nostri atti.
Perché se c’è un film che è bellissimo e molto critico sulla società israeliana, ma sono prodotti con denaro israeliano, va boicottato. E all’autore va posta una domanda: perché se sei un dissidente prendi i fondi dal ministero della cultura israeliano?
L’obiettivo è “de-normalizzare” Israele per smascherare l’aspetto forse più perverso della situazione che stiamo vivendo e che riguarda coloro che sono solidali con i palestinesi: il fatto che riconoscere il genocidio in corso sia un grande successo e per questo ci si consideri soddisfatti. Ciò comporta il pericolo che la lotta si fermi a questo.
Il riconoscimento del genocidio rischia di soppiantare la lotta contro questo.
C’è un altro esempio: il riconoscimento dello Stato palestinese. Ci sono organizzazioni che lo chiedono da anni, ma ora che questo passo è stato fatto, cosa faranno dopo?
Il fatto è che anche il riconoscimento della Palestina non ha cambiato nulla. Questo è il punto dell’articolazione della solidarietà, perché occorre fare attenzione a vincere sul terreno della retorica: l’obiettivo non è vincere su questo piano ma sui fatti concreti. Far cambiare strada alla società israeliana è più importante del riconoscimento dello Stato palestinese, perché è molto attenta a quello che fanno gli altri Paesi nei suoi confronti. Ovviamente gli israeliani urleranno contro il riconoscimento dello Stato di Palestina, infatti avete visto che per una settimana si è parlato del riconoscimento e non del genocidio a Gaza.
Riguardo al futuro si può prevedere un percorso apocalittico della società israeliana e non abbiamo ancora visto tutto. Il problema più grave non è il primo ministro che rappresenta l’interpretazione più autentica dei sentimenti di una gran parte della popolazione, anche di coloro che sono all’opposizione e lo detestano come persona e lo considerano molto corrotto, ma non si oppongono assolutamente alla sua politica verso i palestinesi, compresa quella che mira a rendere la Striscia di Gaza invivibile, e alla creazione di uno stato di guerra permanente in tutta la regione. Tutto questo Netanyahu lo ha promesso fin dagli anni ottanta nel suo libro contro il terrorismo in cui spiega che gli errori dello Stato di Israele, fin dalla sua fondazione, sono stati, primo credere di poter vivere in pace nella regione e, secondo, aver creato un esercito di difesa e non di attacco.
Netanyahu e tutta una tendenza che va dalle posizioni apocalittiche fino al centro sinistra, pensa che la pace non sia assolutamente possibile e che non sia negli interessi di Israele. Questo per delle ragioni puramente economiche, infatti quella israeliana è un’economia di guerra.
Non è un caso che la prima industria israeliana sia l’high-tech e rappresenta la privatizzazione di tutto un sistema che ha al centro l’esercito. Infatti ci sono due grandi unità che sono esclusivamente impegnate nella guerra cyber e fornisce l’ottanta per cento dell’industria dell’alta tecnologia. I territori Occupati sono un grande laboratorio della repressione, a questo è legata l’industria high-tech come la filiera universitaria dell’ambito scientifico-tecnologico.
In questo senso, lo stato di guerra permanente rende Israele un Paese interessante per l’industria militare statunitense e non solo, perché se è vero che vende molto compra anche molto.
Israele ha però l’ossessione dei palestinesi e finora a guardare alle reazioni quello che è stato fatto a Gaza va bene. Sono stati destabilizzati Egitto e Giordania e non ci sono state grandi reazioni, quindi si pensa ci si potrà sbarazzare dei palestinesi a danno di questi Paesi senza troppi problemi.
Non posso prevedere il futuro, ma ilmodo in cui agiscono i politici israeliani assomiglia a un sondaggio: si fa un azione, per esempio, si uccidono tremila bambini e non accade nulla, quindi si procede al passo successivo uccidendone diecimila; si bombarda ogni giorno il libano? Stessa cosa…
L’altra possibilità è che il movimento di solidarietà con i palestinesi riesca a isolare Israele in un modo tale da rendere necessaria un’azione da parte degli israeliani.
La terza possibilità, la più pericolosa, è appunto la normalizzazione di questa situazione che ha polverizzato il diritto internazionale e in cui qualunque istituzione internazionale è bloccata e non prende nessuna decisione. Tutto questo può portare allo sfinimento coloro che si mobilitano contro Israele e anche a un sempre minor interesse mediatico. In altri termini, un ritorno al 6 ottobre 2023.
In conclusione penso che oggi l’urgenza si ponga non sulla questione della pace, ma sul fermare il genocidio a Gaza, la pulizia etnica nel resto della Palestina e impedire la polverizzazione del diritto internazionale.
Perché la conseguenza pericolosa è continuare a considerare Israele un Paese democratico, malgrado le sue derive genocidarie. Se ciò avverrà, bisognerà pensare a come definire la democrazia e per questo motivo penso che tutti noi siamo in una bruttissima situazione.
Vedi: https://www.youtube.com/watch?v=oYFkxlu-tlQ
(*) articolo e traduzione curati da RProject
- La redazione di Rproject ringrazia Eyal Sivan per il consenso dato alla trascrizione, alla traduzione e all’adattamento per il pubblico italiano della conferenza del 25 settembre 2025, svoltasi a Aix en Provence, organizzata dal collettivo Pace e Giustizia in Medio Oriente, insieme alla Ligue fes Droits de l’Homme, sezione Pays en Provence e BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) Provence.

