Le vite dei palestinesi contano

articoli, video, poesie di Massimo Mazzucco, Gerald Kaufman, Gideon Levy, Robert Inlakesh, Sharmine Narwani, Mahmud Darwish, Noam Livne, Francesco Masala, Corey Gil-Shuster, Claribel Alegría, Moreno Biagioni, Jonathan Pollak, Libby Lenkinski, Giuseppe Aragno, Chris Hedges, Valeria Parrella, Giacomo Gabellini, Andrea Zhok, Alberto Negri, Gilbert Achcar, Enrico Semprini

Sterminare tutte le “bestie” – Chris Hedges

Tutti i progetti coloniali, incluso Israele, raggiungono un punto in cui abbracciano il massacro e il Genocidio su larga scala per sradicare una popolazione nativa che rifiuta di capitolare.

Durante l’assedio di Sarajevo, quando ero corrispondente per il New York Times, non abbiamo mai sperimentato il livello di bombardamenti a tappeto e il blocco quasi totale di cibo, acqua, carburante e medicine che Israele ha imposto a Gaza. Non abbiamo mai visto centinaia di morti e feriti al giorno. Non abbiamo mai neanche immaginato la complicità della comunità internazionale nella campagna di Genocidio serba. Non abbiamo mai assistito all’intervento di Washington per bloccare le risoluzioni del cessate il fuoco e a massicce spedizioni di armi dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali per sostenere l’assedio. Non abbiamo mai visto i resoconti della stampa provenienti da Sarajevo venire regolarmente screditati e respinti dalla comunità internazionale, nonostante 25 giornalisti fossero stati uccisi durante la guerra dalle forze assedianti serbe. Non abbiamo mai sentito che i governi occidentali giustificassero l’assedio come diritto dei serbi a difendersi, anche se le forze di pace delle Nazioni Unite inviate in Bosnia erano in gran parte un gesto dimostrativo, inefficace nel fermare il massacro finché non furono costretti a rispondere in seguito al massacro di 8.000 uomini e ragazzi bosniaci a Srebrenica.

Non intendo minimizzare l’orrore dell’assedio di Sarajevo, che mi fa venire gli incubi quasi trent’anni dopo. Ma ciò di cui siamo stati testimoni: da tre a quattrocento bombe al giorno, da quattro a cinque morti al giorno e due dozzine di feriti al giorno, è una piccola frazione della morte e della distruzione di Gaza. L’assedio israeliano di Gaza somiglia più all’assalto della Wehrmacht a Stalingrado, dove fu distrutto oltre il 90% degli edifici della città, che a Sarajevo.

Venerdì la Striscia di Gaza ha avuto tutte le sue comunicazioni interrotte. Senza internet. Nessun servizio telefonico. Niente elettricità. L’obiettivo di Israele è l’assassinio di decine, probabilmente centinaia di migliaia di palestinesi e la Pulizia Etnica di coloro che sopravvivono nei campi profughi in Egitto. È un tentativo da parte di Israele di cancellare non solo un popolo, ma l’idea di Palestina. È una replica delle massicce campagne di massacro razzializzato da parte di altri progetti coloniali di coloni che credevano che la violenza indiscriminata e totale potesse far svanire le aspirazioni di un popolo oppresso, di cui avevano rubato la terra. E come altri autori di Genocidio, Israele intende tenerlo nascosto.

La campagna di bombardamenti di Israele, una delle più pesanti del 21° secolo, ha ucciso più di 7.300 palestinesi, quasi la metà dei quali bambini, insieme a 26 giornalisti, operatori sanitari, insegnanti e personale delle Nazioni Unite. Circa 1,4 milioni di palestinesi a Gaza sono sfollati e circa 600.000 sono senzatetto. Moschee, 120 strutture sanitarie, ambulanze, scuole, condomini, supermercati, impianti di trattamento dell’acqua e delle acque reflue e centrali elettriche sono stati ridotti in macerie. Ospedali e cliniche, privi di carburante, medicine ed elettricità, sono stati bombardati o stanno chiudendo. L’acqua potabile sta finendo. Gaza, alla fine della campagna di terra bruciata israeliana, sarà inabitabile, una tattica che i nazisti impiegavano regolarmente quando affrontavano la Resistenza armata, anche nel ghetto di Varsavia e poi nella stessa Varsavia. Quando Israele avrà finito, Gaza, o almeno Gaza come la conoscevamo, non esisterà più.

Non solo le tattiche sono le stesse, ma lo è anche la retorica. I palestinesi vengono definiti animali, bestie e nazisti. Non hanno il diritto di esistere. I loro figli non hanno il diritto di vivere. Devono essere cancellati dalla terra.

Lo sterminio di coloro a cui rubiamo la terra, di cui saccheggiamo le risorse e di cui sfruttiamo il lavoro è codificato nel nostro DNA. Chiedetelo ai nativi americani. Chiedetelo agli indiani. Chiedetelo ai congolesi. Chiedetelo ai Kikuyu in Kenya. Chiedetelo agli Herero della Namibia, 80.000 che, come i palestinesi di Gaza, furono uccisi a colpi di arma da fuoco e portati nei campi di concentramento nel deserto dove morirono di fame e malattie. Chiedetelo agli iracheni. Chiedetelo agli afghani. Chiedetelo ai siriani. Chiedetelo ai curdi. Chiedetelo ai libici. Chiedetelo alle popolazioni indigene di tutto il mondo. Sanno chi siamo.

Il volto distorto e coloniale di Israele è il nostro. Fingiamo il contrario. Ci attribuiamo virtù e qualità civilizzatrici che sono, come in Israele, deboli giustificazioni per privare un popolo occupato e assediato dei suoi diritti, impossessarsi della sua terra e ricorrendo alla prigionia prolungata, alla tortura, all’umiliazione, alla povertà forzata e all’omicidio per tenerlo sottomesso.

Il nostro passato, compreso il nostro recente passato in Medio Oriente, è costruito sull’idea di sottomettere o cancellare le razze “inferiori” della terra. Diamo a queste razze “inferiori” nomi che incarnano il male. ISIS. Al Qaeda. Hezbollah. Hamas. Usiamo insulti razzisti per disumanizzarli. “Haji” “Sporchi Arabi” “Cammellieri” “Ali Baba” “Spalaletame” E poi, poiché incarnano il male, poiché sono meno che umani, ci sentiamo autorizzati, come ha detto Nissim Vaturi, membro del Parlamento israeliano per il Partito al governo Likud, per cancellare “la Striscia di Gaza dalla faccia della terra”.

Naftali Bennett, ex Primo Ministro di Israele, in un’intervista su Sky News il 12 ottobre ha dichiarato: “Stiamo combattendo i nazisti”, in altre parole, il male assoluto.

Per non essere da meno, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha descritto Hamas in una conferenza stampa con il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz, come “i nuovi nazisti”.

Pensate a un popolo, imprigionato per sedici anni nel più grande campo di concentramento del mondo, privo di cibo, acqua, carburante e medicine, privo di esercito, aeronautica, marina, unità meccanizzate, artiglieria, comando e controllo e batterie di missili, viene massacrato e affamato da uno degli eserciti più avanzati del pianeta, e sono loro i nazisti?

C’è un’analogia storica. Ma non è una situazione che Bennett, Netanyahu o qualsiasi altro leader israeliano vogliono riconoscere.

Quando coloro che sono occupati rifiutano di sottomettersi, quando continuano a resistere, abbandoniamo ogni finzione della nostra missione “civilizzatrice” e scateniamo, come a Gaza, un’orda di massacri e distruzione. Ci ubriachiamo di violenza. Questa violenza ci rende pazzi. Uccidiamo con ferocia sfrenata. Diventiamo le bestie di cui accusiamo gli oppressi di essere. Smascheriamo la menzogna della nostra decantata superiorità morale. Esponiamo la verità fondamentale sulla civiltà occidentale: siamo gli assassini più spietati ed efficienti del pianeta. Solo per questo dominiamo i “dannati della terra”. Non ha nulla a che vedere con la democrazia o la libertà. Sono diritti che non intendiamo assolutamente concedere agli oppressi.

“L’onore, la giustizia, la compassione e la libertà sono idee che non hanno convertiti”, ci ricorda Joseph Conrad, che ha scritto “Cuore di Tenebra”. “Ci sono solo persone, senza sapere, senza capire, senza sentimenti, che si ubriacano di parole, le ripetono, le gridano, immaginando di crederci senza credere ad altro che al profitto, al vantaggio personale e alla propria soddisfazione”.

Il Genocidio è al centro dell’imperialismo occidentale. Non è un fenomeno esclusivo di Israele. Non è una caratteristica esclusiva dei nazisti. È l’elemento costitutivo della dominazione occidentale. Gli interventisti umanitari che insistono sul fatto che dovremmo bombardare e occupare altre nazioni perché incarnano la bontà, sebbene promuovano l’intervento militare solo quando è percepito come nel nostro interesse nazionale, sono utili idioti della macchina da guerra e degli imperialisti globali. Vivono in un mondo illusorio dove i fiumi di sangue che generiamo rendono il mondo un posto migliore e più felice. Sono le faccine sorridenti del Genocidio. Potete guardarle sui vostri schermi. Potete ascoltarli declamare la loro pseudo-moralità alla Casa Bianca e al Congresso. Sono sempre in errore. E non se ne vanno mai.

Forse ci lasciamo ingannare dalle nostre stesse bugie, ma la maggior parte del mondo vede noi, e Israele, chiaramente. Comprendono le nostre inclinazioni genocide, la nostra totale ipocrisia e autocompiacimento. Vedono che i palestinesi, in gran parte senza alleati, senza potere, costretti a vivere in squallidi campi profughi o nella diaspora, espropriati della loro Patria ed eternamente perseguitati, soffrono il tipo di destino un tempo riservato agli ebrei. Questa forse è la tragica ironia finale. Coloro che una volta avevano bisogno di protezione dal Genocidio, ora lo commettono.

(Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org)

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Pax americana – Francesco Masala

Dice Putin che “la Pax americana è una cosa del passato”.

La Brown University, non a Pechino o Mosca, ma negli Usa (https://watson.brown.edu/costsofwar/), tra le altre cose, ci informa che dopo l’11 settembre 2001 sono morte nelle guerre almeno 4,5 milioni di persone (esclusi i morti in Ucraina), con 38 milioni di rifugiati di guerra (escluse Ucraina e Palestina), e che gli Usa sono intervenuti militarmente in 85 paesi (non sapevamo quanti paesi confinassero con gli Usa!).

Intanto abbiamo paura a chiamare quello che avviene a Gaza e in Cisgiordania genocidio, pulizia etnica, massacro, puoi sentir dire dalla stampa che muoiono tanti palestinesi, ma non che migliaia di bambini, donne e uomini vengono bombardati e uccisi senza pietà dagli israeliani, muoiono, semplicemente, il caso, il destino, si trovavano nel posto sbagliato il giorno sbagliato.

Il governo israeliano vuole battere il record di 13mila ebrei massacrati durante la rivolta del Ghetto di Varsavia, ci riusciranno se si impegnano, ce la stanno mettendo tutta.

Il pubblico delle cancellerie non si costerna, non s’indigna, non s’impegna, non vota per il cessate il fuoco all’ONU, hanno già troppo da fare a distruggere le condizioni di vita dei loro cittadini/sudditi, non possono impegnarsi anche a pensare al bene degli altri.

Quei 38 milioni di rifugiati di guerra (più ucraini e palestinesi), dice la canzone, verranno ancora alle nostre porte e grideranno ancora più forte, per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti, per quanto noi ci crediamo assolti siamo per sempre coinvolti.

La prossima partita sarà Occidente contro Resto del Mondo.

 

 

Ci stiamo abituando – Massimo Mazzucco

Lentamente, ci stiamo abituando. Bomba dopo bomba, cadavere dopo cadavere, giorno dopo giorno, lentamente stiamo accettando l’idea che Israele possa portare avanti impunemente il suo sporco lavoro di pulizia etnica in Palestina. E lo stanno facendo sotto gli occhi di tutti, in modo plateale, alternando ogni bombardamento vigliacco dal cielo ad un grido scandalizzato di “avete visto cosa ci hanno fatto il 7 di ottobre!”

Nei nostri salotti televisivi, sistematicamente, i pochi che si battono ancora per conservare un senso di giustizia vengono sopraffatti dai servi di regime che urlano – anche loro fintamente – allo scandalo del 7 ottobre.

Nessuno riesce a vedere al di là di quella data. Esattamente come è successo per l’Ucraina, dove tutto era sembrato iniziare dal nulla il 24 febbraio 2022, oggi in Palestina tutto sembra essere iniziato il 7 di ottobre. Prima non c’era nulla. Prima c’erano due popoli che convivevano pacificamente l’uno accanto all’altro, felici e sereni, e di colpo uno di loro si è svegliato e ha deciso di fare un massacro.

Ormai la storia dei bambini bruciati vivi e decapitati, delle donne stuprate ed uccise ha preso il sopravvento sulla realtà storica. E non appena una Carmen Lasorella prova a dire (Rete 4, poche sere fa) che non esistono conferme oggettive di queste atrocità, viene subito zittita da un Molinari (direttore di Repubblica) che la redarguisce come una scolaretta, e le impone pubblicamente di scusarsi. Lo stesso Molinari, naturalmente, che si dimentica di dissociarsi quando un ex-ambasciatore di Israele dichiara pubblicamente che “bisogna radere al suolo Gaza con tutti i suoi abitanti”.

Il doppio standard morale dell’occidente è qualcosa di disgustoso. E noi, impotenti, osserviamo tutto questo senza poter fare nulla. Osserviamo i nostri governanti che, vigliaccamente, si astengono dal votare una risoluzione che chiede la sospensione dei bombardamenti, attaccandosi a ridicoli cavilli verbali.

Una volta ancora, la prepotenza sta vincendo sul senso di umanità, l’ingordigia sta prevalendo sulla pietà, l’arroganza sta avendo il sopravvento su qualunque criterio di giustizia.

E tutto questo, non dimentichiamolo, viene fatto in nome della “difesa della democrazia”.

