Pagine oscurate della storia italiana

L’emigrazione come “fatto politico totale” in conflitto con lo Stato

di Salvatore Palidda (*)

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Premessa

Il principale scopo di questo mio contributo è di cercare di mostrare come una parte importante delle migrazioni sia stata (ed è) un “fatto politico totale” 1 in conflitto con la formazione dello Stato-nazione, ma spesso è stata sfruttata o ha contribuito a questa stessa formazione.

Per convalidare questa tesi proporrò sia alcuni punti di riflessione teorica-metodologica, sia la descrizione di qualche dato empirico come suggerimento per la costruzione di un vero e proprio cantiere di ricerca di cui esistono già alcune componenti2 ma che va meglio definito, articolato e arricchito con l’apporto di storici (non-embedded) sicuramente più competenti di me.

1. Né patria, né nazione: migrazioni per la libertà e l’emancipazione

Tutte le migrazioni sono dovute alla sovrapposizione di molteplici cause e motivazioni, ma la ragione principale (consapevole o più spesso inconsapevole) è sempre l’aspirazione all’emancipazione, ossia il desiderio di trovare altrove quello che laddove si vive non si riesce a intravedere, cioè la libera possibilità di costruirsi un futuro soddisfacente. L’emancipazione può intesa come conquista di diritti e di libertà all’interno di un’azione collettiva universalistica (cioè nel senso dato nella storia del movimento operaio) ma anche come “riuscita” individuale (quando l’“etica del migrante si sposa con lo spirito del capitalismo”). Questo vale anche per le migrazioni provocate dalle persecuzioni (quelle dei rifugiati) mentre, ovviamente, vanno escluse qua le deportazioni o l’emigrazione forzata (secondo le stime più accreditate gli schiavi africani deportati nelle Americhe furono non meno di dodici milioni). E’ proprio questa possibilità che ogni tipo di potere ha sempre negato dall’antichità sino allo Stato moderno. Solo fra l’inizio dell’Ottocento e il 1930 si stima che gli europei partiti per le Americhe furono circa 60 milioni mentre i veri “nativi” delle Americhe erano circa tre milioni e mezzo3. Successivamente questa cifra s’è moltiplicata sino a far sì che oggi le Americhe contano poco meno di un miliardo di abitanti. Ma così come le Americhe furono la meta mitica per tanti owenisti, anarchici, socialisti e democratici che là pensavano di trovare spazi sterminati per tradurre in realtà le loro utopie, furono anche i luoghi in cui gran parte degli immigrati finì per interiorizzare ben altre aspirazioni e per praticare ben altre pratiche (fra le quali il genocidio degli indigeni e poi la formazione della prima potenza imperialista per eccellenza). In altre parole, l’emigrazione-immigrazione può portare sia a confluire nelle grandi esperienze di lotta per la democrazia effettiva, sia all’adozione dello “spirito” e dei comportamenti di dominio violento degli altri, a cominciare dalla gerarchizzazione che relega l’ultimo arrivato al rango dei quasi schiavi o nonpersone.

Come vedremo dopo, non furono e non sono solo i perseguitati a emigrare per sottrarsi alle angherie dei diversi poteri sempre legittimati dallo Stato, ma anche quei milioni di persone classificati solo come “emigranti per ragioni economiche”. Nel XIX secolo la loro adesione o semplice simpatia per gli anarchici o il movimento operaio nei Paesi di arrivo è assai significativa4 così come la loro “naturalizzazione” in questi Paesi pur di rompere definitivamente con una “madre patria” spesso megera se non criminale.

La storia sociale (che è eminentemente politica) degli Stati pre-unitari e poi dello Stato italiano è stata segnata da continue e rilevanti migrazioni interne e verso l’estero.

La retorica ufficiale italiana s’è sempre limitata e si limita a raccontare le storie edulcorate/agiografiche dei “santi, poeti, navigatori”, dei geni del Rinascimento e degli eroi del Risorgimento, poi della prima guerra mondiale e infine della Resistenza e del secondo dopoguerra. Con il centocinquantesimo anniversario dell’unità si continua a coltivare l’ignoranza sull’effettiva storia politica di quella parte della popolazione delle diverse regioni italiane che ovviamente non può essere contemplata nella storiografia ufficiale perché cercava di vivere per ben altro che l’epopea dello Stato-nazione e perché suo malgrado è stata asservita alla causa nazionale. La stessa polemica dei neo-meridionalisti o addirittura dei neo-borbonici o neo-localisti come dei “padani” di fatto serve a rafforzare la “verità” della storia ufficiale e a tenere nel buio totale la storia politica di chi non è stato mai né con lo Stato, né con la Chiesa, né con altri Stati, né con altre cause proposte dalle diverse elites. Come scriveva Hanna Arendt a Scholem per ribadire la sua indipendenza politica da ogni adesione o militanza per Israele5:

«… hai perfettamente ragione, non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività – né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo solo i miei amici, e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone. In secondo luogo, questo amore per gli ebrei mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. […] Ebbene, è in questo senso che io non amo gli ebrei, né credo in loro; sono semplicemente una di loro. Questo è un dato di fatto fuori discussione».

