Se narrassimo il mondo sottosopra

Generatività e massmedia: fra notizie sparate e notizie sparite, all’ombra delle «4 S» ma attenti ai venticelli. Di certo né apocalittici né integrati semmai pessottimist*.

    di Daniele Barbieri (Q1) e Valentina Bazzarin (Q2) per la rivista «Cem mondialità»

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Cacca di cani. Sembrerà strano per la «generatività» (forse un po’ meno per l’altro polo del discorso che ruota sui massmedia) ma questo dossier inizia con una piccola storia sulla cacca canina. D’altronde il tema è importante: si ricorderà che nella campagna elettorale del 1999 quando la sinistra perse Bologna (ma forse Bologna aveva già perso la sinistra, come scrisse Rudi Ghedini su «Le Monde Diplomatique») i due principali candidati – Silvia Bartolini e Giorgio Guazzaloca che poi vinse – si scontrarono in molti dibattiti proprio sulla questione delle feci canine. Il vincitore non disse, con una sintesi alla Giulio Cesare, «veni, vidi, feci» ma forse, visto il contesto, avrebbe potuto.

Ed ecco la piccola storia di cacca canina di recente accaduta a Q1.

Mi trovo a parlare con BF delle persone dotate di scarso civismo. Il mio interlocutore è pessimista. Io meno. Gli cito i grandi risultati della raccolta differenziata e poi racconto… «Sai cosa vedo spesso camminando qui in via Appia a Imola? C’è un tipo, alto con i capelli lunghi, che è cieco, forse lo conosci anche tu. A ogni modo, lui logicamente gira con il cane-guida e quello che mi impressiona è che quando il cane fa la cacca lui tira fuori di tasca guanto e sacchettino per pulire. E io penso: fa una fatica doppia, nessuno gli obietterebbe eppure… Un bel segnale di civiltà della convivenza». Secca la risposta di BF che quasi non mi lascia finire: «è sicuramente uno dei tanti falsi ciechi, imbroglioni di cui l’Italia è piena». So che non è così. Però mi colpisce la “sicurezza” di BF.

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Allora comincio – e poi cominciamo noi due, discutendo sul dossier – a ragionare su molti episodi analoghi in cui narrando, scrivendo, bloggando si incontrano persone che facilmente credono (ascoltandole dai media o dalle narrazioni personali) a ogni sorta di infamia ma sono assai scettiche rispetto alle storie “positive”.

Non ne vogliamo – noi due che appunto curiamo questo dossier – ricavare una generalizzazione o addirittura una teoria ma certo si incontrano tante persone che sembrano non credere vere le buone notizie. Perché? Uno dei motivi (non l’unico, ovviamente) è nella costruzione del mondo che ci propone anzi ci “impone” la stragrande maggioranza dei massmedia con la sua potenza e martellamento: paura e impotenza sono due pilastri di questa più che quotidiana narrazione. Basta pensare alle continue invasioni degli extracomunitari in Italia: finora non ci sono state ma se i giornalisti hanno rombato così… alla fine sembravano vere.

Nelle redazioni insegnano che per le “buone” notizie bisogna aspettare; si danno se resta uno spazio (quasi mai). Per le “cattive” c’è urgenza, avanti c’è posto. Così le seconde risultano sparate e le prime sparite. Il gioco di parole è vecchio ma verissimo. In qualche modo funziona come la vignetta di Mafalda che trovate qui accanto: rileggetela sostituendo alla parola “giornali” un più vasto “massmedia” – dunque tv, Internet eccetera – e tutto torna. Allora ha ragione la sorellina di Mafalda? L’informazione non esiste … o non esiste più?

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Per carattere e per ragionamento noi due non rientriamo nelle categorie – opposte ma in realtà complementari – degli «apocalittici» e degli «integrati». Non siamo pessimisti e neppure scioccamente – visti i tempi, in effetti – ottimist* (NOTA 1). Rubando la definizione al romanzo dello scrittore palestinese Emil Habibi ci potremmo definire «pessottimist*». Perciò non saremo così drastic* e soprattutto così definitiv* come la sorellina di Mafalda.

«Le 4 s» del giornalismo più deteriore erano soldi, sangue, sesso e sport; ma qualcuno aggiungeva santità e diventavano 5. Ci sono da sempre le 4 – oppure 5 – “brutte” S ma prima non occupavano l’intera scena delle notizie, degli approfondimenti, dei commenti. C’erano comunque anche informazioni guidate da una D, 2 L e 2 G (tanto per esemplificare: diritti, lavoro, libertà, giustizia, generosità). Ora invece la scena appare monopolizzata da quelle 5 S, con il contorno della sesta S – più o meno occulta – cioè lo spot.