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Discorso al parlamento inglese di Gerald Kaufman, nel 2009

Sono stato educato come un ebreo ortodosso e un sionista. Su uno scaffale della nostra cucina c’era una scatola di latta per il Fondo Nazionale Ebraico, in cui mettevamo le monete per aiutare i pionieri a costruire una presenza ebraica in Palestina. Sono andato per la prima volta in Israele nel 1961 e ci sono stato più volte di quante ne possa contare. Avevo la famiglia in Israele e ho amici in Israele. Uno di loro ha combattuto nelle guerre del 1956, 1967 e 1973 ed è stato ferito in due di esse. Il fermacravatta che indosso è ricavato da una decorazione della campagna elettorale che gli è stata assegnata, e che mi ha regalato. Ho conosciuto la maggior parte dei primi ministri di Israele, a cominciare dal primo ministro fondatore David Ben-Gurion. Golda Meir era mia amica, così come Yigal Allon, vice primo ministro, che, come generale, vinse il Negev per Israele nella guerra d’indipendenza del 1948.

I miei genitori arrivarono in Gran Bretagna come profughi dalla Polonia. La maggior parte delle loro famiglie furono successivamente uccise dai nazisti durante l’Olocausto. Mia nonna era a letto malata quando i nazisti arrivarono nella sua città natale, Staszow. Un soldato tedesco le sparò uccidendola nel suo letto. Mia nonna non è morta per fornire copertura ai soldati israeliani che uccidevano le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta spietatamente e cinicamente il continuo senso di colpa tra i gentili per il massacro degli ebrei nell’Olocausto come giustificazione per l’uccisione dei palestinesi. L’implicazione è che le vite degli ebrei sono preziose, ma le vite dei palestinesi non contano. Qualche giorno fa, su Sky News, alla portavoce dell’esercito israeliano, il maggiore Leibovich, è stato chiesto dell’uccisione israeliana di 800 palestinesi – il totale è ora di 1.000. Ha risposto immediatamente che 500 di loro erano militanti.

Il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni afferma che il suo governo non avrà alcun rapporto con Hamas, perché sono terroristi. Il padre di Tzipi Livnis era Eitan Livni, direttore delle operazioni del terrorista Irgun Zvai Leumi, che organizzò l’esplosione dell’hotel King David a Gerusalemme, in cui furono uccise 91 vittime, tra cui quattro ebrei. Israele è nato dal terrorismo ebraico. I terroristi ebrei impiccarono due sergenti britannici e catturarono i loro cadaveri. L’Irgun, insieme alla banda terrorista Stern, massacrò 254 palestinesi nel 1948 nel villaggio di Deir Yassin. Oggi, l’attuale governo israeliano indica che sarebbe disposto, in circostanze per lui accettabili, a negoziare con il Presidente palestinese Abu Mazen di Fatah. E’ troppo tardi per questo. Avrebbero potuto negoziare con il precedente leader di Fatah, Yasser Arafat, che era un mio amico. Invece, lo hanno assediato in un bunker a Ramallah, dove sono andato a trovarlo. A causa dei fallimenti di Fatah dopo la morte di Arafat, Hamas ha vinto le elezioni palestinesi nel 2006. Hamas è un’organizzazione profondamente cattiva, ma è stata eletta democraticamente, ed è l’unico gioco in città. Il boicottaggio di Hamas, anche da parte del nostro governo, è stato un errore colpevole, da cui sono derivate conseguenze terribili. Il grande ministro degli Esteri israeliano Abba Eban, con il quale ho fatto campagna per la pace su molte piattaforme, ha detto: “Si fa la pace parlando con i nemici”.

Per quanti palestinesi gli israeliani uccidano a Gaza, non possono risolvere questo problema esistenziale con mezzi militari. Quando e comunque i combattimenti finiranno, ci saranno ancora 1,5 milioni di palestinesi a Gaza e altri 2,5 milioni in Cisgiordania. Sono trattati come sporcizia dagli israeliani, con centinaia di blocchi stradali e con gli orribili abitanti degli insediamenti ebraici illegali che li molestano. Verrà il tempo, non molto lontano, in cui saranno più numerosi della popolazione ebraica in Israele. E’ tempo che il nostro governo chiarisca al governo israeliano che la sua condotta e le sue politiche sono inaccettabili e imponga un divieto totale delle armi a Israele. E’ tempo di pace, ma di pace vera, non della soluzione per conquista che è il vero obiettivo degli israeliani, ma che è impossibile per loro raggiungere. Non sono semplicemente criminali di guerra; Sono sciocchi.

 

 

 

Dovremmo onorare la Striscia di Gaza – Gideon Levy

Se non fosse per la striscia di Gaza, l’occupazione sarebbe stata da tempo dimenticata. Se non fosse stato per la Striscia di Gaza Israele avrebbe cancellato il problema palestinese dalla sua agenda e avrebbe continuato a organizzare  i suoi crimini e le sue annessioni, con la sua routine, come se 4 milioni di persone non vivessero sotto il suo tallone.

Se non fosse per la Striscia di Gaza, anche il mondo avrebbe dimenticato. La maggior parte lo ha già fatto. Ecco perché ora dobbiamo salutare la Striscia di Gaza, in particolare lo spirito della Striscia di Gaza, l’unico sopravvissuto nella causa disperata e persa della lotta palestinese per la libertà.

La lotta risoluta della Striscia di Gaza dovrebbe suscitare ammirazione anche in Israele. Le poche  persone informate dovrebbero ringraziare lo spirito ininterrotto della Striscia di Gaza, quello della Cisgiordania si è accartocciato dopo il fallimento della seconda intifada, così come quello dei mediatori di pace israeliani, la maggior parte dei quali sono andati in frantumi molto tempo fa. Solo lo spirito della Striscia di Gaza è risoluto nella sua lotta.

E così, chiunque non voglia vivere per sempre in un paese malvagio deve rispettare i giovani della Striscia di Gaza che stanno ancora cercando di lottare. Se non fosse per gli aquiloni, gli incendi, i razzi Qassam, i palestinesi sarebbero stati completamente estinti con consapevolezza di tutti in Israele. L’interesse sarebbe stato solo per  la Coppa del Mondo e l’Eurovision Song Contest.

Se non fosse per i campi incendiati nel sud ci sarebbe solo un’enorme bandiera bianca alzata non solo sulla Striscia di Gaza, ma su tutto il popolo palestinese. Chi vuole giustizia, anche in Israele, non può aspettare questo tipo di resa.

È difficile, persino insolente, scrivere queste parole nella città tranquilla e sicura di Tel Aviv, dopo un’altra notte insonne e da incubo nel sud,  a causa della politica disumana di Israele supportata dalla maggior parte dei suoi cittadini, compresi quelli che vivono nel sud.

Loro non dovrebbero sostenerne il prezzo, ma ogni lotta richiede vittime innocenti, contro la loro volontà.

Sabato, la 139ª vittima del fuoco israeliano lungo il confine è morta. Aveva 20 anni. Venerdì era stato ucciso un ragazzo di 15 anni. La Striscia di Gaza sta pagando interamente il prezzo col sangue. Questo non la fa desistere. Questo è il suo spirito. Non si può non ammirare.

Lo spirito della Striscia di Gaza non è interrotto da nessun assedio. I demoni di Gerusalemme hanno chiuso il passaggio al confine di Kerem Shalom e Gaza ha sparato. La malvagità nel complesso governativo Kirya a Tel Aviv impedisce ai giovani di ricevere cure mediche in Cisgiordania per salvare le loro gambe dall’amputazione.

Per anni hanno impedito ai pazienti oncologici, tra cui donne e bambini, di ricevere trattamenti salvavita. Lo scorso anno sono state accolte solo il 54% delle richieste di lasciare la Striscia di Gaza per ragioni mediche, rispetto al 93% del 2012. Questo è malvagio. Bisognerebbe leggere la lettera scritta a giugno da  31 oncologi israeliani  che chiedono  la cessazione degli abusi sulle donne di  Gaza malate di cancro i cui permessi per uscire da Gaza richiedono mesi per essere esaminati, decidendo così il loro destino.

I 31 razzi lanciati  dalla Striscia di Gaza venerdì sera verso Israele sono una risposta moderata a questa malvagità. Non sono altro che un tenue promemoria del destino della Striscia di Gaza, indirizzato alle persone che pensano che 2 milioni di persone possano essere trattate in questo modo da oltre 10 anni mentre tutto continua come se nulla stesse accadendo…

La Striscia di Gaza non ha scelta. Neanche Hamas. Ogni tentativo di incolpare l’organizzazione – che desidero solo fosse più laica, più femminista e più democratica – è un’evasione di responsabilità. Non è stato Hamas ad assediare la Striscia di Gaza. Né gli abitanti della Striscia di Gaza si sono rinchiusi.

Israele (e l’Egitto) l’hanno fatto. Ogni esitante tentativo di Hamas di fare qualche progresso con Israele riceve automaticamente il rifiuto israeliano.

Né  il mondo è disposto a parlare, chissà perché.

Tutto ciò  è affidato agli aquiloni, e potrebbe portare a nuovi bombardamenti senza pietà  da parte di Israele, che ovviamente Israele non vuole. Ma quale scelta ha la Striscia di Gaza? Una bandiera bianca di resa sui suoi confini, come i palestinesi della Cisgiordania? Un sogno di un’isola verde al largo delle coste del Mediterraneo, dove il ministro israeliano Yisrael Katz costruirà per loro?

La lotta è l’unica strada che rimane, un percorso che dovrebbe essere rispettato, anche se sei un israeliano e potresti essere la sua vittima.

(Trad. Invictapalestina.org)

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Pensare a Gaza, l’indicibile deserto delle loro vite – Valeria Parrella

Penso sempre a Gaza. Sì è vero mi alzo, esco, faccio le mie cose e penso sempre a Gaza.

Più cose faccio più penso a Gaza. Se apro il rubinetto penso a Gaza che non ha acqua, se mio figlio ha la febbre penso a Gaza che non ha medicinali, se viene una scossa di bradisismo penso che a Gaza esplodono bombe.

Quando ad Adania Shibli fu sottratto il premio letterario che le era stato assegnato a Francoforte mi chiesero di scriverne, io dissi no, che non lo sapevo fare. E sono contenta, perché Giuliana Sgrena ne scrisse benissimo. È che non avevo le parole e neppure adesso le ho, se non che: penso a Gaza.

Sono andata via una decina di giorni dal mio social, x, perché cinquecento palestinesi erano morti in ospedale, e io ho scritto solo «L’ospedale» e sotto hanno iniziato tutti a dire è stato Hamas è stato Netanyahu e io pensavo solo a Gaza, in termini troppo elementari per dire qualcosa di sensato, come sto facendo ora.

Quello che sapevo di certo è che volevo rispettare il lutto.

Quando muoiono le persone si fa silenzio, dopo si capiranno le colpe, dopo ci sarà o meno giustizia ma intanto, intanto bisogna piangere. Ora sono passati dieci giorni in cui ho solo controllato che ogni giorno fosse vivo un giovane insegnante palestinese che sta lì, a Gaza, mi bastava leggere I’m still alive, e spegnevo.

Sono andata in spiaggia, qui difronte c’è la spiaggia de La dismissione di Ermanno Rea, che è stato il mio maestro, ma più in senso politico che in senso letterario, o tutt’e due, perché io non mi fido di quelli che si chiamano fuori. Abbiamo parlato di due cose a mia memoria: dei detenuti e di Gaza.

E sulla spiaggia c’era un medico che conosco: quest’estate era triste e io gli avevo detto che la vita è insensata e di non perdere tempo a cercarle un senso. Quando l’ho reincontrato allora finalmente ho parlato, gli ho detto: «Penso sempre a Gaza. Ogni cosa che faccio mi serve per distrarmi eppure non serve perché io lo so che lì dietro c’è Gaza».

Mi ha risposto che anche il mio dolore sembra in fondo una ricerca di senso, un senso universale palingenetico e quindi che lui avrebbe potuto dirmi uguale: questo senso non c’è. «Prova a scriverne magari ti aiuta a trovare la lucidità».

E no, non voglio trovarla la lucidità. Perché devo costringermi al rigore? È l’unica posizione da tenere mentre si compie il genocidio dei palestinesi? Mentre fanno deserto delle loro vite, della loro esistenza, assediati come nelle alte mura di Ilio? No, io voglio piangere, piangere è il gesto. E lo so che ma allora anche, lo so che non è la prima volta né l’unico popolo, lo so. Ma a volte, a volte, a volte non si può che pensare sempre a Gaza come si pensa a Amleto, così: terrorizzati e impotenti.

Quando è morta mia madre nessuno mi ha chiesto lucidità, nessuno mi ha concesso o negato un senso. Io sto così, come quei giorni, che facevo cose e guardavo la gente al semaforo e pensavo: loro non lo sanno che io sto pensando a mamma. Non lo sanno che sto pensando a Gaza.

Pensare a Gaza vuol dire pensare a quelle scene tante volte viste dei militari israeliani che salivano per le scale dei palazzi e scacciavano i palestinesi dalle case, pensare a quegli israeliani di sinistra che per settimane hanno sfilato in piazza contro Netanyahu e a quel rave, ai terroristi senza politica e ai politici senza politica, alla violenza.

Significa pensare agli ostaggi israeliani e ciò che soffrono loro e le loro famiglie e sapere che tra di loro c’è chi pensa anche a Gaza.

Significa ricordare quel professore di storia e filosofia che diceva: l’olocausto è da pag. x a pagina y, ma vi prego studiatevelo voi perché io non ce la faccio. Ecco, lui aveva perduto la lucidità e il ruolo, non poteva spiegare: come si spiega l’inspiegabile?

Io così sento per la Palestina. Sto sempre là in mezzo a quei bambini, ad aspettare di sapere se quel giovane insegnante che non conosco è still alive. Cosa cambia? Tutto. Finché Amleto è vivo la vita va avanti. La vita è così, non si conta sui pallottolieri, i morti non si sottraggono e le vendette sono pretesti, e la parola pace ha quattro lettere, due sillabe.

Quale è la posizione dello scrittore davanti al genocidio dei palestinesi, nelle ore in cui non hanno neppure più internet affinché non si veda, affinché si scopra più tardi possibile quel deserto che sarà da domani un luogo un tempo abitato da gente viva: qual è la posizione dello scrittore? Credo che sia in ginocchio da qualche parte.

Domani mi diranno cosa c’è da spiegare gli interessi, Biden, il patto atlantico, le multinazionali, i sionisti, lo sappiamo da sempre, le bandiere, la piazza, i kibbutz.

Ma per me non è così, non ora. Ora c’è solo una porta là giù, e di qua ci siamo noi, e di lì c’è l’indicibile, che è l’unico limite di chi scrive, mica la pagina bianca: l’indicibile.