Interpretando lo “spirito” critico (spesso inconsapevole) che è insito nelle migrazioni come fatto politico totale, Abedlmalek Sayad assomiglia ad Hanna Arendt: non poteva essere populista, non sarebbe mai stato l’«intellettuale organico» né dei Kabyl, né dell’Algeria libera, tanto meno di un partito o di un’ideologia. Come un Foucault del colonialismo e delle migrazioni, tutta la sua opera s’è sviluppata nella costante analisi critica dell’esercizio del potere e di come il potere stesso viene assorbito dai corpi e dalle menti, attraverso la sua interiorizzazione da parte dei dominati. Il lavoratore immigrato è un “lavoratore coloniale”, un colonizzato, trasportato o incitato a venire nel Paese dominante, ma è anche “autocolonizzato”. Lo studio della migrazione era per lui un lavoro epistemologico critico sulle scienze sociali dominanti, sul pensiero di Stato e quindi sull’oggetto di ricerca e su se stesso. S’era quindi impegnato nel mostrare come la “scienza delle migrazioni” non poteva che essere una produzione di saperi utili al miglior sfruttamento delle migrazioni6.

Diversi sono gli esempi di emigrazione che conduce spesso a processi di spoliticizzazione, nuova politicizzazione o all’indifferenza, ma è importante ricordare che l’emigrazione è un fatto politico non solo quando si tratta di persone pubblicamente connotate come politici ma anche di quei milioni di persone che sono scappate per sottrarsi al dominio delle mafie, del supersfruttamento o neo-schiavitù, di padri-padroni, di ambienti asfissianti e di angherie di ogni sorta.

2. L’emigrazione: uno sciopero immenso, colossale

Per rintracciare informazioni sulla storia delle migrazioni occorre cercare non tanto nella storia di ogni singolo Stato pre-unitario ma in alcuni passaggi di qualche opera letteraria (o romanzi storici) e in particolare anche in qualche pezzo di storia delle vicende militari.

Sin dal Rinascimento le mobilità umane, in senso lato, ossia i pellegrinaggi, gli spostamenti continui di maestranze, il pendolariato, insomma le migrazioni o le norie (va-e-vieni periodici) diventano frequenti e intense. Al di là dei grandi viaggiatori, avventurieri, conquistatori, uomini d’armi e militari o mercenari, lo spostamento delle maestranze (artigiani, capicantiere, capisquadra, operai specializzati e persino manovali come gli armaioli, i gessini, i decoratori, i carpentieri, gli intarsiatori, i falegnami, i potatori, e poi i tecnici del vetro, i tipografi ecc) fu assai frequente. Lo straordinario successo delle città del Rinascimento italiano come le economie dei vari Stati pre-unitari e dopo dello Stato nazionale si sono sempre nutriti delle migrazioni. Allo stesso tempo tutti gli Stati hanno provocato emigrazione.

Un fatto storico da sempre travisato: la maggioranza degli emigrati siciliani partita verso ogni angolo della terra sino ai giorni nostri non è stata “spinta” da sole ragioni economiche ma, come mostrano tante accurate interviste, più spesso dall’exit7. E’ la fuga dall’oppressione dei power-brokers o delle “mafie”, la “renitenza alla leva” e la diserzione dalla coscrizione obbligatoria sin dall’unità d’Italia, la fuga dall’oppressione patriarcale o religiosa, la fuga dalla repressione delle lotte popolari, contadine o operaie, la perdita della speranza di poter cambiare la realtà, insomma l’aspirazione a un’emancipazione che appare impossibile nella società di origine.

Anche chi cerca di occultarne la natura politica finisce per riconoscere che l’emigrazione è stata (ed è) una “potente valvola di sicurezza contro gli odi di classe” …. «quale sciopero più compatto, più serio, più vittorioso dell’emigrazione» commenta Francesco Renda (1963/1989, p. 69) dopo aver citato Nitti, a proposito dell’emigrazione in Sicilia nel XIX secolo.8 «Al lavoratore italiano non si presentano che tre vie: rassegnarsi alla miseria [e, aggiungo, all’assoggettamento a un potere violento], ribellarsi [quando ancora si ha la possibilità e quindi la capacità di farlo] o emigrare» (vedi ibidem, p. 68). Allora appare chiaro che «… l’emigrazione funziona come uno sciopero immenso, colossale»9.

