Contro patriarcato, violenze e femminicidi

Libri e articoli di Sahar Khalifah, Donata Columbro, Antonietta Nembri e Grazia Zuffa.

“La svergognata. Diario di una donna palestinese”

Considerata una delle voci più autorevoli e stimate della letteratura palestinese, nelle sue opere Sahar Khalifah unisce l’impegno civile per la causa palestinese alla denuncia della condizione della donna nella civiltà araba contemporanea. Recensione del libro a cura di Martina Magon

Afaf, la protagonista di questo romanzo, è una casalinga di famiglia borghese che si qualifica, da subito, come figlia del professore e moglie del commerciante, sottolineando quanto la sua identità sociale dipenda da queste due importanti figure famigliari, non solo per il prestigio delle loro mansioni ma anche per la protezione sociale che padre e marito forniscono alle donne.

Il suo infelice matrimonio le è stato imposto dalla famiglia d’origine che le ha trovato “un buon partito”, un uomo benestante che le garantisce una vita agiata nonostante il fatto che Afaf (così come le sue sorelle) non potrà godere dell’eredità, riservata ai soli fratelli maschi.

Il marito la offende e diventa violento quando si ubriaca perciò, nonostante il frigo pieno, bei vestiti e una bella casa, sentendosi in una prigione che le provoca apatia e le ha fatto perdere l’interesse per la vita, sempre più spesso pensa al divorzio.

Si chiede:

È questo il matrimonio?

È questa la società?

È questa la natura?

È questa la realtà?

Vita mia, che ci sia un’alternativa?”.

Durante tutta la sua infanzia e adolescenza, è stata educata coi valori imperanti della rispettabilità della sua famiglia e dell’onore femminile da preservare, ma conserva ancora dentro sé un tratto ribelle che faceva molto arrabbiare i suoi genitori:

malgrado a scuola fossero in genere le ultime della classe” […] “Mi divertivo a paragonare” la spontaneità delle ragazze di umili origini “con la falsità delle ragazze del mio ambiente”.

Riguardo i suoi familiari sostiene: “Ritenevano importanti cose alle quali io non davo nessun peso”.

Sogna, da sempre, di innamorarsi davvero di qualcuno in grado di rispettarla, di un uomo maturo abbastanza da non aver paura di sentirsi un suo pari.

Ma l’amore,

per loro,

era una catastrofe,

uno scandalo,

una disgrazia […]

e sin dall’infanzia capisce, suo malgrado, che questa parola è un modo per appellare una ragazza con i termini peggiori che le si possano rivolgere: “svergognata e scostumata”.

Parole che le incutono paura poiché sa bene che in molti casi le donne accusate di svergognatezza vengono picchiate e, a volte, possono essere addirittura punite con la morte.

Un giorno legge “un libro sulla condizione della donna,

la sua educazione e il suo stato di prigionia,

leggendo che la donna non sarà mai libera,

anche qualora si liberasse da tutti i vincoli,

perché interiormente non è libera,”

quel giorno decide “di accettare la sfida”.

Il divorzio è però una scelta che richiede dei grandi cambiamenti nella sua vita.

Si dovrà trovare un lavoro e adattarsi a vivere con poco.

Un’alternativa che richiederà “pazienza, perseveranza e sforzo”.

Nonostante i dubbi sul futuro, convince il marito a concederle di poter andare da sola a trovare la sua famiglia d’origine in Palestina poiché non può lasciare un paese mussulmano “senza il permesso di chi le è legalmente responsabile.

Riesce a vincere i timori legati al fatto che non ha mai viaggiato da sola, parte in aereo e durante il volo conosce una musicista irlandese che prima di accomiatarsi le dice:

Oh, come una donna assomiglia all’altra”.

I nostri due popoli hanno due cause simili, così come io e te ci somigliamo”.

Arrivata ad Amman decide di andare a trovare Naval, una sua amica dai tempi della scuola, che fin da bambina lotta per l’indipendenza del popolo palestinese.

La sua famiglia aveva una storia fatta di arresti, torture, interrogatori.

Chi non conosce la corruzione ne paga il prezzo.

La feci parlare a lungo delle storie dei popoli che avevano imbracciato le armi e avevano fatto la rivoluzione per ottenere l’indipendenza.

Oggi era il turno della Palestina.”

Le domandai alla fine: Quando verrà il turno di Afaf?

Mi rispose:

Afaf è parte della rivoluzione della donna palestinese e questa è parte della rivoluzione palestinese, che a sua volta è parte della rivoluzione mondiale.