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Israele-Palestina: c’era una volta l’America – Alberto Negri

Fu George Bush senior a imporre a Yitzhak Shamir, premier ultra-conservatore del Likud, la conferenza di pace di Madrid, minacciando di tagliare gli aiuti economici se Israele non avesse sospeso la costruzione di colonie nei Territori occupati: “per ogni mattone posato, un dollaro in meno”. C’era una volta l’America.

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COSA È ACCADUTO REALMENTE IL 7 OTTOBRE?Robert Inlakesh e Sharmine Narwani

Stanno emergendo prove che più della metà degli israeliani uccisi erano combattenti; che le forze israeliane sono state responsabili della morte di alcuni dei loro stessi civili; e che Tel Aviv ha diffuso false storie sulle “atrocità di Hamas” per giustificare il suo devastante attacco aereo contro i civili palestinesi a Gaza.

 

Due settimane dopo l’assalto di Hamas contro Israele il 7 ottobre, un quadro più chiaro di ciò che è accaduto, chi è morto e chi ha ucciso, sta ora cominciando a emergere.

Invece del massacro di civili su vasta scala rivendicato da Israele, i dati parziali pubblicati dal quotidiano ebraico Haaretz mostrano che quasi la metà degli israeliani uccisi quel giorno erano in realtà combattenti: soldati o poliziotti.

Nel frattempo, due settimane di generalizzate notizie da parte dei media occidentali secondo cui Hamas avrebbe ucciso circa 1.400 civili israeliani durante il suo attacco militare del 7 ottobre sono servite ad infiammare gli animi e a creare il clima per la distruzione incontrollata della Striscia di Gaza e della sua popolazione civile da parte di Israele.

I resoconti del bilancio delle vittime israeliane sono stati filtrati e distorti per suggerire che quel giorno si sia verificato un massacro di civili su larga scala, con neonati, bambini e donne come i principali obiettivi di un attacco terroristico.

Ora, le statistiche dettagliate sulle vittime pubblicate dal quotidiano israeliano Haaretz dipingono un quadro completamente diverso. A partire dal 23 ottobre, il quotidiano ha rilasciato informazioni su 683 israeliani uccisi durante l’attacco guidato da Hamas, compresi i loro nomi e i luoghi della loro morte il 7 ottobre.

Di queste, 331 vittime, ovvero il 48,4%, sono state confermate essere soldati e agenti di polizia, molti dei quali donne. Altri 13 sono descritti come membri del servizio di soccorso, e i restanti 339 sono apparentemente considerati civili.

Sebbene questo elenco non sia completo e rappresenti solo circa la metà del bilancio delle vittime dichiarato da Israele, quasi la metà delle persone uccise nello scontro sono chiaramente identificate come combattenti israeliani.

Inoltre, finora non sono stati registrati decessi di bambini di età inferiore ai tre anni, il che mette in discussione la narrativa israeliana secondo cui i bambini erano presi di mira dai combattenti della Resistenza Palestinese. Delle 683 vittime totali segnalate finora, sette erano di età compresa tra 4 e 7 anni e nove di età compresa tra 10 e 17 anni. Le restanti 667 vittime sembrano essere adulti.

Il numero e la percentuale di civili e bambini palestinesi tra quelli uccisi dai bombardamenti israeliani nelle ultime due settimane, oltre 5.791 morti, inclusi 2.360 bambini e 1.292 donne, e più di 18.000 feriti, sono di gran lunga superiori a qualsiasi di queste cifre israeliane emerse dagli eventi del 7 ottobre.

ANALIZZARE DI NUOVO GLI EVENTI

L’audace Operazione militare guidata da Hamas, nome in codice Onda di Al-Aqsa, si è svolta con un drammatico attacco all’alba intorno alle 6:30 (ora della Palestina) del 7 ottobre. L’attacco è stato accompagnato da un frastuono di sirene che hanno rotto il silenzio della Gerusalemme Occupata, segnalando l’inizio di quello che è diventato un evento straordinario nei 75 anni di storia dello Stato di Occupazione.

Secondo il portavoce dell’ala armata di Hamas, le Brigate Al-Qassam, circa 1.500 combattenti palestinesi hanno attraversato la formidabile barriera di separazione Gaza-Israele.

Tuttavia, questa irruzione non si è limitata alle sole forze di Hamas; numerosi combattenti armati appartenenti ad altre fazioni come la Jihad Islamica Palestinese (PIJ) hanno successivamente violato la linea dell’armistizio, insieme ad alcuni palestinesi non affiliati ad alcuna milizia organizzata.

Quando è diventato evidente che non si trattava di una normale Operazione di Resistenza, centinaia di video hanno rapidamente inondato i social media, raffiguranti truppe e coloni israeliani morti, feroci scontri a fuoco tra varie parti e israeliani catturati e portati a Gaza.

Questi video sono stati girati con i telefoni israeliani o diffusi da combattenti palestinesi che filmavano la loro stessa Operazione. Fu solo qualche ora dopo che iniziarono ad emergere le accuse più raccapriccianti e decisamente dubbie.

ACCUSE INFONDATE DI “ATROCITÀ DI HAMAS”…

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Tanto quanto – Giuseppe Aragno

Per chi non l’avesse ancora capito, l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, non ha lasciato spazio ai dubbi: l’obiettivo che si propone Israele, l’alleato al quale il governo Meloni assicura sostegno pieno e incondizionato, è agghiacciante. Il diplomatico israeliano l’ha spiegato al “Fatto Quotidiano” con l’aria di chi pronuncia una sentenza:
Dopo il 7 ottobre, ogni persona nel mondo che minaccerà un ebreo, che vuole uccidere un ebreo, deve morire. Per noi, lo scopo è distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto“.
Dico ciò che penso e pazienza per le reazioni dei censori: più tempo passa, più mi convinco che questi rappresentati d’Israele sono barbari e feroci.
Più dei nazisti? domandano immediatamente i servi sciocchi.
La domanda è strumentale e soprattutto sbagliata. Serve a difendere l’indifendibile, facendosi scudo di un’idea “metafisica” del concetto di “male” – il “male assoluto” – e a trasformare Satana, figlio di una fantasia religiosa, in una realtà laica e concreta.
Il male è parte dell’uomo e non esiste una sua dimensione disumana o addirittura sovrumana. Esiste un limite oltre il quale la fisiologia diventa patologia. Oltre quel limite è inutile discutere del più e del meno e rifugiarsi nella metafisica dell’assoluto. La misura esatta esiste ed è espressa dal tanto quanto. Se ci tiriamo fuori dalle astrazioni metafisiche, non c’è nulla di scandaloso nella constatazione di un dato di fatto: Israele oggi fa tanto male, quanto ne fecero i nazisti: tutto il male possibile.

da qui

 

 

La cosa bella di Gaza… – Mahmud Darwish

Dedichiamo questa poesia di Mahmud Darwish, il grande poeta palestinese (non credente), a quanti si domandano perché mai Gaza è presa di mira da Israele con tanta sadica ferocia, e soprattutto a quanti parlano della popolazione di Gaza e dei suoi resistenti con supponenza, senza saperne assolutamente nulla. (Red. pungolorosso)

La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono,

niente la distoglie.

Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico.

Né il modo di spartire le poltrone nel Consiglio nazionale, né la forma di governo

palestinese che fonderemo nella parte est della Luna o nella parte ovest di Marte,

quando sarà completamente esplorato.

Niente la distoglie.

È dedita al dissenso: fame e dissenso, sete e dissenso, diaspora e dissenso,

tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso.

I nemici possono avere la meglio su Gaza. (Il mare grosso può avere la meglio

su una piccola isola).

Possono tagliarle tutti gli alberi.

Possono spezzarle le ossa.

Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.

Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.

Ma lei:

non ripeterà le bugie.

Non dirà sì agli invasori.

Continuerà a farsi esplodere.

Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.

Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.

[1973]

da qui

 

SVELATO IL PIANO DELLA NUOVA NAKBA – Gilbert Achcar

Rivelato il piano per completare la Nakba

Un documento trapelato nei giorni scorsi ha confermato pienamente ciò che abbiamo detto fin dal 7 ottobre e cioè che la destra sionista coglierà l’opportunità dell’operazione “Diluvio di Al-Aqsa” per cercare di realizzare il suo vecchio sogno di espellere la maggior parte dei palestinesi dai territori occupati nel 1967, in modo da completare la Nakba del 1948 e realizzare il loro progetto del “Grande Israele”. Sabato scorso (28/10), il sito web dell’opposizione israeliana “Mecomit” (Local Call) ha pubblicato un importante documento diffuso dal Ministero dell’Intelligence sionista, guidato da Gila Gamliel, membro di spicco del partito Likud guidato da Benjamin Netanyahu. L’autenticità del documento è stata successivamente confermata lunedì (30/10) da alcuni media israeliani, tra cui Haaretz , ed è stato tradotto in inglese dal sito +972, critico nei confronti di Israele.

Il documento, datato 13 ottobre, è intitolato “Opzioni per una politica riguardante la popolazione civile di Gaza”. Le tre opzioni previste sono:

(a) i residenti di Gaza rimangono nella Striscia e sono governati dall’Autorità Palestinese;

(b) La popolazione di Gaza rimane nella Striscia e lì viene stabilita un’autorità araba locale;

(c) La popolazione civile viene evacuata da Gaza nel Sinai.

Il documento ritiene che le opzioni (a) e (b) soffrano di carenze significative, soprattutto perché nessuna delle due può fornire un sufficiente “effetto deterrente” a lungo termine. Per quanto riguarda l’opzione (c), il documento afferma che “produrrà risultati strategici positivi a lungo termine per Israele” ed è “realizzabile”. “Ciò richiede determinazione da parte dei livelli politici di fronte alle pressioni internazionali, con particolare attenzione allo sfruttamento del sostegno degli Stati Uniti e di altri paesi filo-israeliani per l’impresa”.

Il documento prosegue poi descrivendo dettagliatamente ciascuna delle tre opzioni. Ci limiteremo qui alla terza opzione favorita dal Ministero, ovvero l’opzione di espellere la popolazione civile da Gaza. Il documento descrive lo scenario come segue:

“1. A causa dei combattimenti contro Hamas è necessario evacuare la popolazione non combattente dalla zona delle battaglie;

  1. Israele dovrebbe agire per espellere la popolazione civile nel Sinai;
  2. Nella prima fase verranno create tendopoli nell’area del Sinai, la fase successiva prevede la creazione di una zona umanitaria per assistere la popolazione civile di Gaza e la costruzione di città in un’area reinsediata nel nord del Sinai;
  3. Dovrebbe essere creata una zona cuscinetto di diversi chilometri all’interno dell’Egitto e non dovrebbe essere consentito il ritorno della popolazione ad attività/residenze vicino al confine con Israele. Inoltre, dovrebbe essere stabilito un perimetro di sicurezza nel nostro territorio vicino al confine con l’Egitto”.

Il documento poi descrive dettagliatamente lo scenario del’espulsione, che inizia con la richiesta di evacuazione dei non combattenti dalla zona di combattimento e attacchi aerei mirati sul nord di Gaza per favorire un’invasione di terra. In una seconda fase, l’invasione inizierà da nord e lungo il confine fino all’occupazione dell’intera Striscia di Gaza e all’eliminazione dei tunnel di Hamas. Durante tutto questo tempo, “è importante lasciare aperte vie verso sud per consentire l’evacuazione della popolazione civile verso Rafah”. Il documento afferma che questa opzione salverebbe vite civili rispetto alle altre due opzioni e che rientra in un contesto globale di allontanamenti su larga scala come in Siria, Afghanistan e Ucraina. Ritiene che sia dovere dell’Egitto, secondo il diritto internazionale, aprire la strada al passaggio della popolazione civile e che il Cairo, in cambio della sua cooperazione, riceverà assistenza finanziaria per alleviare l’attuale crisi economica.

È interessante notare che il documento del Ministero dell’Intelligence sionista è stato diffuso nel momento in cui Israele ha iniziato a invitare i residenti del nord di Gaza a immigrare a sud del fiume Wadi Gaza il 13 ottobre, una conferma che questo appello era conforme all’opzione (C). Di fatto, tutto ciò che Israele ha fatto finora è del tutto coerente con il piano per il ripetersi della Nakba a Gaza, come descritto nel documento.

Il Financial Times ha pubblicato lunedì (30/10) un resoconto dei suoi corrispondenti nelle capitali europee secondo cui Netanyahu avrebbe cercato di persuadere i governi europei a fare pressione sul Cairo per convincere l’Egitto ad accogliere i profughi provenienti da Gaza. Parigi, Berlino e Londra hanno espresso la convinzione che questa richiesta non sia realistica, ma hanno comunque iniziato a fare pressione sul Cairo affinché aprisse le porte all’Egitto, adducendo considerazioni umanitarie. Dal resoconto emerge che in alcuni ambienti europei vi è la convinzione che l’entità degli sfollati verso il confine egiziano, in aumento con il progredire delle operazioni militari di terra, esacerberebbe la concentrazione di persone al confine a un punto tale che, in concomitanza con la pressione occidentale, potrebbe costringere l’Egitto a cambiare posizione. I pianificatori dell’espulsione devono anche certamente sperare che la folla di profughi al confine meridionale di Gaza riesca a irrompere nel territorio egiziano per sfuggire ai bombardamenti e all’avanzata militare di Israele, imponendosi così alle autorità egiziane che non saranno in grado di sparare sui civili di Gaza.

Nel frattempo, i coloni in Cisgiordania, da parte loro, hanno iniziato a cogliere l’opportunità del “Diluvio di Al-Aqsa” per aumentare la pressione sui palestinesi che vivono nell’Area “C” (che comprende la maggior parte delle terre della Cisgiordania – più del 60%) invitandoli a emigrare non nella zona controllata dall’“Autorità Palestinese” ma in Giordania!

Ciò indica chiaramente l’intenzione della destra sionista di portare a termine la Nakba anche in tutta la Cisgiordania, non appena se ne presenterà l’occasione.

Tradotto dall’originale arabo pubblicato su Al-Quds al-Arabi il 31 ottobre 2023. Sentitevi liberi di ripubblicare o pubblicare in altre lingue, citando la fonte.

Tratto da: www.gilbert-achcar.net/

da qui

 

Noam Livne, refusenik israeliano: storia di una ribellione

Riproponiamo l’analisi lucida e appassionata, ancora oggi di grande attualità, fatta il 18 ottobre 2008 dal refusenik (obiettore di coscienza israeliano) Noam Livne al Forum Umanista Europeo di Milano, durante la tavola rotonda “Una soluzione nonviolenta per il conflitto Israele-Palestina”.