Gli emigrati sono ovviamente più propensi ad adattarsi e a sedentarizzarsi nei Paesi che per ragioni di sviluppo praticano una politica favorevole agli immigrati europei (cioè i Paesi dell’America del Sud e del Nord e poi l’Australia, ma prima anche le colonie e i protettorati francesi dell’Africa del Nord10). Gli interessi dei Paesi d’arrivo, degli stessi emigrati-immigrati e il contesto storico favoriscono la stabilizzazione all’estero degli italiani, in primo luogo perché il ritorno in un’Italia ancora povera non può essere allettante e poi perché i rientri – quando sono possibili – sono spesso fallimentari o comunque poco soddisfacenti: significa, notoriamente, ricominciare daccapo essendo diventati stranieri in un Paese che nel frattempo è cambiato!

A fuggire dall’Italia non sono solo pochi avventurieri, i cadetti delle famiglie benestanti alla ricerca di una nuova chance nella formazione delle classi dirigenti dei Paesi di arrivo. Emigrano gli anarchici e i socialisti perseguitati dai governi reazionari non solo al Nord ma anche in Sicilia e in Calabria11.

Il successo degli anarchici fra gli italiani negli Stati Uniti12 e in altri Paesi è rivelatore della corrispondenza d’intenti fra l’aspirazione all’emancipazione dell’emigrato e la proposta di lotta degli anarchici e poi dei socialisti o di organizzazioni sindacali internazionaliste13. Si tratta soprattutto di migliaia e migliaia di semplici lavoratori che hanno subìto la sconfitta delle lotte represse con la brutalità dell’esercito (si può dire sin dal massacro dei brontesi opera di Bixio o a seguito della carneficina di Bava Beccaris nel 1898 a Milano contro la popolazione in rivolta per la “protesta dello stomaco” – contro l’aumento del pane).

3. Renitenza, diserzione e emigrazione

Come mostrano tante ricerche storiche la renitenza e la diserzione, già con Napoleone e poi con lo Stato unitario, conducono spesso all’emigrazione. E’, di fatto, un vero e proprio rifiuto di massa contro l’ingabbiamento nella disciplina nazionale tanto osannata da De Amicis14. Al di là delle assurde aspettative degli eroi del Risorgimento e in particolare del generoso ma alquanto ignorante Garibaldi15, il sentimento d’appartenenza nazionale e la popolarità delle forze armate potevano aver credito solo in una minoranza della popolazione mentre prevaleva non solo l’indifferenza, la diffidenza ma soprattutto l’odio alimentato dalle continue brutalità militari garanti del dominio dei poteri tardo-feudali. La disciplina sociale e il sentimento d’appartenenza corrispondono semmai a ogni specifico segmento della società, cioè alla famiglia, alla parentela, alla parrocchia, al paesello, o all’organizzazione sindacale e politica. Questi segmenti, non sono “ambienti di ingabbiamento” propri a una sola logica, ma luoghi d’organizzazione della società locale le cui regole e rapporti di forza assicurano il dominio dell’attore più forte (in certi casi le mafie).

Sin dall’unità d’Italia (e prima già con Napoleone) la renitenza alla leva e la diserzione hanno una portata tanto rilevante che lo Stato post-unitario impiega importanti energie e la massima brutalità per reprimerlo16. I liguri scappano a piedi in Francia ma anche i siciliani scappano a volte con barchette di fortuna verso il nord Africa.

In quasi tutte le società locali esplodono periodicamente rivolte popolari sempre destinate alla sconfitta: è l’amara constatazione che è impossibile intravedere un futuro migliore laddove si è nati e cresciuti e che anzi se non si scappa si rischia il massacro. Dalla repressione dei Fasci Siciliani ai massacri delle lotte popolari in tutto il Paese, a ogni lotta segue un’ondata di partenze17. «La ribellione latente nelle campagne siciliane, avide d’azione più che di schiavismo, prese la forma attiva dell’emigrazione» scrive il leader socialista De Felice Giuffrida nel 1907, mentre Colajanni osserva che «numerosi capilega siciliani dopo aver combattuto invano tante lotte erano stati sopraffatti dalla psicosi migratoria»18, anche per evitare – aggiungo l’assai probabile assassinio da parte dei mafiosi che a più riprese faranno strage di sindacalisti e persino di “preti sociali”, poi odiati anche dai fascisti.19

Migliaia sono i renitenti alla leva e i disertori che in tempo di pace e ancor più in tempo di guerra emigrano piuttosto che rischiare la vita per una patria che non è certo la mamma del “matriottismo” propagandato da De Amicis,20 quanto piuttosto la “megera” che spara sulla folla che chiede pane e giustizia.