Afaf ironizza accusandola di contraddirsi:

Sulla via della rivoluzione, ma come?

Vuoi forse dirmi che il contadino non sgozza sua sorella e l’operaio non strozza sua moglie quando questa commette adulterio?

La borghesia è tollerante ma ci calpesta.

L’operaio ci calpesta ma senza essere tollerante.

Questo è il ritornello.

La protagonista aggiunge che per quanto sia istintivamente legata alla sua terra d’origine, la Palestina è “un paese che mi ha insegnato ad accettare di buon grado l’oppressione” della donna “definendola un modo per salvaguardare il mio onore” mentre io “So che non avrei mai amato l’amore se mi fossi piegata agli schemi che ci sono imposti”.

Tornata a casa, trova la madre (invecchiata ma più amorevole di un tempo) e “Le stesse facce, lo stesso caffè col cardamomo. Lo stesso sparlare della gente e le stesse futili storie.”.

La protagonista si chiede: “Nella mia cittadina conservatrice esiste l’amore?

[…] Non parlano d’altro. Matrimonio, divorzio, scandali, gravidanze, nascite, sterilità e secondi matrimoni.

Afaf, infine, confida alla figlia di un’amica di sua madre che vuole divorziare ed è sterile.

La ragazza le risponde “Il modo di pensare è cambiato”.

Afaf non ne è affatto convinta ma spera profondamente che la mentalità potrà cambiare in futuro.

 

Sahar Khalifah ha fondato a Nablus, poi a Gaza City e ad Amman un Centro per le Donne, un’organizzazione che punta a riconoscere un ruolo sociale e politico alle donne.

Con quest’opera, del 1986, l’autrice accenna alla causa palestinese ma, soprattutto, scava nei desideri di una donna che ambisce a una maggiore qualità dei rapporti umani invitandoci a scardinare certi schemi mentali obsoleti che ostacolano il progresso verso un futuro più giusto, equo e umano.

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Donne e uomini contro il fondamentalismo. I nuovi giusti

È dedicato alla resistenza al radicalismo religioso, come un inno alla libertà il volume fresco di stampa scritto dai giornalisti Fabio Poletti e Cristina Giudici “Vita e libertà Contro il fondamentalismo” pubblicato da Fondazione Gariwo e Mimesis. Ascolta il podcast con l’intervista all’autrice

di Antonietta Nembri

Per chi vuole davvero capire che cosa si agiti nel mondo musulmano. Di che cosa si parla quando si ricordano le donne afghane costrette al silenzio che continuano a lottare e il valore e il peso delle tante Masha Amini che camminano nelle strade di Teheran, il libro fresco di stampa realizzato da Fabio Poletti e Cristina Giudici è uno utilissimo strumento di conoscenza.

Stiamo parlando di “Vita e libertà Contro il fondamentalismo” volume edito da Mimesis per la collana Campo Libero con Fondazione Gariwo, il giardino dei Giusti. Nelle librerie da venerdì 4 aprile

Oltre trecento pagine per raccontare le vicende di uomini e donne, alcune noti altri sconosciuti ai più che hanno lottato o che stanno ancora lottando per la libertà, che hanno detto no al fondamentalismo e all’oscurantismo religiosi. Persone che sono state uccise o che sono dovute fuggire in esilio.

I due giornalisti Poletti e Giudici in questi racconti hanno avuto la capacità di far emergere con attenzione e precisione da cronisti le storie di quanti dall’Iran all’Oman, dall’Afghanistan al Kurdistan – per citare alcuni dei Paesi – possono ben essere collocati nella categoria dei Giusti: persone che si sono battute contro l’ingiustizia non solo nei propri confronti, ma anche in nome tanti altri.

Contro i radicalismi

Certo quello di cui scrivono Poletti e Giudici è il fondamentalismo islamico, ma non è un libro contro l’Islam. Tutt’altro. Come scrive anche Younis Tawfik nella prefazione: «Credo che ci vogliano tanti racconti, come quelli ricordati da questo libro dedicato alle persone che con coraggio si sono ribellate al radicalismo per affermare la fede nella democrazia, nei diritti umani, nella difesa dei diritti umani. La storia del Medio Oriente e dei paesi musulmani è scritta anche da loro che si sacrificano per invertire il destino di popoli imprigionati dal radicalismo. I Giusti e le Giuste che continuano a opporsi al fondamentalismo rappresentano una speranza per poter salvarci dall’odio, dalla barbarie».
Per Tawfik , inoltre il libro rappresenta «una lettura importante per continuare a credere nell’umanità».