Buon giorno a tutti.

Mi chiamo Noam Livne e sono nato in un kibbutz in Israele.  Sono sempre stato quello che in Israele si definisce “uno di sinistra”, ma data la storia particolare del mio Paese, là si è formata un tipo particolare di sinistra, un tentativo di combinare umanesimo e nazionalismo. Mi sono sempre opposto agli insediamenti nei territori occupati, ho sempre pensato che si dovesse costituire uno Stato palestinese accanto a quello israeliano e ho creduto profondamente nel fatto che tutte le persone nascono uguali e meritano uguali diritti.

Però mi sono anche formato nell’adorazione dell’esercito. In Israele l’esercito è la marca più popolare, viene iniettato nel sangue dal giorno della nascita. Fin da piccolo sai che da grande dovrai fare tre anni di servizio militare e dovunque tu vada vedi gente giovane in uniforme. Ci sono libri per bambini sull’esercito e al liceo si fa una settimana di addestramento in una base militare. Usano l’esercito per fare la pubblicità ai formaggi e ai telefoni cellulari. Quand’ero adolescente nel kibbutz, sapevo in quale unità prestava servizio militare ognuno e in quali unità mi sarebbe piaciuto stare. Più avanti spiegherò i motivi di questo fenomeno.

Durante il servizio militare sono diventato ufficiale e ho dovuto fare un anno in più; in questo periodo ho trascorso alcuni mesi nei territori occupati (TO). Questo era in contrasto con le mie convinzioni, ma alcuni motivi mi hanno permesso di accettarlo.

  1. Era il periodo dei colloqui di pace a Oslo; sembrava che il conflitto fosse quasi terminato e che bastasse solo “lasciare tranquille le cose” per arrivare alla soluzione definitiva.
  2. In questo contesto, a livello locale le mie missioni non mi sembravano immorali: dovevo accompagnare i bambini a scuola, oppormi ai tentativi palestinese di attaccare i coloni ecc.
  3. Facevo parte di un grande “branco” di uomini. Ci vogliono molta forza e molto coraggio per mettersi contro il branco. E’ più facile affrontare le pallottole nemiche che rivoltarsi contro il proprio ambiente sociale.

Una volta lasciato l’esercito, ho viaggiato per un po’ per il mondo. Al mio ritorno mi sono a messo a leggere molto su quello che succedeva nei TO e quando avevo appena finito di leggere “La storia” di Elsa Morante, otto anni fa, mi hanno chiamato come soldato della riserva a prestare servizio militare nei territori occupati. Ero più vecchio e più saggio e i negoziati di pace di Camp David erano appena falliti.  Questa volta non mi facevo illusioni. Credevo che la presenza dell’esercito nei TO non c’entrasse nulla con la sicurezza di Israele e che l’occupazione non avesse alcuna giustificazione. Di fatto l’unica ragione per mantenere l’esercito nei TO erano gli insediamenti dei coloni, a cui sono profondamente contrario.

Anche così, rifiutarmi di servire nei TO è stata una decisione difficilissima, la più difficile che abbia mai preso.  Probabilmente nessuno che non sia vissuto là può capirlo fino in fondo: stavo andando contro tutta la mia educazione, mi stavo togliendo dalla società, mettendomi “contro” di essa. Era come affermare implicitamente che tutti gli altri si sbagliavano, sapendo che mi avrebbero chiamato “traditore, vigliacco ed egoista”. Una volta compresa la scelta morale che avevo davanti, però, non ho più potuto mentire a me stesso. Avrei potuto scegliere una via d’uscita facile: alcuni vanno dallo psichiatra e si comportano da pazzi, altri si comprano un biglietto per l’estero per il periodo di servizio militare; io invece ho deciso di proclamare pubblicamente il mio rifiuto. Sapevo che mi avrebbero messo in prigione e proprio questa era la mia intenzione. Volevo poter dire agli altri che non avevo scelto la via d’uscita più facile, che la mia non era una scelta di convenienza, ma una scelta morale e sfidare così i miei oppositori.

Così mi sono rifiutato di obbedire. Ho informato i miei superiori che ero disposto a svolgere qualsiasi compito difensivo, ma che i miei piedi non avrebbero attraversato la linea verde e io non avrei preso parte in nessun modo all’occupazione. Naturalmente loro non hanno accettato questa posizione e io sono finito in prigione. Poi insieme ad altri obiettori ho fondato il gruppo “Coraggio di rifiutare” e siamo diventati degli attivisti per la pace molto entusiasti. Il nostro principale obiettivo era la fine dell’occupazione; abbiamo organizzato decine di manifestazioni e iniziative, con forti messaggi contro l’occupazione e ottenuto un grande spazio nei mass media.

Il mio rifiuto, insieme all’attivismo, ha avviato un processo lungo e profondo, in cui ho riconsiderato tutto quello che mi era stato insegnato nella vita. Una volta che cominci a scollegarti dal lavaggio del cervello e dall’indottrinamento che hai assorbito, non riesci più a fermarti. Ho impiegato molto tempo per sentire lo stesso dolore davanti a un morto palestinese, rispetto a quando si parla di un morto israeliano. Oggi sono maggiormente in grado di osservare la realtà senza i preconcetti generati dalla mia nazionalità formale, dalla mia storia personale e dall’indottrinamento israeliano. Ritengo che la mia capacità di osservare il conflitto tra Israele e i palestinesi sia molto maggiore. Ecco quello che vedo:

  • Quando i negoziati di Camp David sono falliti, la gente si è chiesta che cosa era andato storto, ma il problema non erano i dettagli, bensì qualcosa di molto più profondo. A Camp David non si è raggiunto un accordo di pace perché i due popoli non erano e ancora non sono in una situazione che permetta di mettersi d’accordo per trovare una soluzione. Non possono “incontrarsi a metà strada”. Un leader può arrivare fino a un certo limite, sentendosi appoggiato dalla sua gente, ma non può superarlo, perché altrimenti perderebbe l’appoggio. Così che i due leader non hanno potuto “incontrarsi a metà strada.”
  • Pertanto oggi, come attivista, non credo nel tentativo di influenzare le decisioni dei leader, ma di cercare di influenzare le percezioni della gente. Di conseguenza la mia prospettiva non è di giorni, ma piuttosto di decenni.
  • Credo che oggi i due popoli siano molto lontani dal poter porre fine al conflitto. Entrambe le parti sono dominate da concezioni sbagliate.Elencherò qui quelle che a mio parere sono le principali:

I palestinesi:

  • Gli unici ebrei che i palestinesi conoscono sono soldati e coloni, pertanto la maggioranza non riesce a considerare Israele se non come un Paese oppressore. Non credono che Israele possa esistere in pace accanto a loro, senza tentare di conquistarli e opprimerli. Di conseguenza alcuni di loro si oppongono alla sua esistenza. In realtà negli ultimi vent’anni in Israele si è formata una chiara maggioranza a favore del ritiro dai TO.
  • Un’altra conseguenza è che la maggioranza dei palestinesi non riesce a capire veramente le principali preoccupazioni degli israeliani, la più importante delle quali è il bisogno di sicurezza (più avanti spiegherò meglio questo punto).
  • E soprattutto, visto che nel corso degli anni Israele ha dimostrato di comprendere solo la forza, molti palestinesi pensano che l’unico modo di ottenere la libertà sia attraverso la forza. Per quanto sia triste dirlo, potrebbe anche essere vero, ma il problema è che i palestinesi attaccano gli israeliani anche all’interno della linea verde. Questo convince molti israeliani che non ci si può fidare dei palestinesi; li spinge a non appoggiare il ritiro dai territori occupati e a credere che la sicurezza si ottiene solo con l’uso della forza. Per esempio il bombardamento di Sderot, oltre ad essere immorale, è anche controproducente.

Gli israeliani:

  • Dato che la storia israeliana è dominata dalla Shoah (Olocausto), non riescono a capire che ciò che è successo ai palestinesi nel 1948 (la Nakba) è stato un disastro terribile. La Shoah è stata certamente un disastro più grande, uno dei peggiori della storia, ma i palestinesi non ne sono responsabili. Da questo punto di vista, non hanno fatto niente per meritarsi la Nakba del 1948. Siccome gli israeliani non riescono a vedere questo, non possono nemmeno comprendere le principali preoccupazioni dei palestinesi, come per esempio:
  • Che il “problema dei profughi” non è solo una carta da giocare nei negoziati, ma un problema reale, che coinvolge milioni di persone e si è creato per il modo in cui è nato lo Stato di Israele. I palestinesi non accetteranno mai una soluzione che non tenga conto di questo tema.
  • Anche se Israele si ritirerà da tutti i territori occupati nel 1967, dal punto di vista palestinese loro hanno perso comunque il 78% della Palestina storica.
  • Siccome gli israeliani non comprendono veramente questi temi, pensano che le richieste palestinesi siano irragionevoli.
  • Inoltre i preconcetti comuni nei Paesi colonialisti impediscono agli israeliani una visione obiettiva della realtà. Per esempio, gli israeliani definiscono Gillad Shalit un ostaggio, mentre i giovani palestinesi portati via di casa in mezzo alla notte e tenuti in prigione senza processo vengono chiamati prigionieri.
  • Israele si percepisce come più forte dei palestinesi e si aspetta che questa asimmetria si rifletta in qualsiasi risoluzione. Certo, dal punto di vista militare Israele è senz’altro più forte, ma la forza non si misura solo con il parametro del potere militare. Personalmente, penso che quando si considerano tutti questi parametri, Israele non è il più forte e comunque l’occupazione deve finire perché è immorale e per nessun’altra ragione.  La sensazione di forza degli israeliani e di debolezza dei palestinesi costituiscono un grosso ostacolo per la pace.

E dunque che cosa si può fare?…

continua qui

 

 

Le verità su Gaza che Israele non vuole vedere – Gideon Levy

L’intervista allo psicologo israeliano Mohammed Mansour è uno dei documenti più sconvolgenti, spaventosi e deprimenti che siano stati recentemente pubblicati da Haaretz.

Se Israele fosse una società con un’etica, e non nazionalista e vittima di un lavaggio del cervello, starebbe tremando fino alle sue fondamenta. Le parole di Mansour avrebbero dovuto essere l’argomento del giorno, la bufera del giorno. Una catastrofe umanitaria si sta svolgendo ad appena un’ora da noi. Un disastro umanitario: un orrore le cui responsabilità ricadono in buona parte su Israele, un paese che invece è tutto occupato dalle accuse di violenza sessuale nei confronti del capo di un gruppo editoriale televisivo, Alex Gilady.

Mansour è tornato da una visita alla Striscia di Gaza, dove era andato come volontario per la sezione israeliana dell’associazione Physicians for human rights(Medici per i diritti umani). Mansour è un esperto nella cura dei traumi, e nessuno poteva rimanere insensibile davanti alle osservazioni sulle sue ultime due visite. Sinistra o destra, non importa, chiunque dotato di un briciolo d’umanità sarebbe scioccato.

Bambini senza riparo
Più di un terzo dei bambini che ha incontrato nel campo profughi di Jabalya ha dichiarato di aver subìto abusi sessuali. I loro genitori, alle prese con una guerra per la sopravvivenza e a loro volta vittime di depressione, non sono in grado di proteggerli. A Gaza è impossibile allontanare i bambini e i loro genitori dalle origini del loro trauma perché quest’ultimo non ha avuto fine e non finirà. Adulti e bambini vivono un dolore terribile. Nessuno è mentalmente sano a Gaza. Caos, è questa la parola.

Mansour descrive una distopia, una società che sta andando a rotoli. Distruzione. Gli abitanti di Gaza hanno dimostrato una resistenza, una forza d’animo e una solidarietà straordinarie all’interno delle loro famiglie, dei loro villaggi, quartieri e campi profughi, dopo tutte le disgrazie subite. Oggi però rifugiati, figli di rifugiati, nipoti di rifugiati e bisnipoti di rifugiati stanno crollando.

Mansour ha raccontato di una lotta per la sopravvivenza senza quartiere, nella quale il ricorso agli antidolorifici diventa l’ultima spiaggia. Non è rimasto niente della Gaza che conoscevamo. Niente ci ricorda oggi la Gaza che amavamo. “Sarà difficile ripristinare l’umanità di Gaza. Gaza è l’inferno”, dice Mansour.

I resoconti di Mansour, per quanto duri, non dovrebbero sorprendere nessuno. Tutto va avanti secondo il copione, quello del più grande esperimento mai condotto su degli esseri umani. È questo l’unico risultato possibile quando s’imprigionano due milioni di persone in un’enorme gabbia per oltre dieci anni, senza nessuna possibilità di uscita e senza speranza. Il blocco della Striscia di Gaza è il peggior crimine di guerra che Israele abbia mai commesso. È una seconda naqba, perfino più raccapricciante della precedente.

Coscienze messe a tacere
Stavolta Israele non ha la scusa della guerra e dell’espansione degli arabi. Anche l’eccesso di giustificazioni relative alla sicurezza non convince più nessuno, se si escludono gli israeliani che si scagliano contro Gaza. Sono loro gli unici a non aver alcun problema per il fatto che esista una gabbia per esseri umani al confine con il loro paese. Solo loro riescono a formulare migliaia di scuse e accuse contro il mondo intero, alcune delle quali false, come il fatto che Hamas sia arrivato al potere ricorrendo alla violenza. O che il lancio di razzi Qassam sia cominciato dopo il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005. Tutto va bene pur di far tacere le coscienze, peraltro già silenziose: in fondo, stiamo parlando di arabi.

Stiamo parlando di Gaza. Stiamo parlando di esseri umani. Decine di migliaia di bambini e neonati privati del presente e del futuro. Sacrifici di esseri umani, il cui destino non interessa a nessuno.

Nelle pause tra un feroce attacco israeliano e l’altro, tra le rovine create da Israele senza motivo e che non sono state ricostruite, Gaza è in condizioni peggiori perfino delle più cupe previsioni. Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme: entro il 2020 la Striscia di Gaza potrebbe diventare “inabitabile”. Oggi, nel 2017, è già un inferno.