Un esempio fra i più clamorosi e più ignorati anche da quasi tutti gli storici italiani e francesi delle migrazioni (ma non da Del Negro, 1979; Rochat, Massobrio, 1978): in occasione della prima guerra mondiale un milione e centomila renitenti o disertori furono condannati dai tribunali militari italiani; la polizia e i carabinieri seppero che erano quasi tutti fuggiti all’estero a piedi o con ogni mezzo di trasporto (e questo lascia immaginare quanto potessero tenere alla “madrepatria”)21. La ribellione contro la carneficina che diventò la prima guerra mondiale (ma poi anche contro la seconda) si tradusse in renitenza, diserzione e ammutinamenti. I dati sulle condanne dei tribunali militari sono sicuramente inferiori a quelli delle denunce e delle archiviazioni soprattutto quando si trattava di emigrati di cui s’erano perse le tracce. E questo vale anche per la seconda guerra mondiale quando ufficialmente vi furono 870 mila denunce per reati militari, di cui oltre la metà per renitenza alla leva. Dei 470 mila renitenti condannati per la prima guerra mondiale, trecentosettantamila erano emigrati che non rientrarono. I disertori della guerra 1915-18 furono così numerosi che fu necessaria un’amnistia, promulgata nel 1919 dal presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti.

È il fascismo che, a modo suo, cerca di imbastire un’azione forte esaltando con la sua demagogia l’orgoglio di essere italiani e l’appartenenza nazionale, attraverso “le case del fascio” anche all’estero, come appendici dei consolati e assorbendo le missioni cattoliche.22 La parola emigrazione viene abolita: si deve parlare solo di “italiani all’estero” che ora non sarebbero più andati fuori dalle patrie frontiere a umiliarsi a servire padroni stranieri ma a colonizzare e dominare come fecero i Romani. Il colonialismo militare fascista è ovviamente antitetico all’emigrazione di massa e propone miraggi che si tradurranno nella tragedia di migliaia di famiglie italiane portate in Somalia, in Etiopia, in Libia.

In alcune zone di immigrazione la politica fascista ha un certo successo: è la prima volta che il governo italiano si ricorda dei suoi cittadini all’estero e dà loro la possibilità di non vergognarsi delle origini. Ma la maggioranza degli italiani andati all’estero dopo l’arrivo al potere di Mussolini – e non solo militanti antifascisti dichiarati sono scappati proprio a causa delle angherie di padroni e autorità (anche religiose) accentuate dal fascismo. Non mancano gli episodi di guerra e regolamento di conti fra fascisti e antifascisti italiani rifugiati all’estero (fra altri, vedi l’assassinio dei fratelli Rosselli e del prete fascista Cavaradossi in Francia) (cfr. Palidda, 2008).

Lo sfacelo del colonialismo italiano e del fascismo conduce a un nuovo periodo di forte emigrazione apertamente incitata dai governi del secondo dopoguerra (resta celebre la frase di De Gasperi: «imparate una lingua e andate all’estero»). Infine, l’Italia diventò una delle prime otto potenze economiche mondiali grazie alla grande mobilità e allo sfruttamento dei “terroni del nord e del sud” e oggi mantiene questo rango praticando lo stesso trattamento, se non peggio, nei confronti degli immigrati stranieri con beneficio anche di buona parte dei cittadini più o meno abbienti.

4. L’ambiguo discorso sull’identità

I periodi di esasperazione del nazionalismo hanno ovviamente oscurato e negato ogni spazio all’espressione e alle esperienze politiche non solo antinazionaliste ma a-nazionaliste, ossia “altre” rispetto a ogni ingabbiamento nelle logiche imposte o influenzate sin dalla nascita dello Stato moderno (compresa l’identità meccanicamente collegata all’appartenenza a un partito o una qualsiasi organizzazione o un “popolo”). Paradosso apparente, nell’attuale periodo della cosiddetta globalizzazione del liberismo e del parziale declino dello Stato-nazione, si assiste a una sorta di revival del nazionalismo che nel caso italiano appare sovente assai grottesco (non solo quando esaltato da “postfascisti” ma anche dal neo-nazionalismo di intellettuali, politici e autorità di sinistra). L’opinione dominante, o la doxa, di fatto impone che non sia ammissibile la libertà di non appartenere ad alcuna nazione, la non-cittadinanza o la cittadinanza universale.