«Ci sono tanti uomini e soprattutto donne che in Medio Oriente stanno cercando di fare la differenza difendendo i diritti umani, in nome della democrazia a cui aspirano» scrivono i due autori nell’introduzione al volume. «Non lottano contro l’islam, il Corano o gli oltre 2 miliardi di fedeli nel mondo che professano la religione di Allah e il suo messaggero Maometto. Sono persone che rivendicano la libertà di culto, credono nella pace, nel diritto universale a non essere succubi di una teocrazia che impone loro come vestirsi, cosa pensare, in che modo vivere ed esprimersi».

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Perché contare i femminicidi è un atto politico 

Donata Columbro

Eccoci. Il giorno in cui vi dico che “ho scritto un nuovo libro” è arrivato.

Si intitola “Perché contare i femminicidi è un atto politico” e lo pubblica l’editore Feltrinelli. La copertina, probabilmente qualcunə riconoscerà il tratto, è dell’illustratrice Olimpia Zagnoli.

Esce il 16 settembre, ma ve lo diciamo oggi a reti unificate perché agosto per l’editoria è un mese che non esiste, e tutto si chiude questa settimana: lo trovate già nelle librerie online (vi metto i link di  FeltrinelliIBS e Amazon) e, se passate da quella del vostro quartiere, potete chiedere di prenotarne una copia. Anche le biblioteche possono farlo!

[immaginate qui lo screenshot inviato dalla zia bibliotecaria a testimonianza, l’ha saputo prima lei di me]

Chi segue la newsletter senza saltare neanche un numero, chi ha visto un certo post su Instagram, dove tiravo un sospiro di sollievo per le notti passate sulle bozze finalmente arrivate in tipografia, già sapeva: organizzare gli appunti, le interviste, i dati, le storie raccolte per scrivere questo libro è stato un lavoro molto intenso, perché non c’è solo la mia voce qui dentro, ma quella di tutte le persone che contano i femminicidi e la violenza di genere, che custodiscono le storie delle vittime dentro contro-archivi, che incarnano (praticando l’embodiment del femminismo dei dati) le statistiche trasformandole in un atto di cura, in un atto politico. Non lasciando che possano diventare freddi strumenti di polarizzazione ideologica.

I dati ufficiali non mostrano nomi, non permettono di esplorare le storie che riguardano caso per caso e raramente mettono in luce gli abusi di potere.

[Invece] la dimensione di ogni evento è collettiva, non personale, né riguarda solo la relazione tra vittima e assassino, ma l’intera società.

Le pagine di questo libro “fanno piangere e fanno arrabbiare” mi ha scritto una persona che lo ha letto in anteprima, ma io spero anche che ci facciano sentire gruppo, comunità: non mi sono mai sentita sola mentre scrivevo. Il lavoro dei movimenti, dei centri antiviolenza, delle giornaliste che hanno incontrato le famiglie delle vittime o gli uomini maltrattanti, delle associazioni che sono a fianco dei bambini e delle bambine rimaste orfane, di chi ha studiato il linguaggio degli abusi o le sentenze, di chi produce database nei ritagli del proprio tempo libero, la generosità di chi me li ha affidati, è stato un dono.

Per me, e ora spero per tuttə voi.

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Uccidono le donne: né mostri né matti

L’articolo di Grazia Zuffa per il numero dedicato al femminicidio della rivista Il Vaso di Pandora

da Redazione 3 Giugno 2025

 492 viste

Articolo di Grazia Zuffa per il Vaso di Pandora Rivista, Vol. XXXII N°1 2025

Mi è stato chiesto di riflettere sui reati di genere, su come questa nuova prospettiva si incroci con l’enfasi attuale sul penale; e infine se e come impatti sull’annoso e delicato problema della non punibilità dell’autore di reato, in questo caso di reato di genere, sulla base di un giudizio di “incapacità di intendere e volere al momento del fatto”. Il reato di genere più noto e terribile è il femminicidio, oggi all’attenzione dell’opinione pubblica.