È più di un decennio che Israele non permette l’ingresso di alcun giornalista nella Striscia di Gaza, al fine di evitare agli israeliani il leggero fastidio che potrebbe provocargli la vista di quei luoghi. I volontari di Physicians for human rights, tutti arabi, sono gli unici israeliani che riescono a entrare a Gaza. Il racconto di Mansour sembra uscito da un ghetto. La Striscia di Gaza può essere paragonata a un ghetto. Anche se ci costa farlo, è nostro dovere paragonarli. Gaza è un ghetto, e il mondo tace.

(Traduzione di Federico Ferrone)

da qui

 

 

Il genocidio incrementale di Israele nel ghetto di Gaza – Ilan Pappe

In un articolo del settembre 2006 per Electronic Intifada, ho definito la politica israeliana verso la Striscia di Gaza un ‘genocidio incrementale’. L’attuale assalto di Israele a Gaza purtroppo indica che questa politica non accenna a diminuire.

Il termine è importante perché localizza in modo appropriato l’azione barbara di Israele – allora e adesso – in un contesto storico più ampio. Si deve insistere su questo contesto, dal momento che la macchina della propaganda israeliana tenta ancora e ancora di narrare le sue politiche come fuori contesto e trasforma ogni pretesto che trova in ogni nuova ondata di distruzione nella principale giustificazione per un altro massacro indiscriminato nei campi di sterminio della Palestina.

Il contesto

La strategia sionista di brandire le sue politiche brutali come risposta ad hoc per questa o quella azione palestinese è vecchia come la presenza sionista stessa in Palestina. E ‘stata utilizzata più volte come giustificazione per l’attuazione della visione sionista di una futura Palestina che ha in sé molto pochi, se non nessun, dei nativi palestinesi.

I mezzi per raggiungere questo obiettivo sono cambiati con gli anni, ma la formula è rimasta la stessa: qualunque sia la visione sionista di uno Stato ebraico, può materializzarsi solo senza un numero significativo di palestinesi in esso. E oggi la visione è di un Israele che si estende su quasi tutta la Palestina storica in cui milioni di palestinesi vivono ancora.

L’onda genocida presente ha, come tutte le precedenti, anche uno sfondo più immediato. E’ nata dal tentativo di sventare la decisione palestinese di formare un governo di unità nazionale cui neanche gli Stati Uniti potevano opporsi.

Il crollo della disperata iniziativa di “pace” del Segretario di Stato americano John Kerry ha legittimato l’appello palestinese alle organizzazioni internazionali per fermare l’occupazione. Al tempo stesso, i palestinesi hanno guadagnato un’ampia benedizione internazionale per il tentativo prudente rappresentato dal governo di unità nazionale di organizzare ancora una volta una politica coordinata tra i vari gruppi palestinesi e tra le varie agende.

Fin dal giugno del 1967, Israele ha cercato un modo per mantenere i territori occupati quell’anno senza incorporare la loro popolazione palestinese indigena nella sua cittadinanza fatta di diritti-cuscinetto. Per tutto il tempo ha partecipato alla farsa di un “processo di pace” per coprire o guadagnare tempo per le sue politiche di colonizzazione unilaterale sul terreno.

Con i decenni, Israele ha differenziato tra le aree che intendeva controllare direttamente e quelle che avrebbe gestito indirettamente, con l’obiettivo a lungo termine del ridimensionamento della popolazione palestinese al minimo con, tra gli altri mezzi, pulizia etnica e strangolamento economico e geografico.

La posizione geopolitica della Cisgiordania crea l’impressione in Israele – almeno – che sia possibile raggiungere questo obiettivo senza anticipare una terza rivolta o troppa condanna internazionale.

La Striscia di Gaza, per la sua unica posizione geopolitica, non si presta così facilmente a tale strategia. Fin dal 1994, e ancor più quando Ariel Sharon è salito al potere come primo ministro nei primi anni 2000, la strategia era quella di ghettizzare Gaza e in qualche modo si sperava che la gente del posto – 1,8 milioni a partire da oggi – sarebbe caduta nell’oblio eterno.

Ma il Ghetto ha dimostrato di essere ribelle e non disposto a vivere in condizioni di strangolamento, isolamento, fame e collasso economico. Rispedirlo al dimenticatoio richiede la prosecuzione delle politiche di genocidio.

Il pretesto

Il 15 maggio le forze israeliane hanno ucciso due giovani palestinesi nella città cisgiordana di Beitunia, con il loro assassinio a sangue freddo a causa del proiettile di un cecchino ripreso da un video. I loro nomi – Nadim Nuwara e Muhammad Abu al-Thahir – sono stati aggiunti alla lunga lista di simili omicidi negli ultimi mesi e anni.

L’uccisione di tre adolescenti israeliani, due dei quali minorenni, rapiti nella Cisgiordania occupata nel mese di giugno, era forse una rappresaglia per le uccisioni dei ragazzini palestinesi. Ma per tutte le depredazioni dell’occupazione oppressiva, ha fornito il pretesto prima di tutto per distruggere la delicata unità in Cisgiordania, e poi per la realizzazione del vecchio sogno di spazzare via Hamas da Gaza in modo che il Ghetto potesse essere di nuovo tranquillo.

Dal 1994, ancor prima dell’ascesa di Hamas al potere nella Striscia di Gaza, la particolare posizione geopolitica della Striscia aveva chiarito che qualsiasi azione punitiva collettiva, come quella inflitta oggi, poteva essere solo un’operazione di uccisioni di massa e distruzione. In altre parole: un genocidio continuo.

Questo riconoscimento non ha mai  inibito i generali che danno l’ordine di bombardare la gente dall’aria, dal mare e via terra. La riduzione del numero di palestinesi in tutta la Palestina storica è ancora la visione sionista. A Gaza, la sua realizzazione prende la sua forma più disumana.

La particolare tempistica di questa ondata è determinata, come in passato, da ulteriori considerazioni. L’agitazione sociale interna del 2011 è ancora bollente e per un po ‘ c’è stata la richiesta pubblica di tagliare le spese militari e spostare i soldi dal budget gonfiato per la “difesa” ai servizi sociali. L’esercito ha bollato questa possibilità come suicida.

Non c’è nulla come un’operazione militare per soffocare eventuali voci che chiedono al governo di tagliare le spese militari.

Tipiche caratteristiche delle fasi precedenti a questo genocidio incrementale riappaiono anche in questa ondata. Si può testimoniare ancora una volta il consensuale supporto ebraico-israeliano per il massacro di civili nella Striscia di Gaza, senza una voce significativa di dissenso. A Tel Aviv, i pochi che hanno osato manifestare contro di essa sono stati picchiati da teppisti ebrei, mentre la polizia stava a guardare.

L’accademia, come sempre, diventa parte della macchina. Una prestigiosa università privata, il Centro Interdisciplinare di Herzliya, ha istituito “un quartier generale civile” in cui gli studenti volontari possono servire da portavoce della campagna di propaganda all’estero.

Il supporto è prontamente reclutato, non mostra le immagini della catastrofe umana che Israele ha provocato e informa il suo pubblico che questa volta “il mondo ci capisce ed è dietro di noi.”

Tale affermazione è valida fino al punto in cui le élite politiche in Occidente continuano a fornire la vecchia immunità allo “stato ebraico.” Tuttavia, i media non hanno fornito a Israele proprio il livello di legittimità che cercava per le sue politiche criminali.

Eccezioni evidenti includono i media francesi, in particolare France 24 e la BBC, che continuano vergognosamente a ripetere a pappagallo la propaganda israeliana.

Questo non sorprende, dal momento che gruppi di pressione pro-Israele continuano a lavorare instancabilmente per diffondere la causa di Israele in Francia e nel resto d’Europa come fanno negli Stati Uniti.

La strada da percorrere

Sia che si tratti di bruciare vivo un giovane palestinese di Gerusalemme, o di una sparatoria fatale per altri due, solo per il gusto di farlo a Beitunia, o che si uccidano intere famiglie a Gaza, questi atti possono essere perpetrati solo se la vittima è disumanizzata.

Ammetto che in tutto il Medio Oriente ci sono orribili casi in cui la disumanizzazione ha provocato orrori inimmaginabili, come accade oggi a Gaza. Ma c’è una differenza fondamentale tra questi casi e la brutalità israeliana: i primi sono condannati come barbari e disumani in tutto il mondo, mentre quelli commessi da Israele sono ancora pubblicamente leciti e approvati dal presidente degli Stati Uniti, dai leader della UE e dagli amici di Israele in tutto il mondo.

L’unica possibilità per una lotta efficace contro il sionismo in Palestina è quella basata su un’agenda diritti umani e civili che non distingua tra una violazione e l’altra, e che identifichi chiaramente le vittime e i carnefici.

Coloro che commettono atrocità nel mondo arabo contro le minoranze oppresse e le comunità inermi, così come gli israeliani che commettono questi crimini contro il popolo palestinese, dovrebbero essere tutti giudicati secondo gli stessi principi morali ed etici. Sono tutti criminali di guerra, anche se nel caso della Palestina sono stati al lavoro più a lungo di chiunque altro.

In realtà non importa l’identità religiosa delle persone che commettono le atrocità o in nome di quale religione essi pretendono di parlare. Sia che si chiamino jihadisti, “giudaisti” o sionisti, essi dovrebbero essere trattati allo stesso modo.

Un mondo che smetta di impiegare due pesi e due misure nei suoi rapporti con Israele è un mondo che potrebbe essere molto più efficace nella risposta ai crimini di guerra in altre parti del mondo.

La fine del genocidio incrementale a Gaza e la restituzione dei diritti civili  e umani base ai palestinesi ovunque essi siano, compreso il diritto al ritorno, è l’unico modo per aprire una nuova prospettiva per un intervento internazionale produttivo in Medio Oriente nel suo complesso.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)

da qui

 

CRIMINALI IN GIACCA E CRAVATTA O IN TAILLEUR – Enrico Semprini

Se io fossi un terrorista, verrei incarcerato: nell’ordinamento che diciamo essere di un “paese civile”  lo stato non uccide (o non dovrebbe farlo secondo le leggi).

Lo stato in cui vivo detiene il monopolio della forza, è l’unico soggetto che ha carrarmati, aerei, fucili e pistole in quantità, che ha diritto ad intercettarmi fino al punto da potermi togliere la libertà.

In Palestina i palestinesi sono detenuti da decenni: ormai si dice in tutti i talk show, gli spettacoli delle parole, che Gaza è un carcere a cielo aperto. I palestinesi sono puniti da decenni fin da quando nascono, anche se l’unico reato, evidentemente, è quello di essere venuti al mondo; sono stati puniti preventivamente ben prima di aver commesso qualunque gesto possibile e questo non è normale. Si sta discutendo di come mai il governo israeliano non avesse intercettato tutte le conversazioni dei palestinesi: perché sarebbe normale se lo avesse fatto? (e di fatto intercetta tutto ciò che vuole). Se qualche organismo di polizia mi dovesse intercettare, in teoria, dovrebbe esserci l’autorizzazione di un qualche magistrato: esiste un organismo delle Nazioni Unite che ha concesso questo potere allo stato israeliano? O già questo è un crimine definito “spionaggio”?

Tuttavia nello stato in cui viviamo, l’Italia e in questa Europa non esiste la pena di morte.

Allora perché si dice che quello che fa il governo israeliano è legittimo?

Partiamo dal punto di vista di questi spettacoli delle parole, in cui tutti dicono che ci sono dei terroristi tra i palestinesi: quanti avranno partecipato alla azione del 7 ottobre? Facciamo una cifra ipotetica: 100 persone? E tra questi, quanti sono i sopravvissuti?

Nei nostri ordinamenti lo stato avrebbe diritto di indagare, di chiedere, di interrogare, non avrebbe diritto di uccidere i miei parenti, i miei amici, o perfetti sconosciuti solo perché sono miei vicini. Non avrebbe diritto di sparare su persone disarmate, dentro agli ospedali (dieci sono stati evacuati), di annientare quel poco di sistema scolastico che c’è, di vendicarsi sui malati, su persone che non possono conoscermi perché abitano a chilometri di distanza.

Soprattutto questo stato non avrebbe diritto di entrare con il suo esercito in un territorio che è di un altro paese, non avrebbe diritto di invadere la Svizzera se mi fossi rifugiato in Svizzera o se fossi venuto dalla Svizzera a fare una azione armata: potrebbe chiedere alla Svizzera di indagare, di trovare i colpevoli e, forse, di consegnarglieli, sulla base degli accordi internazionali: ma non ci sono accordi internazionali con la Palestina, perché lo stato sionista di Israele non comunica con il governo di quella porzione di terra e fa quello che vuole da sempre perché ha finanziato lo sviluppo di una organizzazione politica che ritiene, unilateralmente, di non dover riconoscere e parliamo di Hamas[1].

 

Soprattutto il governo italiano non potrebbe entrare in un paese neutrale (nel caso palestinese si parla di un popolo senza un esercito regolare, senza carrarmati, senza aerei, senza una forza armata che possa minimamente confrontarsi con la forza armata israeliana) come non avrebbe diritto di spazzare via Berna, Zurigo, Ginevra, Losanna, Montreux anche nel caso in cui alcuni cittadini svizzeri avessero compiuto una azione armata contro alcuni italiani.

Non avrebbe il diritto di togliere addirittura l’acqua, la luce, il cibo, le medicine, a tutta la Svizzera perché tutti capirebbero che si è di fronte ad un crimine contro l’umanità. E magari anche perché l’acqua, la luce, il cibo, le medicine, dovrebbero essere gestite dal governo svizzero (in Palestina dal governo palestinese), non da un altro ente statale, non vi sembra?

Come mai allora non è così per i palestinesi?

I tanti commentatori televisivi, i politici, gli “intellettuali” che dichiarano di condividere l’azione che il governo israeliano sta compiendo, dichiarano di condividere un crimine contro l’umanità.

Ci stanno abituando a considerare normale che vengano detenuti migliaia di uomini e donne palestinesi rastrellati dentro la Palestina e portati in uno stato straniero: perché? Sarebbe normale che l’esercito italiano andasse in territorio svizzero a prendere con la forza degli abitanti della Svizzera e li portasse in qualche valle alpina (là si tratta del deserto del Negev), in paesi disabitati, al freddo, alla fame e potesse torturarli e farne ciò che vuole, facendo ascoltare le voci registrate dei loro genitori, delle sorelle, delle mogli e dei figli per far capire ai detenuti che possono minacciarli a loro volta di morte, o magari di distruggere le loro case? Non sembrerebbero metodi razzistico-mafiosi tipici anche dei regimi colonialisti?