Come suggerisce Dal Lago (2006, pp. 45-80):

«L’inquietudine che gli immigrati [aggiungo, ancor di più i nomadi] generano (cioè la presunta minaccia che creerebbero tra chi li “ospita”) nasce anche dal fatto che i migranti sono soggetti de-territorializzati e parzialmente de-culturati23; di fatto essi mostrano che “si può vivere altrove e senza il Paese d’origine, insomma dimostrano che il territorio e la cultura non sono indispensabili all’esistenza. È anche questo che spinge alcuni benpensanti della società d’immigrazione ad etichettarli come pezzi della loro cultura e non semplicemente come individui attivi e mobili. Interpretando gli stranieri come ‘culture’, la nostra società pensa di conoscerli e si sente rassicurata perché ha paura della loro fluidità e della loro mobilità, non della loro estraneità culturale, soprattutto se minoritaria e recintata. In realtà, il migrante minaccia la pretesa che una cultura coincida con un territorio, non è rappresentativo della sua presunta cultura originaria, ma un individuo che ha messo in atto un assemblaggio di culture diverse, insomma un ibrido, un ‘meticciamento’. Il migrante suscita sospetto, paura e ostilità, perché, che lo voglia o no, è un veicolo di ibridazione” [secondo Sayad, atopos]».

L’etichettamento dei migranti in base alle loro origini o al giudizio superficiale sui loro comportamenti e sui loro discorsi, è un tipico atto di “nominazione autoritaria” e si traduce nelle imposture sulle identità, cioè nella negazione della possibilità di esprimersi liberamente, costringendo i migranti a collocarsi nelle categorie che la società d’immigrazione impone. È però assai interessante osservare come i migranti possono “giocare” (nel senso goffmaniano) fra i diversi riferimenti culturali e le appartenenze, ad esempio quando tornano nella società di origine, quando si ritrovano con i “compaesani”, oppure nelle diverse occasioni di socializzazione con persone della società di immigrazione (cfr. Palidda, 2008).

«Da dove vieni?», «Di che nazionalità sei?»: queste sono le domande che abitualmente qualunque straniero si sente rivolgere a prova che l’interiorizzazione dell’inquadramento nello Stato-nazione è assolutamente dominante, pervasiva e universale. Come mostra anche la storia della polizia, l’imposizione dell’identificazione, che nasce appunto con lo Stato moderno, è la prima e più micidiale negazione della libertà24.

(*) Questo testo è stato pubblicato nel 2012 sul numero 28 della bella rivista «Zapruder» (edita da Odradek) dedicato a «Migrazione e identità nazionale italiana». L’immagine si riferisce invece alla copertina dell’ultimo numero; se non sapete chi fosse Zapruder… è ora che lo scopriate. (db)

1 Questa accezione di “fatto politico totale” si rifà a M. Mauss e per le migrazioni a Abdelmalek Sayad (citati in Palidda, Mobilità umane, 2008) ed è formulata nella mia introduzione di Il discorso ambiguo sulle migrazioni, 2010.

2 Alludo innanzitutto alla storia dei renitenti e disertori scappati all’estero e spesso mai più rientrati, alla storia degli anarchici e altri emigrati per ragioni politiche fra i quali anche tanti classificati come emigrati “economici” ma in realtà scappati per sottrarsi al dominio mafioso o in genere alle angherie dei poteri locali protetti dallo stato. Su queste “pagine” di storia politica (e non solo “sociale”) le ricerche degli storici dell’emigrazione e dell’immigrazione (nei vari paesi) è assai lacunosa se non inesistente; per esempio in Francia, proprio perché è sempre prevalso un orientamento assimilazionista, che cioè dava per scontato che chi è rimasto s’è assimilato a forza o volontariamente (il che è vero ma ciò non toglie che molti sono arrivati là con ben altri intenti). E’ invece ricchissimo l’archivio di saggi online sull’emigrazione italiana, vedi sito: www-asei.eu, (merito dell’enorme stakanovismo di Matteo Sanfilippo).

3 Schino F. (1988) (a cura di) Cultura nazionale, culture regionali, comunità italiane all’estero, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da G. Treccani, Roma. Ricordiamo che su circa 900 milioni di abitanti di tutte le Americhe i veri discendenti dai “nativi” sono stimati a circa tre milioni e mezzo ovviamente a causa del genocidio di cui sono state vittime per opera del colonialismo europeo.