Scelgo di ragionare a partire dal primo reato di genere su cui il movimento femminile e femminista si è impegnato fino dagli anni Ottanta dello scorso secolo: la violenza sessuale, con l’obiettivo di far risaltare la gravità di un crimine che in precedenza era classificato “contro la morale” e non “contro la persona”. E tanto basti a far comprendere come il codice penale sia stato costruito a partire dal punto di vista del soggetto maschile, nonostante la sua pretesa di “neutralità di genere” sulla base dell’aderenza a una uguaglianza formale. Invece, l’ottica di genere proprio questa “neutralità” contesta: e perciò lavora a decostruire la pretesa universalità di quella che è in realtà l’ottica maschile. Dunque, il riconoscimento della lettura di genere delle istituzioni, in particolare dell’istituzione giustizia, è una vittoria del movimento delle donne.

Di fronte alla violenza sessuale come “catastrofe”

Fatta questa premessa di inquadramento storico e teorico, parto da alcune considerazioni su un film che mi ha molto colpito, anzi di più, che mi ha turbato: “Creature di Dio”, film irlandese di due anni fa. Il turbamento ha a che fare col connubio violenza sessuale- morte, magistralmente rappresentato nell’opera. E infatti al centro del racconto è la violenza sessuale di una giovane donna da parte di un giovane uomo suo amico ed ex partner. I due si conoscono fino da bambini nella piccola comunità di pescatori irlandesi dove vivono. L’episodio precipita in tragedia, sullo sfondo di una radicale divergenza di comprensione e di sentimenti rispetto a quanto accaduto: la sofferenza della donna vittima è esasperata dal mancato riconoscimento da parte dell’uomo di aver agito in mancanza del suo consenso (peraltro la comunità locale, specie nella componente maschile, è in sintonia col giovane uomo). Per la vittima, la violenza diventa una ferita via via sempre più profonda e insopportabile che stravolge tutta la sua vita. Anche la madre del colpevole è coinvolta in un percorso di dolorosa e tragica elaborazione di quanto avvenuto. Il figlio diventa il simbolo di una violenza non emendabile e dunque non accettabile, tale da meritare la morte. E infatti lo lascerà morire annegato ignorando la sua invocazione di soccorso.

Una prima riflessione: il rapporto sessuale subito è rappresentato come un evento assolutamente catastrofico per una donna. La negazione maschile della “catastrofe” della violazione del corpo femminile conduce alla impossibilità di rapporto fra donna e uomo. Se il conflitto non è componibile, si profila uno scenario di guerra: l’altro diventa il “nemico”, come tale va eliminato.

Ho vissuto un femminismo che aveva al centro il conflitto storico uomo-donna. Un conflitto che le donne si assumevano in pieno diventando parte attiva, senza più subirlo passivamente. Non più “vittime” dunque, ma protagoniste di una battaglia (politica) verso un nuovo equilibrio di potere fra i sessi: il tutto in uno scenario di convivenza, radicalmente diverso da quello di guerra, di irrimediabile e perciò mortale inimicizia destinata a sfociare nell’ annientamento del “nemico”.

Molto ci sarebbe dire sulla declinazione “catastrofica” della violenza sessuale. Mi limito a una nota: da quando è iniziata la battaglia femminile per cambiare la legge sullo stupro, il termine “violenza” si è estremamente dilatato. Dalla violenza fisica, alla violenza psicologica, fino alla violenza derivante dall’assenza di “consenso esplicito” al rapporto sessuale (vedi il film francese “L’accusa” del 2021). “Violenza” è diventata una parola onnicomprensiva. Lo scrive Tamar Pitch, notando lo slittamento di linguaggio dal “vecchio vocabolario” -oppressione, disuguaglianza, lotta al patriarcato-  al nuovo, dominato dalla “violenza”: parola che non può che richiamare una risposta in termini di giustizia penale, a differenza di oppressione, sfruttamento, patriarcato, “che non possono essere affrontati attraverso uno strumento tendenzialmente riduttivo e semplificatorio come la giustizia penale”[1].

Qui si intravede la saldatura fra l’impegno sempre più massiccio del movimento femminista sul terreno penale e il cosiddetto “populismo penale”, intendendo con ciò la tendenza a ricostruire/rappresentare i problemi sociali come questioni da affrontare attraverso il diritto penale. Per inciso: non è corretto parlare di movimento femminista nel suo complesso perché una parte delle femministe ha sempre criticato la svolta “punitiva”, di scelta della giustizia penale come terreno di advocacy.