Ci vogliono abituare ad accettare che il crimine è normale se a commetterlo sono loro: i criminali sono nel nostro governo, nelle nostre televisioni e si permettono di dire che non dobbiamo manifestare contro i loro crimini, che non dobbiamo esporre le bandiere palestinesi che non dobbiamo dichiarare che siamo dalla parte giusta della storia, che loro possono annientarci se non pieghiamo la testa.

Dobbiamo chiamarli con il loro nome: criminali in giacca e cravatta o in tailleur.

 

[1] HAMAS o  حركة المقاومة الاسلامية‎, Movimento Islamico di Resistenza, ovvero حماس, «entusiasmo, zelo, spirito combattente»  è un’organizzazione politica e paramilitare palestinese, islamista, sunnita e fondamentalista, centrale nel Conflitto israelo-palestinese . Ha un’ala militare (le Brigate Ezzedin al-Qassam) ed è considerata un’organizzazione terroristica da Unione europeaOrganizzazione degli Stati americaniStati UnitiIsraele, Canada, da una corte in Egitto e dal Giappone, ed è bandita dalla Giordania, mentre Australia, Nuova Zelanda, Paraguay e Regno Unito classificano solo la sua ala militare come organizzazione terroristica.

 

Lo Statuto di Hamas propone il ritorno della Palestina alla sua condizione precoloniale e l’istituzione di uno Stato palestinese. La stessa Carta dichiara che “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihād“. Ciononostante nel luglio 2009 Khaled Mesh’al, capo dell’ufficio politico di stanza a Damasco, ha dichiarato che Hamas era intenzionato a cooperare con una “soluzione del conflitto Arabo-Israeliano che includesse uno stato Palestinese sui confini del 1967”, a condizione che ai rifugiati palestinesi venisse riconosciuto il diritto al ritorno in Israele e che Gerusalemme Est fosse riconosciuta come capitale del nuovo stato. Tale risoluzione, ovvero l’accettazione della soluzione a due Stati, è stata ripetuta varie volte dagli esponenti di Hamas e dai suoi sostenitori. D’altra parte Israele (insieme agli Stati Uniti) sembra accettare solo formalmente tale soluzione.

Inoltre nel 2006 Isma’il Haniyeh, leader di Hamas all’epoca, ha dichiarato: «Se Israele dichiarasse di dare ai palestinesi uno Stato e ridare loro tutti diritti, allora saremmo pronti a riconoscerli».

 

APPENDICE

Spesso si chiede, provocatoriamente, cosa avrebbe dovuto fare lo Stato israeliano dopo il 7 ottobre, anche se in nessun luogo in cui ci si appelli al “diritto internazionale” è previsto il massacro di intere popolazioni.

Esistono indicazioni che i potenti della terra si sono dati, in base alle loro definizioni, che troviamo in merito alla questione della definizione di “terrorismo nel diritto internazionale”:

 

<<Principi giuridici. – Dalle convenzioni in materia emerge un modello normativo a cui deve conformarsi la legislazione degli Stati parti (Terrorismo. Diritto penale), incentrato sui seguenti principi: 

  1. a) obbligo di prevedere come crimini negli ordinamenti statali le fattispecie contemplate nei singoli strumenti internazionali, con la previsione di pene severe; 
  2. b) affermazione del principioaut dedere aut judicare (ossia l’obbligo dello Stato sul cui territorio si trova il sospetto terrorista di estradarlo verso lo Stato richiedente o, altrimenti, di esercitare l’azionepenale nei suoi confronti), corredato dalle norme sulla estradabilità dell’accusato, nonostante la natura politica del reato, e dalla previsione della necessaria competenza giurisdizionale penale; 
  3. c) l’introduzione nell’ordinamentonazionale di disposizioni sull’assistenza giudiziale e la prevenzione del terrorismo internazionale.

 

Il diritto consuetudinario. – Secondo la dottrina prevalente non esiste una definizione di terrorismo nel diritto internazionale consuetudinario. Del resto, i lavori del Comitato ad hoc, istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1996, per predisporre una «convenzione globale sul terrorismo internazionale» si sono arenati proprio per l’impossibilità di pervenire a una definizione condivisa di atto terroristico. Il dissenso riguarda non tanto la definizione in sé, quanto la formulazione di due eccezioni all’applicazione della nozione alle situazioni di conflitto armato (e quindi, tra l’altro, alle guerre di liberazione nazionale, legittimate dal principio di autodeterminazione dei popoli) e alle attività svolte dalle forze ufficiali di uno Stato nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche (cosiddetto terrorismo di Stato).>>

[1] HAMAS o  حركة المقاومة الاسلامية‎, Movimento Islamico di Resistenza, ovvero حماس, «entusiasmo, zelo, spirito combattente»  è un’organizzazione politica e paramilitare palestinese, islamista, sunnita e fondamentalista, centrale nel Conflitto israelo-palestinese . Ha un’ala militare (le Brigate Ezzedin al-Qassam) ed è considerata un’organizzazione terroristica da Unione europeaOrganizzazione degli Stati americaniStati UnitiIsraele, Canada, da una corte in Egitto e dal Giappone, ed è bandita dalla Giordania, mentre Australia, Nuova Zelanda, Paraguay e Regno Unito classificano solo la sua ala militare come organizzazione terroristica.

 

Lo Statuto di Hamas propone il ritorno della Palestina alla sua condizione precoloniale e l’istituzione di uno Stato palestinese. La stessa Carta dichiara che “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihād“. Ciononostante nel luglio 2009 Khaled Mesh’al, capo dell’ufficio politico di stanza a Damasco, ha dichiarato che Hamas era intenzionato a cooperare con una “soluzione del conflitto Arabo-Israeliano che includesse uno stato Palestinese sui confini del 1967”, a condizione che ai rifugiati palestinesi venisse riconosciuto il diritto al ritorno in Israele e che Gerusalemme Est fosse riconosciuta come capitale del nuovo stato. Tale risoluzione, ovvero l’accettazione della soluzione a due Stati, è stata ripetuta varie volte dagli esponenti di Hamas e dai suoi sostenitori. D’altra parte Israele (insieme agli Stati Uniti) sembra accettare solo formalmente tale soluzione.

Inoltre nel 2006 Isma’il Haniyeh, leader di Hamas all’epoca, ha dichiarato: «Se Israele dichiarasse di dare ai palestinesi uno Stato e ridare loro tutti diritti, allora saremmo pronti a riconoscerli».

 

 

The american way of death – Claribel Alegría

(a mio figlio Eric)

 

Se scali giorno e notte la montagna

e ti apposti dietro gli arbusti

(lo zaino-fallimento sta crescendo,

apre crepe la sete nella gola

e la febbre del cambiamento

ti divora)

se scegli la guerriglia,

sta’ attento,

ti ammazzano.

Se combatti il tuo caos

con la pace,

la non violenza,

l’amore fraterno,

le lunghe marce senza fucile

con donne e bambini

e ricevi sputi in faccia,

sta’ attento,

ti ammazzano.

Se la tua pelle è scura e cammini scalzo

e ti rodono dentro i lombrichi,

la fame,

la malaria: lentamente ti ammazzano.

Se sei un nero di Harlem

e ti offrono campi da football

con il pavimento d’asfalto,

un televisore in cucina

e foglie di marijuana:

poco a poco ti ammazzano.

Se soffri d’asma

se ti esaspera un sogno

– che sia a Buenos Aires

o ad Atlanta-

che ti spinge da Montgomery

fino a Memphis

o ad attraversare a piedi la cordigliera,

sta’ attento:

diventerai un ossesso

e sonnambulo

e poeta.

Se nasci nel ghetto

o nella favela

e la tua scuola è la cloaca

o l’angolo,

prima devi mangiare,

poi pagare l’affitto

e nel tempo che ti avanza

sederti sul marciapiede

a veder passare le macchine.

Però un giorno ti arriva la notizia,

corre la voce,

te la dà il tuo vicino

perché tu non sai leggere

e non hai un soldo

per comprare il quotidiano

o ti si è fottuto il televisore.

In un modo o nell’altro

ti arriva la notizia:

lo hanno ammazzato,

sì,

te lo hanno ammazzato.

da qui

 

 

Vuoi lottare per una reale uguaglianza? Allora, guarda Jonathan Pollak – Libby Lenkinski

Yonatan ci sta mostrando un modo diverso e più radicale di lottare per l’uguaglianza: non chiedendo comodamente che i diritti di tutti siano elevati al nostro livello, ma camminando effettivamente nei panni degli oppressi, accanto agli oppressi.
  

 

Jonathan Pollak, arrestato a gennaio di quest’anno, qui accanto al suo avvocato Riham Nasra, all’interno del tribunale di Petah Tikva, il 28 settembre 2023, durante il processo in cui è accusato di aver lanciato pietre, durante una protesta, contro l’avamposto di Eviatar a Beita, per impedire un nuovo insediamento di coloni nella Cisgiordania occupata.

Dopo il suo arresto, l’attivista ha chiesto che il suo caso fosse trasferito da un tribunale civile a un tribunale militare in modo da poter subire lo stesso trattamento dei palestinesi. Tuttavia, la corte ha respinto la richiesta di Pollak, portandolo a respingere la legittimità della corte e a rifiutarsi di collaborare al procedimento.

fonte: (ISR) jewishcurrents.org – ottobre 2023

 

PREMESSA.

Jonathan Pollak, 40 anni, è un attivista israeliano anti-sionista. Nei primi anni duemila è stato tra i fondatori di Anarchists Against the Wall (Anarchici contro il muro), un’organizzazione schierata al fianco dei palestinesi nella lotta contro la costruzione israeliana del Muro dell’Apartheid, ed è attivo nella campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Nel 2018 era stato aggredito, fuori dal posto di lavoro, da due esponenti dell’estrema destra sionista, che gli tagliarono la faccia con un coltello.

 

Venerdì 27 gennaio 2023 è stato arrestato dalla Polizia di frontiera israeliana durante la protesta settimanale nel villaggio di Beita, nella Cisgiordania occupata. Attualmente è agli arresti domiciliari, e dovrà rimanervi fino alla fine del procedimento giudiziario.

Nonostante sia stato arrestato in Cisgiordania, dove vige la legge militare, durante una manifestazione contro l’occupazione, e sia accusato di aver lanciato pietre contro i mezzi militari degli occupanti, essendo un ebreo con passaporto e cittadinanza israeliana, contro di lui è stato imbastito un processo nell’ambito del sistema giudiziario penale israeliano. I palestinesi che vengono arrestati nelle stesse circostanze, e con le stesse accuse, invece, vengono processati secondo il diritto militare.

 

«Le proteste si presentano come un tentativo di fermare le manovre del governo di estrema destra – spiega Jonathan – che si può definire a tutti gli effetti fascista. Un attacco insomma, secondo i liberali israeliani, alla democrazia. Ma io non credo – aggiunge – che Israele sia una democrazia. E non perché la sua giurisprudenza sia o meno indipendente, ma perché è uno stato di occupazione e apartheid»

 

L’ARTICOLO.

Per gli attivisti israeliani e statunitensi, chiedere l’uguaglianza tende a significare elevare gli altri al nostro livello di privilegio. Ma quanti sono disposti a rinunciare a questo privilegio?

 

di Libby Lenkinski (ISR)

5 ottobre 2023

Nelle ultime settimane, mentre io e tutti quelli che conosco eravamo nelle strade di New York o Tel Aviv a protestare contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e a gridare per la democrazia, il mio amico Yonatan (Jonathan) Pollak era intrappolato agli arresti domiciliari, in attesa di processo a Israele.

 

Yonatan è stato arrestato dalla polizia di frontiera israeliana a gennaio durante una manifestazione contro l’avamposto della colonia illegale di Eviatar , nella Cisgiordania occupata. Eviatar è stato costruito per la prima volta nel 2021, in gran parte su terreni di proprietà di palestinesi della città di Beita , i cui residenti vivono lì da molto prima della fondazione dello Stato di Israele. L’avamposto è stato temporaneamente evacuato dalle autorità israeliane a causa della sua illegalità anche secondo la legge israeliana, ma è stato ripristinato nel giugno 2023 da coloni violenti e radicali, tutti con il sostegno del governo e persino con la partecipazione attiva di alcuni dei suoi ministri di estrema destra. Dal 2021, almeno nove palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane durante le manifestazioni contro l’avamposto.

 

Yonatan è stato tenuto in detenzione per diverse settimane e poi rilasciato agli arresti domiciliari – non era certo la sua prima volta. Con l’avvicinarsi della data del processo, lui e il suo avvocato Riham Nasra hanno chiesto qualcosa di radicale: che fosse processato non in un tribunale civile israeliano, come è consuetudine per gli ebrei israeliani, ma nei tribunali militari israeliani, che processano i palestinesi nei territori occupati . Come previsto, questa richiesta non è stata soddisfatta; farlo avrebbe significato superare le barriere tra due sistemi giuridici per due popoli nella stessa area geografica. Esiste una parola per questo: apartheid.

 

Sono un’attivista in Israele-Palestina da quasi 20 anni. Ho visto israeliani marciare, subire gas lacrimogeni e arresti, piantare tende e accamparsi nelle case palestinesi a rischio di demolizione o di presa del potere da parte dei coloni ; e ho fatto tutte queste cose da sola. Ma l’atto di Yonatan è diverso, qualcosa che la maggior parte di noi non penserebbe mai di fare.

 

Quando gli attivisti israeliani o americani parlano di uguaglianza e democrazia, di solito immaginiamo di portare tutti al livello di privilegio che godiamo attualmente. Ma quanti di noi sono disposti a sacrificare questo privilegio per il bene di una reale uguaglianza? Quanti di noi sono disposti a pagarne il prezzo? Questo è esattamente ciò che sta facendo Yonatan. Oggi, quando sento la parola “uguaglianza”, penso al suo potente atto di resistenza.

 

“Se parte del regime è una dittatura militare, dobbiamo trattarla tutta in questo modo”

Yonatan è stato uno dei primi attivisti israeliani anti-occupazione che ho incontrato quasi 20 anni fa. È stato sempre molto chiaro e molto concreto. Ricordo un incontro che organizzai per attivisti internazionali nel 2008 sul muro di separazione israeliano , che all’epoca era ancora in costruzione. Gli esperti e gli attivisti iniziarono a discutere se si sarebbero opposti al muro se fosse stato effettivamente costruito lungo la Linea Verde – il confine dell’armistizio che separava Israele dalla Giordania dopo la guerra del 1948 – piuttosto che tagliare in profondità la Cisgiordania.