4 Una bellissima pagina di storia politica dell’immigrazione in Francia è quella del sindacato internazionalista fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo soprattutto nella zona di Marsiglia. A smacco del razzismo del socialista Jules Guesde che inveiva contro gli immigrati italiani in Francia con frasi come: “Ces sarazins qui viennent voler meme le travail à nos citoyens”, i lavoratori immigrati (in maggioranza italiani) crearono il Sindacato Internazionalista che ebbe un grande ma purtroppo effimero successo. Questa esperienza può essere considerata l’unica importante esperienza politica in cui gli immigrati siano effettivamente riusciti a esprimersi in piena autonomia rispetto al paese d’origine e a quello di immigrazione, ossia al di fuori delle appartenenze obbligate scelte per loro dalla logica dello stato-nazione. La sua breve durata, infatti, conferma che tale espressione era ovviamente osteggiata da tutti (e non solo nella Francia dello sciovinismo dominante a destra e a sinistra). Come annotava la polizia francese, questi immigrati non avevano alcuna intenzione di tornare in Italia (nella “malvagia” madrepatria dopo le persecuzioni, la galera e il piombo di Bava Beccaris e di Crispi). Vedi P. Milza (1978), L’intégration des Italiens dans le mouvement ouvrier français à la fin du XIXe et au début du XXe siècle; le cas de la région marseillaise, in J.B. Duroselle, E. Serra, (a cura di) (1978) L’immigrazione italiana in Francia prima del 1914, Angeli, Milano, pp. 171-207 (purtroppo successivamente questo autore ha scritto delle opere assai discutibili). Con il fascismo e dopo gli italiani assimilati nei ranghi prima della resistenza e poi del PCF e della CGT sono costretti a francesizzarsi e nascondere la loro origine al punto che il famoso sindaco comunista di Saint Etienne, Joseph Sanguedolce, di origine siciliana, teneva clandestinamente assemblee dei minatori siciliani parlando in dialetto siciliano perché se si fosse saputo la canea degli sciovinisti francesi (di sinistra e di destra) l’avrebbero bandito dalla città. Vedi http://www.dailymotion.com/video/xfdynv_portrait-de-joseph-sanguedolce-maire-de-saint-etienne_news; cenni biografici : http://fr.wikipedia.org/wiki/Joseph_Sanguedolce (era nato a Sommatino – CL) nel 1919 e aveva cominciato a lavorare in miniera in Francia a 12 anni. Emblematico: nella sua biografia francese non c’è nulla sulla sua opera a favore dell’emancipazione dei siciliani di Saint Etienne! E gli hanno francesizzato anche il nome (Joseph) come peraltro fecero con tutti partigiani italiani e di altre nazionalità che furono maggioranza nella resistenza antinazista in Francia (Sanguedolce era stato deportato, scappato era stato capo partigiano e nel dopoguerra sindacalista e poi sindaco amatissimo).

5 Vedi Ebraismo e modernità, Eichmann a Gerusalemme. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 215-228; Scholem scrive ad Arendt di “non amare il suo popolo” (Gerusalemme, 23 giugno 1963, p. 216-217. Vedi anche l’introduzione di Dal Lago a H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, 1987

6 I principali scritti di Sayad sono riuniti in A. Sayad (1991), L’immigration ou les paradoxes de l’alterité, Editions Universitaires et De Boeck, Bruxelles e Id. (1999), La double absence. Des illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré, Seuil, Paris, trad. it. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, 2002. Vedi anche Id. (2003) Algeria: nazionalismo senza nazione, Mesogea, Messina

7 Il termine hirschmaniano di exit (A.O. Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1970) è applicato alle migrazioni da diversi autori; in realtà, anche se non formulato allo tesso modo, è ben presente in varie ricerche a carattere storico e sociologico. Vedi anche Del Negro (1979); G. Rochat e G. Massobrio (1978); Palidda (1986, 1992). Era anche questo che Banfield non capiva accusando i siciliani di “familismo amorale” come ripiego alla scarsa partecipazione politica che, come si vede ancora oggi, è spesso subalterna alla mafia; vedi Banfield (ed. orig. 1958; tr. it.: 1961, con commenti di vari autori: 1976).

8 Lo ricorda Brancato riferendosi a Raja, Nitti e gli altri celebri meridionalisti (Villari, Colajanni, Salvemini e Fortunato); vedi F. Brancato (1995), L’emigrazione siciliana negli ultimi cento anni, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, p. 33

9 Enrico Ciccotti che in La Voce, 11/1911, citato da F. Renda, (1963) L’emigrazione in Sicilia 1652-1961, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore (nuova ed. 1993, p.65).