In ogni modo, il collegamento fra populismo penale e femminismo impegnato a difendere le vittime dei reati di genere è evidente nella comune enfasi sulla valenza di “risarcimento” morale alla vittima della punizione inflitta al criminale. Sulla scia del pensiero neo liberista, anche la giustizia si “privatizza”: specie per i reati più gravi, sulla scena pubblica del penale gli attori protagonisti (se non gli unici) sono appunto la vittima con i suoi familiari e il colpevole. La torsione morale/simbolica della punizione ha le sue conseguenze sul piano della severità delle pene: tendenzialmente non c’è limite alla pena, poiché questa non sarà mai in grado di risarcire il dolore della vittima o di chi la rappresenta (è questo il doloroso paradosso).

Per i reati di genere, la valenza simbolica acquista un significato in più: la pena severa è invocata quale “riconoscimento” sociale della caratteristica di genere del reato, in precedenza ignorato o sottovalutato nella sua gravità di offesa al soggetto femminile.

Possiamo forse leggere in questa luce anche la sottolineatura del carattere “catastrofico” della violenza sessuale messo in scena in “Creature di Dio”: la profondità dell’offesa subita giustifica la gravità della punizione. Fino all’estremo: chi ferisce mortalmente può aspettarsi la morte. Alla dura punizione corrisponde però un altrettanto severo contrappasso per la vittima: esce ribadita l’immagine – assolutamente tradizionale – della donna come soggetto debole, incapace di superare il trauma della violenza.

Il linguaggio del penale, il linguaggio della soggettività

Proprio questa immagine di debolezza femminile ci suggerisce una seconda pista di riflessione: avendo presente che la stagione del neo populismo si accompagna al neo conservatorismo, che rilancia i valori tradizionali (in primis la famiglia, con inevitabilmente il ruolo storico della donna al centro). Sorge dunque una domanda: quanto il vissuto di insopportabile catastrofe corrisponde a una crescita di soggettività femminile, che percepisce oggi come “violenza” un rapporto senza il suo consenso esplicito, seppure senza costrizione (esplicita) da parte maschile? In altre parole: l’idea che ci sia un consenso implicito al rapporto sessuale a meno che la donna non lo neghi esplicitamente rappresenta un assunto maschile che le donne si rifiutano oggi di avallare, rivendicando la propria ottica su ciò che è/non è violenza e mettendo in scena la propria sofferenza? Oppure il vissuto di “catastrofe” è ancora legato al “vecchio” concetto di “inviolabilità” del corpo femminile (inviolabile da altri uomini perché solo “a disposizione” dell’unico uomo che la “possiederà” e la designerà come madre dei suoi figli)?

A mio avviso, c’è indubbiamente una diversa e più matura soggettività femminile nel volere un rapporto in cui l’uomo è chiamato a capire e a confrontarsi, rispettandolo, col desiderio femminile: contro la vecchia supremazia patriarcale del desiderio maschile che “si impone” sul corpo femminile; e per arrivare a un incontro di corpi desideranti, si potrebbe dire. Ma ciò prefigura un terreno di scavo soggettivo, per capire dove va il desiderio femminile innanzitutto (“autocoscienza” si chiamava non a caso la ricerca su di sé delle donne in una relazione di scambio con altre donne).

E conduce a un altro interrogativo: davvero un soggetto femminile più consapevole e più forte può acconciarsi nei panni stretti della vittima che patisce la violazione del corpo come un affronto irrimediabile? Oppure proprio una maggiore consapevolezza di sé nel deciso rifiuto a considerarsi “puro corpo oggetto” (del possesso maschile) può aiutarla a padroneggiare la sofferenza, ridimensionando psicologicamente “l’offesa”? Il che, sul piano penale, non significa affatto declassare il reato né rinunciare alla giusta e proporzionata punizione del colpevole, naturalmente.

Un’ultima annotazione. Ancora una volta, il linguaggio parla da sé. Nell’ottica della soggettività, incontriamo la parola “desiderio” che introduce al continente, largamente inesplorato, del desiderio femminile; ma anche del desiderio maschile a confronto con donne che non si sentono più “corpi a disposizione”. Seguendo il linguaggio del diritto, incontriamo la parola chiave del “consenso”; e gli aggettivi “esplicito”/ “implicito” assumono rilievo per segnalare l’ambito e la gravità del reato.