 

Dopo diversi minuti di dibattito teorico e filosofico, Yonatan è intervenuto con forza: “Di cosa stiamo parlando? Questo non è ipotetico. C’è questo muro. La nostra scelta è accettarlo o opporci. Mi oppongo. Fine della discussione.”

 

La professoressa e attivista israeliana di filosofia Anat Matar ha recentemente sottolineato che, quando si tratta dei nostri valori e principi, spesso sappiamo qual è la cosa giusta da fare, ma ci concediamo costantemente piccole concessioni perché la vita deve andare avanti. Yonatan, dice, ha una mentalità diversa a questo riguardo: non può concedersi quelle indennità, né convivere con quelle ipocrisie.

 

Yonatan non è un attivista solidale venuto da lontano come tanti di noi. Vive da vicino le sfide quotidiane imposte da Israele ai palestinesi. Per due decenni ha preso parte regolarmente ad azioni di protesta in Cisgiordania, in particolare nelle aree dove c’è un’attiva resistenza popolare palestinese. Parla correntemente l’arabo e, nonostante il suo aspetto rude, sviluppa rapporti profondi e radicati con i palestinesi. Ciò rende la sua natura già intransigente ancora più cruda; semplicemente non può convivere con l’ingiustizia di ciò.

 

Nella sua dichiarazione dopo il suo arresto, Yonatan ha detto: “Non andrò (in tribunale) perché metà delle persone sotto il controllo israeliano sono cittadini di seconda classe, nel caso dei palestinesi che sono cittadini israeliani, o soggetti privi di diritti democratici fondamentali. , nel caso dei palestinesi che vivono nei territori occupati. Nonostante i complessi meccanismi burocratici progettati per mascherare questo fatto, esiste un regime tra il fiume e il mare, e se parte di esso è una dittatura militare, dobbiamo trattarlo tutto in questo modo”.

 

Il sistema giudiziario militare israeliano in Cisgiordania è un tribunale farsa. Questo è un fatto. Organizzazioni per i diritti umani come B’Tselem, Yesh Din, Military Court Watch, Addameer, Adalah, Human Rights Watch e molte altre lo hanno documentato; i media in Israele e nel mondo ne hanno parlato; sono stati girati film documentari sull’argomento; e i politici ne hanno parlato. Questo è un sistema giudiziario in cui meno di una persona su 400 viene assolta e oltre il 99% dei casi finisce con una condanna. Si tratta di un sistema giudiziario la cui stessa esistenza è una delle ragioni principali per cui il regime nei territori occupati è così spesso definito apartheid .

 

Questo sistema giudiziario fu istituito dopo che Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza nel 1967, per cercare di creare un ordine imposto da Israele sulla popolazione appena occupata. Da allora, circa 800.000 uomini, donne e bambini palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane e portati davanti a questi tribunali farsa. I bambini di appena 12 anni possono essere perseguiti e ogni anno vengono detenuti tra i 500 e i 700 minori . Come ha ammesso l’ex capo della giustizia militare Dov Shefi nel film del 2011 “The Law In These Parts”: “L’ordine e la giustizia non sempre vanno fianco a fianco”.

 

In altre parole, un sistema legale inteso a controllare una popolazione nemica non potrà mai garantire loro giustizia. E, in un atto di uguaglianza radicale, Yonatan chiede lo stesso trattamento che offre ai palestinesi.

 

Camminare a fianco degli oppressi

Ci sono quelli della destra politica che potrebbero provare a liquidare Yonatan come un attivista estremista che si è “schierato con il nemico”. Ci sono anche quelli della sinistra tradizionale che potrebbero pensare che sfidare l’occupazione in questo modo sia una tattica poco pratica. Ma entrambi hanno torto.

 

Consideriamo l’esempio di Zackie Achmat. In Sud Africa nel 1990, quando il regime dell’apartheid era ancora intatto, Achmat era un giovane attivista sieropositivo, e fece qualcosa di simile a ciò che Yonatan sta facendo adesso: si rifiutò di prendere farmaci antiretrovirali salvavita finché non furono accessibili a tutti . A quel tempo, tali farmaci erano inaccessibili a chiunque non fosse eccezionalmente ricco (la stragrande maggioranza della popolazione del paese, in particolare i neri sudafricani), e sebbene ne avesse personalmente i mezzi, Achmat rifiutò i farmaci per sostenerne la disponibilità pubblica; anche più tardi, quando il presidente Nelson Mandela lo implorò di prendere la medicina, egli rifiutò.

 

La richiesta di Achmat di un lancio di massa di farmaci generici a tutti i sudafricani ha contribuito a lanciare la Treatment Action Campaign (TAC) nel 1998, che è diventata una delle campagne sanitarie più efficaci della storia, e alla fine ha esercitato pressioni sul governo di Thabo Mbeki affinché introducesse medicinali a prezzi accessibili. e farmaci accessibili.

 

Achmat allora, come Yonatan adesso, rimase implacabilmente fedele alla sua chiamata. Questa campagna non solo ha prodotto risultati tangibili, con un aumento drammatico dell’aspettativa di vita nelle comunità rurali del Sud Africa, ma è anche riuscita a creare un massiccio cambiamento culturale che ha contribuito a destigmatizzare l’HIV agli occhi di molti nel paese e nel mondo.

 

Gli attivisti come me tendono a pensare a noi stessi come alternativamente valorosi e assediati: lavoriamo duro controcorrente per combattere l’oppressione, e così poche persone sembrano preoccuparsene. Ma alla fine, spesso torniamo a casa e viviamo una vita privilegiata, sentendoci abbastanza bene con noi stessi, giurando che combatteremo ancora domani.

 

Yonatan ci sta mostrando un modo diverso e più radicale di lottare per l’uguaglianza: non chiedendo comodamente che i diritti di tutti siano elevati al nostro livello, ma camminando effettivamente nei panni degli oppressi, accanto agli oppressi. Forse la sua irriverenza è minacciosa per alcuni; forse il suo linguaggio è estremo per gli altri. Ma la sua resistenza è un chiaro appello che dovrebbe spingerci tutti a fermarci a pensare – e poi ad agire.

 

Fonte: 972mag.com – 5 ott. 2023

Traduzione a cura de LE MALETESTE

* Libby Lenkinski è vicepresidente per l’impegno pubblico presso il New Israel Fund.

da qui

 

PERCHE’ BUONA PARTE DEGLI ANTISEMITI SONO FILOISRAELIANI? – Enrico Semprini

Perchè esiste una continuità storica e logica tra i due filoni di pensiero.

In questi giorni si è parlato della ricchezza della famiglia di Ignazio La Russa grazie a Report che nell’indagine fa capire come le ricchezze di famiglie ebraiche siano diventate oggetto di razzia da parte di opportunisti italiani, nel mentre gli ebrei venivano cacciati dall’Italia e mandati allo sterminio a causa delle leggi razziali.

Questa considerazione può indurci a riflettere sul perché persone che fanno parte di organizzazioni politiche che occhieggiano al fascismo e dunque inevitabilmente non provano nessun ribrezzo per le leggi razziali che caratterizzarono l’Italia in quel ventennio, si mostrino oggi sostenitori dei crimini che lo stato Israeliano sta compiendo contro il popolo palestinese. La posizione attuale del governo Meloni ne è una prova.

Si vuole anche analizzare come il sostegno allo stato israeliano non contenga nessuna relazione con una vicinanza all’ebraismo ed alla complessa e variegata cultura che caratterizza un ambito culturale misconosciuto.

Dall’altro lato si vuole sottolineare come le teorie antisemite di ogni matrice, siano i migliori strumenti per dare forza e sostegno all’idea sionista.

 

Qui si ripercorre in modo sommario e necessariamente approssimativo, la nascita e lo sviluppo della tradizione antisemita, così antica e così poco conosciuta.

Anche se le teorie della razza di tipo nazista non erano di matrice religiosa, si cerca di rispondere ad una domanda di fondo: quale era l’humus culturale europeo dal quale avevano attinto? I nazisti avevano costruito una nuova teoria o come tutto il loro sistema culturale avevano semplicemente sovrapposto e mescolato tante suggestioni ai fini di un potere di carattere nazionalista?

La risposta è che l’humus antiebraico è antichissimo e sebbene parlare di religioni non sia sufficiente per comprendere nessuno sviluppo storico, qui ci limitiamo a considerare le caratteristiche della persecuzione rispetto al fatto di essere o no seguaci del credo nella religione ebraica.

 

La persecuzione contro la religione ebraica (ed in seguito anche musulmana) si perde nella notte delle origini del cristianesimo.

C’e’ un problema dottrinale di fondo: Cristo era o non era il messia, l’unto del signore, colui che doveva portare i suoi seguaci alla terra promessa (alla salvezza)?

L’evidenza storica chiarisce di no, ma la religione cristiana non contiene solamente questa contraddizione, ma anche altre non meno problematiche. Pensiamo al problema della trinità, che deve per forza essere creduta per fede, poiché è logicamente insostenibile pensare che un essere possa essere uno e trino e che addirittura il figlio debba essere considerato “consustanziale al padre”. Non è un caso che la religione cristiana dichiari che esistono dei dogmi che non sono razionalmente comprensibili, ma che devono essere creduti per fede.

E’ chiaro che una religione così debole da un punto di vista dottrinale, non poteva reggere alla critica ebraica: dunque per affermarsi necessitò di accettare e rivolgere contro la religione originaria la sua nemicità, la propria “eresia” da ribaltare sulla religione originaria.

Cosa c’e’ nel cristianesimo che convince una parte del popolo dell’antica Roma ad affidarsi alla religione cristiana? L’idea di uguaglianza ed universalità che è parte del pensiero ebraico originario e la conseguente idea di emancipazione dall’oppressione che ne consegue da una parte, mentre dall’altra per farsi strada anche nei ceti più elevati della società, affina una serie di adattamenti che la rendono un prodotto funzionale al dominio e a nuove forme dell’oppressione.

Uno dei più spettacolari di questi adattamenti è la famosa affermazione per la quale al Cristo, incalzato dai farisei, viene chiesto se i suoi seguaci devono pagare i tributi ai romani: la risposta “date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio” costituisce la chiave di volta per comprendere due cose:

1 – perché la religione cristiana diventa accettabile per il dominio imperiale;

2 – perché la religione cristiana si basi su una serie di falsificazioni storicamente insostenibili, delle quali questa è la più evidente, anche se la più “opportuna” per non scontrarsi con il potere.

 

1 – L’antico problema che si manifesta di fronte ai romani in territorio palestinese, è costituito dal fatto che i seguaci della religione ebraica rifiutano di pagare le tasse ai dominatori. Questo è un problema intollerabile per il sistema imperiale romano e le innumerevoli persecuzioni che già caratterizzano la resistenza dei seguaci dell’ebraismo all’oppressione imperiale si spiegano proprio con il “vil denaro”.

 

2 – ecco dunque che nasce una religione che attinge parte dei propri principi dall’antico testamento, cioè dalla Bibbia, ma che si adatta ai tempi nuovi: “date a Cesare quel che è di Cesare” significa esattamente “pagate pure le tasse”, che tanto la religione si occupa dell’anima. Ovvio che non esistendo anime senza corpi, poi ci si renderà conto che il possesso dell’anima significherà anche il possesso ed il dominio sui corpi.

Sottolineiamo però che un ebreo ultra-ortodosso tanto da morire per il suo credo come viene descritto Cristo, non avrebbe mai tradito l’insegnamento dei padri dicendo una simile eresia, tradendo in modo così meschino l’eredità culturale della propria religione.

 

Dunque quelle parole sono straordinariamente funzionali a rendere la nuova religione pienamente compatibile con la gestione del potere imperiale e prende piede.

Tuttavia è in competizione con la religione ebraica che svolge anch’essa una predicazione competitiva: si tratta di prevalere, specie quando nel medioevo alcuni saggi ebrei diventano consiglieri privilegiati di vari signori che appartengono alle nuove gerarchie del potere feudale.

La religione cristiana non regge alla critica ebraica e per questo deve ripudiare con violenza quel tipo di religione che ne mina le radici stesse.

Gli ebrei devono diventare nemici: la cosiddetta “maledizione contro gli ebrei”[1], che sarebbe un’intimazione alla conversione, continua ad essere presente nella liturgia ecclesiastica occidentale ed in particolare durante la messa, fino a quando la stessa messa viene recitata in latino.

 

Una grande speranza si apre nei seguaci dell’ebraismo durante il periodo illuminista: all’interno della vecchia Europa vengono messi in discussione i dogmi della potente chiesa cattolica da un punto di vista completamente differente.

L’eguaglianza e la idea di tolleranza che sembrano caratterizzare la nuova epoca caratterizzata dall’avvento della borghesia al potere, fanno nascere grandi speranze. Libera chiesa in libero stato: si aprono le porte alle idee di uno stato che può diventare laico e tollerare i diversi credo religiosi come fenomeni da considerare come scelte soggettive, individuali. Sembra un possibile ribaltamento dell’antico concetto: si dà allo stato quello che si deve dare allo stato e si professa ciò che ognuno vuole senza pregiudizi di sorta.

Tuttavia, nell’epoca dell’imperialismo capitalista e ben dopo la rivoluzione francese con il portato di speranza che nasce dentro tanti contesti, anche i credenti nell’ebraismo vivono la grande illusione dell’integrazione. Tuttavia ad esempio l’affare Dreifuss[2] ed altri fenomeni storici, frustrano ancora una volta le speranze di tanti giovani provenienti da famiglie di tradizione ebraica e produce l’idea di fondare uno Stato Ebraico di matrice laica, ipotesi plausibile solo all’interno della logica imperialista di fine ottocento, rassegnandosi ad accettare che in Europa vigeva la impossibilità dell’integrazione[3]. Nasce in un contesto non religioso e a in largo senso antireligioso l’idea di dover costruire un nuovo stato che permettesse anche a coloro che nascevano da famiglie ebraiche, o ne erano parenti, di cessare con le assurde angherie cui erano sottoposti da secoli e secoli: nasce in quel contesto il Sionismo. L’idea di ritorno a Sion è considerata eretica per la tradizione ebraica poiché cozza con il concetto di diaspora e conclusione della stessa attraverso l’arrivo del Messia: per questo si sviluppa in ambienti non religiosi e con filoni socialisteggianti ben rappresentati.