- LE IMMAGINI SONO SCELTE DALLA REDAZIONE DELLA “BOTTEGA”: ALCUNE LE ABBIAMO RUBATE AL BRAVISSIMO MAURO BIANI; RICORDIAMO ANCHE LIBRI RECENTI CHE CI SONO APPARSI PARTICOLARMENTE IMPORTANTI.

Il Premio Sumud al regista palestinese Ezzaldeen Shalh, fondatore del Gaza International Festival for Women’s Cinema
Il riconoscimento conferito al Festival dei Popoli a Firenze (*)

Fondato nel 2025 da Ezzaldeen Shalh, in pieno assedio e distruzione a Gaza, il Gaza International Festival for Women’s Cinema rappresenta un atto di coraggio collettivo, uno spazio in cui le registe palestinesi trovano ascolto, protezione e possibilità di espressione.
Ezzaldeen Shalh, oltre a essere un regista e studioso, è una figura centrale nella promozione del cinema palestinese, con un lavoro che attraversa narrazione, memoria e formazione. La sua filmografia comprende opere di finzione e documentari come The Dry Spring, The Other World e Love and Bread.
Il Premio Sumud è frutto di un impegno collettivo. Nato all’interno di iniziative come il Global Movement to Palestine e Global Movement to Palestine, è sostenuto da una vasta rete internazionale – tra cui AAMOD, insieme a 100autori, AFIC, Spazio Libero, Casa Internazionale delle Donne, Women’s International Democratic Federation e molte altre realtà culturali, italiane e internazionali – che condividono la convinzione che il cinema possa essere uno strumento di solidarietà attiva.
“Sumud”, parola araba che significa “resilienza”, è oggi un modo per esprimere vicinanza concreta al popolo palestinese attraverso l’arte, la voce delle donne, la forza delle immagini.
PALESTINA – Prosegue l’aggressione israeliana prosegue. Nella Cisgiordania Occupata, ad al-Judaira, a nord-ovest di Gerusalemme, due sedicenni sono stati uccisi nei pressi del muro di separazione israeliano dove, in teoria, governa l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, che oggi si trova in visita in Italia, con incontri programmati con il presidente Mattarella e la premier Meloni.
A Gaza City un bambino palestinese è rimasto gravemente ferito in un attacco di droni. Nel frattempo, sono in corso negoziati per consentire a circa 150 combattenti di Hamas, rimasti intrappolati nei tunnel nel sud di Gaza dietro la cosiddetta “linea gialla”, di ottenere il rilascio. I mediatori egiziani avrebbero proposto che, in cambio di un passaggio sicuro, i miliziani consegnino le armi all’Egitto e forniscano informazioni sulla rete dei tunnel, così da permetterne la distruzione. Israele e Hamas non hanno ancora espresso ufficialmente la loro posizione sulla proposta.
BRESCIA – Si torna in piazza per la Palestina questo fine settimana a Brescia, la città da cui trasmette la nostra e vostra emittente, con un corteo che farà un percorso inusuale – legato al motivo centrale della manifestazione.