Possiamo tirare una prima conclusione, citando ancora una volta Tamar Pitch, una studiosa che molto si è impegnata sull’approccio di genere in campo penale. “Se diciamo che la violenza sessuale, la violenza nelle relazioni di intimità hanno a che fare col patriarcato, allora il patriarcato lo sconfiggiamo con la giustizia penale? No, il risultato è rimettere la giustizia penale al centro, supportarla, rilegittimarla..”[2]

E infatti il risultato di cui parla Pitch balza agli occhi, guardando da vicino i casi di femminicidio. Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo. La pena più severa del nostro ordinamento è stata per lui invocata anche da molti e molte che sostengono la battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo. L’ergastolo è riservato ai delitti di sangue gravi che più provocano paura e orrore, pure ciò non ha mai indebolito le ragioni per l’abolizione dell’ergastolo. Di più: è difficile pensare a una abolizione normativa dell’ergastolo, se prima, nella coscienza collettiva, la “necessità” della pena perpetua non si affievolisce e la pratica giudiziaria lentamente non decade. Se però Turetta non fosse stato condannato all’ergastolo, probabilmente molte e molti l’avrebbero letto come una sottovalutazione del reato di femminicidio.

La “normalità” del Male del patriarcato

In altre parole, la visione simbolica del diritto penale applicata ai reati di genere prende il sopravvento fino a travolgere alcuni principi fondamentali del diritto, come il sistema delle garanzie a difesa dell’imputato. Ricordiamo ad esempio le proteste per alcune argomentazioni dell’avvocato difensore di Turetta, giudicate “offensive” nei confronti della vittima.  Così come le rimostranze perché i giudici non hanno riconosciuto alcune aggravanti ad una pena peraltro già così estrema. E addirittura il furore contro le parole del padre di Turetta di preoccupazione e conforto per il figlio, giudicate anch’esse lesive della memoria di Giulia (peraltro ignobilmente rubate all’intimità del rapporto padre-figlio). In parole povere, abbiamo assistito alla “mostrificazione” del femminicida Turetta, sulla scia del più canonico populismo penale.

A rigor di logica femminista, ci sarebbe una contraddizione. Il femminicidio è parte della cultura patriarcale, in un continuum di subordinazione della donna fino alla sopraffazione violenta e, all’estremo limite, alla sua uccisione. In questo senso, il femminicida non è un “mostro”, anzi incarna la “normalità” del Male dell’oppressione femminile: da combattere politicamente, verso il riequilibrio di potere fra i sessi. E tuttavia “mostro” lo diventa lo stesso, per la forza della logica del penale. Sia perché il penale deve identificare in maniera rigorosa il reato, con ciò marcando una linea netta fra legalità/normalità e illegalità come anormalità (da cui la tendenza intrinseca alla “mostrificazione” del criminale); sia perché il “femminismo punitivo” ci mette il suo carico, poiché vede nel femminicida il simbolo (odioso) della cultura patriarcale di violenza del maschio sulla femmina: ambedue da mettere al bando.

Sempre a rigore di logica femminista, il femminicida non può essere un “matto”, leggi un infermo di mente incapace di intendere e volere. Anzi, il femminicida capisce anche troppo bene la lezione del patriarcato, tanto da portarla all’estremo limite di esito mortale. E qui non c’è contraddizione alcuna, perché il femminicida raramente (se non mai) è presentato nelle vesti del “folle reo”. La ragione principale è che non si vuole che si sottragga alla punizione che si merita. Soprattutto, per un reato di cui si vuole sottolineare il più possibile la gravità non è tollerabile la negazione di responsabilità.

Si dimostra per questa via, se mai ce ne fosse bisogno, la fallacia e strumentalità della costruzione del “folle reo”, alla base del proscioglimento per “incapacità di intendere e volere”. Per ulteriore verifica dell’inconsistenza culturale e scientifica del “doppio binario”, consiglio di leggere le perizie psichiatriche dei “folli rei”. Ancora pochi anni fa, sulle perizie delle donne destinate all’OPG – e solo su quelle delle donne- si leggevano annotazioni sui loro costumi sessuali: giudicate evidentemente utili per il profilo psichiatrico. Vengono in mente i reparti femminili degli ospedali psichiatrici prima della loro chiusura, affollati di donne ivi rinchiuse come matte per il loro comportamento sessuale non in linea con la morale del tempo. Quel “doppio binario” è davvero un residuo del vecchio manicomio, e altrettanto maleodorante.

[1] T.Pitch (2019), Populismo penale e violenza di genere. Il protagonismo della vittima, in Il populismo penale e la violenza di genere, Atti del seminario promosso dal Coordinamento Contro la Violenza sulle Donne-CCVD, Torino, 21 novembre 2019

[2] Pitch, cit., p.31

Enrico Semprini

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