10 si veda il ricco sito http://www.italianiditunisia.com/frm-main.php . Ivi si trovano non solo brevi biografie di alcuni personaggi famosi, ma anche di straordinari scrittori e poeti del tutto ignoti in Italia ma veri e propri écrivans maudits del mondo letterario francese. Si veda anche il saggio di S. Finzi, Dal simile allo stesso: fatti e commenti sugli sbarchi d’italiani in Tunisia all’inizio del XX secolo, in Il discorso ambiguo sulle migrazioni, Mesogea, 2010, pp. 87-98

11 Uno dei tratti razzisti –spesso assai poco palese- insiti anche nella storiografia “di sinistra” consiste nell’ignorare che il movimento operaio non nasce e si sviluppa solo al nord ma anche e persino prima in Sicilia e in Calabria.

12 Mi sembra degno di grande stima Pane amaro, il film documentario di Gianfranco Norelli non solo perché riprende immagini d’epoca di straordinaria forza e originalità, ma perché è l’unico che mostra il successo stupefacente degli anarchici italiani negli Stati Uniti (aspetto ignorato nel documentario Emigranti di Olla che riprende molte delle stesse immagini e filmati archiviati dall’Istituto Luce (ambedue i documentari possono essere visti su youtube in più pezzi).

13 Sugli anarchici si veda il Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani (DBAI) a cura di M. Antonioli, G.P. Berti, S. Fedele e P. Iuso, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2003, vol. 1. Sugli anarchici calabresi vedi Oscar Greco, Da emigranti a ribelli, “Rivista Anarchica”, 34/297, marzo 2004, http://anarca-bolo.ch/a-rivista/297/54.htm; sugli anarchici in Brasile Felici Isabelle, L’immigrazione italiana a Sao Paolo attraverso la stampa anarchica (1890-1920), in Atti del convegno Lavoratori e Sindacato nell’emigrazione italiana in America Latina 1870-1970, Brescia, 1992; Gattai Zélia, Anarquistas, graças a Deus/Anarchici grazie a Dio!, Rio de Janeiro, Record, 1979/Frassinelli, 1983/Paris, Stock, 1982; Zane Marcello, Anarchia e nostalgia. La diaspora degli anarchici italiani in Brasile 1890-1907, in La riscoperta delle Americhe, Atti del convegno Brescia 25-27/11/1992, Milano, Teti, 1994. Ugo D’Errico, “Criminalità organizzata e politica in Calabria fra XIX e XX secolo”, tesi di laurea, relatore P. Bevilacqua, corr. A. Simonicca, Un. “La Sapienza”, Facoltà di Lettere e Filosofia – Corso di Laurea in Lettere, Cattedra di Storia Contemporanea, 2007

14 Vedi il bel saggio di Piero Del Negro, «De Amicis versus Tarchetti. Letteratura e militari al tramonto del Risorgimento», in Esercito, stato, società, Bologna, Cappelli, 1979. p.127-166. Il matriottismo di De Amicis (in L’Italia Militare, 1867 e nel 1868 in Nuova Antologia, furono editi nel volume da Treves nel 1868 e da Le Monnier nel 1869; l’edizione definitiva fu pubblicata da Treves nel 1880) consiste nell’omologia tra società militarizzata e società civile: nella società civile c’è la casa, la famiglia e la madre; nella società militarizzata si ha l’Italia (la grande casa), l’esercito (la grande famigli), la patria (la madre di tutti) e sullo sfondo la fede in Dio (col fascismo «Dio, Patria, Famiglia»). L’obiettivo di De Amicis è di contrastare la propaganda antimilitarista facendo ricorso ai « valori sicuri largamente condivisibili anche dai cattolici ostili allo stato unitario. Per De Amicis il vero popolo è quello inquadrato nell’esercito e collabora mentre i renitenti, i disertori, gli emigrati sono traditori e le folle sono manipolate da sovversivi che aggrediscono o uccidono i bravi soldati veri e sacrosanti figli della patria ; solo questi e chi ne condivide e pratica i «valori» fanno parte del popolo (o, si direbbe oggi, meritano i diritti di cittadinanza). Chi non è pronto a morire per la patria è un figlio degenere o peggio un nemico (interno).

15 Ricordiamo che nel suo discorso al Parlamento l’eroe dei due mondi proponeva di riprendere subito la guerra per completare l’unificazione nazionale quando le finanze del paese erano catastrofiche e soprattutto la renitenza alla leva assai diffusa mentre l’esercito veniva impiegato per imporre brutalmente le nuove regole del nuovo stato, In effetti, gli eroi del Risorgimento erano sovente persone che non conoscevano gran che della realtà economica, sociale e culturale e quindi politica delle diverse società locali avendo vissuto spesso all’estero.