 

Dunque non è per quanto avviene in Germania dagli anni 30 del 1900 che si sviluppa questa ipotesi. In realtà nel Germania in via di nazificazione la persecuzione delle minoranze trova nuove ragioni: ormai da un secolo nella scienza si è fatta strada l’idea di evoluzione e dall’inizio del ‘900 si sono poste le basi della genetica. Negli Stati Uniti, patria di mille stimoli nuovi, si afferma il filone del pensiero eugenetico, l’affinamento della popolazione grazie alla sopravvivenza dei più adatti ed alla sterilizzazione dei non adatti che qualcuno definisce “darwinismo sociale”[4]. A farne le spese sono dapprima coloro che adesso vengono definiti “diversamente abili” che vengono considerati un peso sociale da distruggere. Il sistema capitalista necessita di persone sfruttabili: chi non è funzionale non può essere tollerato.

 

Anche in Europa queste teorie iniziano ad avere un certo seguito ed i nazisti mettono insieme in modo sincretico una tradizione antica, quella antiebraica (ed antimusulmana), con quella eugenetica.

 

D’altro canto i nuovi mezzi di comunicazione, la radio in particolare, mettono in chiaro come “il potere del verbo”, la parola, sia fondamentale per costruire un’identità di potenza.

Dalla tradizione esoterica i nazisti traggono spunto per inventare una nuova idea di “razza ariana”[5], che sarebbe ridicola se non si fosse rivelata drammatica per le conseguenze che sono state realizzate storicamente; tuttavia nella propaganda “Gli argomenti devono essere crudi, chiari e forti, e fare appello alle emozioni e agli istinti, non all’intelletto. La verità non è importante e del tutto subordinata alla tattica e alla psicologia” sostiene grossomodo un biografo di Goebbels, ministro della propaganda nazista.

Non inventano nulla che non fosse stato già realizzato; i ghetti per gli ebrei[6], la persecuzione ed il tentativo di sottomissione degli esseri classificati come inferiori, ebrei, musulmani e tutte le popolazioni slave (schiave). Necessitano anche di lavoro schiavo per realizzare la loro potenza: nei campi di concentramento si sviluppano fortune di interi settori della produzione. Non ci sono negri da importare: bisogna inventarsi una categoria ad hoc all’interno della popolazione esistente e cosa c’è di meglio della antica tradizione antiebraica per trovare la soluzione? Le idee nascono sulla base delle necessità del nuovo sistema di produzione all’interno di uno stato che usciva sconfitto dalla prima guerra mondiale e che, al contrario delle altre potenze europee, non possedeva colonie e dunque non poteva disporre di lavoro schiavo o pressoché tale e neppure di materie prime provenienti da altri territori. Dunque lo sviluppo espansivo caratteristico della produzione capitalista, non trovava sbocchi all’interno dei confini tedeschi: ogni contesto tende a produrre le idee necessarie a dare prospettiva alle sue necessità.

 

In Italia, ora sembra patetico ma non lo è stato, si rinnovarono i fasti dell’epoca imperiale romana, i fasci littori, il saluto romano: la prima ipotesi di un potere statale che cerca di unificare teorie contrapposte, quella socialista e quella nazionalista, non poteva che risolversi in un atteggiamento buffonesco? Difficile da capire: ma anche in Italia si sviluppò la necessaria mitologia per tentare di dare un senso ad una idea di potenza di uno stato con uno sviluppo industriale ancora modesto, tuttavia caratterizzato da lotte sociali potenti. Poi si fecero proprie le teorie razziste, contro i neri per giustificare il colonialismo italiano e le leggi coloniali imposte in Africa orientale e contro gli ebrei[7], per accodarsi ai potenti alleati tedeschi. Si deportano intere famiglie composte da persone di ogni età e ceto sociale, si perseguitano anche gli omosessuali, si perseguitano i gitani, i testimoni di geova, gli anarchici, i socialisti comunisti e non: naturalmente i “diversamente abili” definiti dementi, storpi o altro sono i primi a farne le spese.

 

In Germania si accompagna alla fondazione del nuovo credo ariano, la riesumazione in chiave scientista di quanto già avevano fatto i cristiani in Spagna: nel 1492 Isabella di Castiglia ed il suo consorte danno vita alla guerra interna per la “limpieza de Sangre”[8], la potenza del cristianesimo contro i seguaci della religione musulmana e a seguire di quella ebraica. Non è un caso che il camino di Santiago celebri un santo che viene dipinto su di un cavallo bianco mentre con la lancia ammazza i mori (Santiago matamoros è la definizione completa), cioè gli arabi che vengono uccisi e cacciati dalla Spagna. Per secoli erano vissuti nel sud della Spagna con ebrei e cristiani in un ambiente in cui le tre religioni si misurarono tra tensioni e scambi fecondi, almeno fino a quel momento. Tuttavia esiste una richiesta di santificazione della regina Isabella tuttora in valutazione.

 

Il problema per i nazisti è che la genetica non c’entra nulla perché i religiosi ebraici sono in tutto e per tutto identici ai seguaci di altre religioni, ai laici ed a coloro che si rifanno ad altri principi e fanno fatica ad identificarli.

Questo breve excursus sulla questione dell’antisemitismo è per capire che il nazismo, che viene sventolato come giustificazione della fondazione dello stato di Israele, viene rappresentato come un fenomeno alieno, come se in Europa si fosse sviluppato un fenomeno che proveniva dallo sbarco di una navicella dallo spazio.

Eppure il nazismo non è un corpo estraneo, come dimostrano non solo i nostalgici delle due grandi dittature del ‘900, ma è una sintesi di pezzi di cultura europea tuttora pienamente parte del bagaglio culturale che trovò uno sviluppo originale con l’affermazione del capitalismo, in un continente in cui le classi al potere cercano di non fare mai i conti con le proprie responsabilità.

 

Al contrario quel fenomeno culturale e ormai storico denominato sionismo, è molto gradito nei salotti buoni del potere moderno. Anche lì siamo di fronte alla fusione di due tradizioni: quella che vuole gli ebrei e possibilmente i loro parenti di diversi ordini e gradi, confinati in un ghetto, in questo caso una porzione di territorio che in qualche modo si riferisce ai luoghi originari di un culto, con quelli della dominazione coloniale. Non è estranea a questo entusiasmo il fatto che le classi al potere nell’Europa e negli Stati Uniti di oggi siano  impossibilitate a mantenere una dominazione coloniale diretta all’interno del mondo arabo. Dunque la dominazione coloniale israeliana piace perché viene anche vista come una enorme base militare, un avamposto dell’occidente in terra araba, accompagnata da tutta la mitologia dell’unica democrazia del medio oriente, come se la democrazia non fosse una conquista dal basso che nulla ha a che vedere con la cultura del potere.

 

Questi amici del sionismo, non sono per niente amici dell’ebraismo. Non è un caso che non si parli mai del rispetto per la religione ebraica, come per ogni altra, e neppure dell’enorme debito del cristianesimo, con l’importanza che ha svolto nella cultura europea, anche da un punto di vista dottrinale oltre che storico. Ciò che difendono è funzionale ad interessi di potere consolidati: solo in questo modo si può spiegare il filosionismo che caratterizza anche la destra politica ed il contemporaneo recupero di tutte le componenti politiche che si identificano con i saluti romani e le teorie razziste vecchie e nuove, apparentemente più vocate al pregiudizio contro i musulmani che è, tuttavia, l’apripista contro ogni pregiudizio.

 

Pensate se si dovesse fare una disamina storica di quanto è stato sottratto alle famiglie di religione ebraica attraverso le leggi razziali: persone annientate e ricchezze rubate e mai restituite.

 

E’ molto facile essere amici dei sionisti e fingere di essere sensibili alle sorti degli ebrei, mentre invece si fa solamente il tifo per chi perseguita popolazioni lontane. Intanto qui non si è certo restituito, ridato le chiavi di casa a coloro che hanno perduto non solo tutti i beni materiali, ma anche i propri genitori, sorelle, fratelli, amiche ed amici, per ricollegarsi a quanto scritto in premessa.

Quanto vale quello che dovrebbe essere restituito?

Molto meno delle armi per uccidere uomini, donne e bambini di ogni età nel territorio di Gaza.

 

Questa è l’amicizia dei potenti occidentali nei confronti dello stato israeliano.

 

Chi critica il sionismo politicamente deve essere coerentemente antirazzista poiché proprio il razzismo viene continuamente utilizzato per giustificare il sionismo.

 

Ogni persona che è in relazione con la religione ebraica in qualche modo, deve sentirsi sicura e rispettata qui nei nostri paesi, non pensare di doversene andare a colonizzare altre terre.

 

E’ altrettanto razzista sentir dire che i palestinesi devono andare in Egitto per stare al sicuro, andare tra coloro che sono musulmani: è mostruoso solo pensare una cosa del genere.

 

Nessuno deve dover scappare dalla propria casa e dunque quando non riconosciamo legittimità al sionismo, affermiamo che non riconosciamo come legittimo il colonialismo né passato, né presente, né futuro: questo deve essere chiaro.

 

E’ fondamentale chiarire che esiste l’antisionismo politico proprio come forma di antirazzismo che ha una propria e specifica caratterizzazione nel mentre si schiera con fierezza e determinazione a fianco del popolo palestinese, così come di ogni popolo dominato cui viene pregiudicato il presente ed il futuro.

[1] – Oremus et pro perfidis Judaeis è una locuzione latina, presente dal VI secolo fino al XX secolo nella liturgia cattolica del Venerdì santo, con la quale i cristiani pregavano per la conversione dei giudei. La traduzione è controversa: potrebbe significare tanto Preghiamo anche per i perfidi giudei quanto Preghiamo anche per i giudei increduli

[2] – L’Affare Dreyfus fu il maggiore conflitto politico e sociale della Terza Repubblica, scoppiato in Francia sul finire del XIX secolo, che divise il Paese dal 1894 al 1906, a seguito dell’accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania mossa nei confronti del capitano alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus, il quale era innocente. Gli storici sono concordi nell’identificare la vera spia nel maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy. (…)

Lo scandalo giudiziario si allargò per gli elementi di falsificazione delle prove portati nel processo, gli intrighi e la coriacea volontà dei più alti vertici militari di Francia nell’impedire la riabilitazione di Dreyfus. Mentre giornali e politici antisemiti, ambienti ecclesiastici e monarchici istigarono e aizzarono ampi settori della società francese contro Dreyfus, i pochi difensori della sua innocenza vennero a loro volta minacciati, condannati o dimessi dall’esercito: Zola si rifugiò all’estero; il maggiore Marie-Georges Picquart, capo dei servizi segreti militari e figura centrale nella riabilitazione di Dreyfus, fu prima degradato e trasferito in Africa, e poi arrestato e condannato. Solo grazie a un compromesso politico, Dreyfus fu graziato e liberato nel 1899. Ci vollero altri anni per ottenere la riabilitazione civile e il suo reintegro nell’esercito nel 1906. (estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Affare_Dreyfus )

[3]Non è un caso che Theodore Herzl, riconosciuto come il fondatore dell’ipotesi sionista, sia stato corrispondente di un giornale, il Neue Freie Presse a Parigi e che proprio a Parigi ebbe modo di seguire l’affare Dreyfus e conoscere quanto radicato fosse nella società europea l’antisemitismo

[4]Sul piano politico, il darwinismo sociale servì a giustificare il colonialismo, l’eugenetica, il fascismo e soprattutto il nazismo. In effetti, quest’ideologia considera legittimo che le «razze umane» e gli esseri più deboli scompaiano e lascino il posto alle razze ed agli esseri meglio armati per sopravvivere.

 ( https://www.dima.unige.it/~denegri/PLS2/PENSIERO_SCIENTIFICO%20DEF/Darwin/Pages/darwinismosociale1.htm )

[5]Mentre originariamente il termine intendeva semplicemente una classificazione etnolinguistica, a partire dalla fine del XIX secolo il concetto della razza ariana è stato usato come forma di razzismo scientifico, una pseudoscienza usata dai proponenti di un razzismo ideologicamente motivato e suprematista come ad esempio nelle dottrine del Nazismo e del neonazismo. (estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Razza_ariana )

[6]Dal punto di vista istituzionale i ghetti vennero istituiti da papa Paolo IV che fu particolarmente rigido nei confronti degli Ebrei, ordinò il rogo del Talmud nel 1553; nel 1555 con la bolla Cum nimis absurdum impose l’istituzione dei ghetti; un anno dopo ad Ancona fece condannare al rogo venticinque marrani.

( https://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-iv-papa/ )

Il ghetto: dal 16° sec., in tutta Europa, la parola divenne la denominazione del quartiere cittadino di dimora coattiva degli Ebrei. Quartieri ebraici chiusi (talvolta costituitisi a scopo difensivo per iniziativa degli stessi abitanti) si conoscono dal 13° sec. in Germania, Spagna, e Portogallo; si ebbero in Italia in tutte le città abitate da Ebrei all’infuori di Livorno, dove alla comunità ebraica erano riservate determinate strade. Imposti quasi dovunque durante la Controriforma, furono aboliti nel corso del 19° sec., ma ebbero nel 20° sec. una triste reviviscenza in alcuni Stati dell’Europa centrale e orientale durante le persecuzioni razziali

( https://www.treccani.it/enciclopedia/ghetto )

[7]  Diceva Mussolini nel 1938: <<Nei riguardi della politica interna, il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si mantengono con il prestigio, e per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno, la nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto. L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo». Tratto da Treccani – Atlante – Cultura.

[8]https://www.istitutocalvino.edu.it/blog/2012/12/limpieza-de-sangre-esempio-di-persecuzione-contro-gli-ebrei/

Nel 1492, con la presa di Granada, Isabella colse il definitivo successo contro i Mori da secoli presenti nel Sud della Penisola Iberica. Ai vinti fu chiesto di convertirsi al cristianesimo oppure di andare via. Lo stesso fu imposto agli ebrei e più di 100.000 di loro furono costretti a partire.

Il 4 novembre deve essere giorno dedicato alle vittime delle guerre, giorno per dire NO ALLA GUERRA

 

Come Comitato “Fermiamo la guerra” e Istituto De Martino è dal 2012 che promuoviamo, la prima domenica di novembre, l’iniziativa “Canzoni contro la guerra”, in contrapposizione, appunto, alla cosiddetta Festa delle Forze Armate e della vittoria nel 1° conflitto mondiale (ci sarà anche quest’anno alle 16,30 di domenica 5/11 al Teatro “L’Affratellamento” – via Giampaolo Orsini, 73 – FI).

Saluti pacifisti.

Moreno Biagioni

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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