16 Ancora oggi nel suo sito l’Arma dei Carabinieri (“nei secoli fedele” …) ricorda e difende l’opera del generale piemontese Govone, già noto carnefice dei genovesi nel 1849, che contro i “malviventi” e per catturare renitenti e disertori in Sicilia utilizzò colonne mobili rastrellando le campagne, circondando e isolando interi centri abitati, togliendo l’erogazione dell’acqua e passando poi alle perquisizioni casa per casa. In poco tempo nelle province occidentali dell’isola catturò circa 4000 renitenti e arrestò circa 1350 “malviventi”. Il sito dei CC è: http://www.inilossum.com/carabinieri9.html. A questa pagina si cita anche quell’Edmondo De Amicis che contribuisce a criminalizzare le popolazioni meridionali scrivendo: “Era l’estate dell’anno 1861, quando la fama delle imprese brigantesche correva l’Europa; quei giorni memorabili in cui il Pietropaolo portava in tasca il mento di un ‘liberale’ con il pizzo alla napoleonica ( …), quando a Viesti si mangiavano le carni dei contadini renitenti agli ordini dei loro spogliatori; ( … ) quando s’incendiavano messi, si atterravano case, si catturavan famiglie, s’impiccava, si scorticava e si squartava”. Sul Giuseppe GOVONE, si veda di Piero Crociani, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 58 (Treccani, 2002) http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-govone_%28Dizionario-Biografico%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-govone_%28Dizionario-Biografico%29/

17 Fra le tante biografie di emigranti per l’emancipazione si veda quella di Augusto Vuattolo, organizzatore friulano degli operai edili in Svizzera e dell’ospitalità di centinaia di renitenti italiani; sin dalle sue prime azioni militanti in Italia viene arrestato e perseguitato e quindi scappa in Svizzera; vedi http://www.storiastoriepn.it/blog/?p=8835 .

18 Vedi F. Renda, (1993), op. cit. p.65 e 66

19 Oltre a Renda e Brancato, già citati, si veda di Montalbano, Le pecore e il pastore, Sellerio, Palermo

20 Si veda il divertente saggio su De Amicis versus Tarchetti di Del Negro (1979).

21 P. Del Negro (1979) Esercito, Stato, Società, Cappelli, Bologna; G. Rochat e G. Massobrio (1978), Breve storia dell’Esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, Torino. I dati pubblicati da Del Negro corrispondono a quelli citati da Sergio Albesano del Centro Studi Sereno Regis secondo cui furono celebrati 470.000 processi per renitenza e oltre un milione per diserzione e per altri gravi reati (procurata infermità, disobbedienza aggravata, ammutinamento); vedi: http://serenoregis.org/2011/01/il-coraggio-di-dire-no-%E2%80%93-sergio-albesano/. Ma per capire quanto vasta e di massa sia stata l’opposizione alla guerra va ricordata anche la carneficina “supplementare” ossia la fucilazione sul campo di migliaia di soldati “al primno cenno di diserzione” per stroncare quello che il famigerato Cadorna definì “sciopero militare” (uso il termine famigerato che è quello che usava mio padre prigioniero degli autsriaci dopo la disfatta di Caporetto dove i soldati italiani finirono sotto fuoco incrociato proprio perché ufficiali italiani se la diedero a gambe. Fra altri, si veda anche il caso specifico umbro: G.B. Furiozzi, La provincia dell’Umbria dal 1861 al 1870, Provincia di Perugia editore

22 Si vedano vari contributi sul sito www.asei.eu

23 La presunta cultura degli immigrati spesso non è altro che un insieme di frammenti della cultura della società locale di origine (quindi folclorica) e non la cultura ufficiale o “colta” del paese d’origine. Questi frammenti finiscono per mescolarsi, in modo adeguato o inadeguato, con gli elementi acquisiti nella società di immigrazione in un processo di ibridizzazione culturale (Palidda 2008); Vedi anche contributo di W. Baroni in Il discorso ambiguo sulle migrazioni, 2010.

24 Ricordiamo che è lo stato moderno che prescrive l’obbligo di denunciare all’anagrafe la nascita di un essere umano e quindi la sua nominazione (pena sanzioni). E’ soprattutto con lo sviluppo delle città che si instaura la nominazione di tutte le strade e la numerazione delle case e la schedatura di tutte le persone (sulla storia della polizia vedi Foucault Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976; Id. (2004), Sécurité, Territoire, Population, Cours au Collège de France 1977-1978, Hautes Etudes-Gallimard-Seuil, Parigi (Feltrinelli 2005). Palidda, Polizia postmoderna, Feltrinelli, 2000.

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