Al centro tantissima l’aria fritta, mascherata da informazione. C’è bisogno di fare esempi o chi sta leggendo capisce benissimo?

Per gli spot non espliciti vale forse spiegarsi meglio. Ed ecco un’altra piccola storia ripresa dal blog di Q1 e altr* cioè www.labottegadelbarbieri.org.

Un’amica mi consiglia di leggere «Kivu, il paese delle ceneri» di Michele Farina (con le foto di Colin Delfosse) su «Io donna», supplemento – ops “magazine” – del «Corriere della sera». E’ bene chiarire subito che il Kivu è una parte del Congo, cioè della Repubblica Democratica del Congo (Congo–Kinshasa, già Congo Belga, poi Congo-Léopoldville e Zaire). Lo conosco un po’ per letture, amicizie e per esserci stato due volte con «Beati i costruttori di pace».

Acconsento a leggere l’articolo ponendo una condizione, che prima la mia amica conti con me quante pubblicità ci sono su questo numero di «Io donna»: su 214 pagine, copertina compresa, 101 sono pubblicità esplicita, poi ne troviamo altre 25 più o meno mascherate e magari qualcun’altra è così ben camuffata che ci vorrebbe un esame più smaliziato per capire chi è il “persuasore occulto”. A pagina 67, proprio alla fine dell’articolo sul Kivu, un profumo – ops “eau de toilette” – invita a tirare una linguetta e odorare. Mi torna in mente una frase di Nietzsche: «Ancora un secolo di giornali e tutte le parole puzzeranno»: la trovate in «Frammenti postumi» del 1882-1884. Contando, anche con le dita, noterete che i 100 anni sono passati, infatti le parole puzzano assai e non c’è profumo (ops: eau de toilette) che le renda meno schifose.

In quella piccola storia di «Io donna» la buona notizia c’era: ed era «la voglia di qualcosa di buono. In un posto (il Kivu) dove i segni della violenza, come la presenza di uomini in armi, sono fusi nel paesaggio». A rendere poco sensato il tutto le omissioni. E gli spot tutt’intorno.

Date anche noi due le “cattive notizie” in testa… proviamo a ragionare sul legame fra questa situazione e la generatività. Vedremo che le “buone” ci sono… eccome e che cercarle, trovarle, raccontarle è importante. Ma difficile. Se ci trovassimo nella situazione finale del romanzo «Fahrenheit 451» di Ray Bradbury dove i libri vengono bruciati saremmo costrett* anche noi due a conservare la memoria di quei testi in piccoli gruppi, nelle riserve “indiane” (o bisogna dire ghetti?). Non siamo in una situazione analoga, le notizie scomode non vengono bruciate ma “sepolte vive”: dentro e fuori le “riserve indiane” chi non accetta la narrazione dominante deve allora disseppellire le buone notizie e le buone pratiche per raccontarle.

Se per «generatività» si intende – questo il filo conduttore dell’annata «Cem» nel quale ci riconosciamo – che «non ci è concesso lasciare il mondo così com’è» ci pare che questo dossier debba in primo luogo prendere atto che il mondo oggi è piuttosto schifoso (VEDI BOX DUE) e anche dove formalmente esiste una democrazia sempre più chi si oppone viene spinto nelle suddette “riserve indiane”. Eppure non bisogna cadere nella disperazione. Rifacciamo nostra l’idea espressa in «Le città invisibili» da Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Le indicazioni di «Cem» per questa “annata” suggeriscono di evitare «due atteggiamenti e due tentazioni: adeguarsi al clima imperante trasformandoci in complici apatici della dissoluzione, oppure ripiegarsi in una dimensione elitaria privata, rinunciando alla partecipazione e alla condivisione». Perciò dare spazio a quel “che inferno non è” significa anche puntare il più possibile a suggerire di cercare (e nei limiti di questo spazio raccontare) chi e cosa nell’informazione – 0.1 oppure 0.2 che sia – assume atteggiamenti di responsabilità, di critica e di proposta senza cadere nei due abissi “infernalissimi” degli apocalittici e degli integrati che di per sé escludono ogni seria rivoluzione, riformismo vero, partecipazione. «Nessuno lo farà al posto tuo» è il titolo di un «piccolo ideario di resistenza quotidiana» scritto (due anni fa per Emi) da Marco Boschini, animatore della rete dei «Comuni virtuosi». Dateci un’occhiata; meglio ancora: tenetelo in tasca. Parafrasandone il titolo, diremo che quella “buona” notizia di cui andiamo in cerca «nessuno la racconterà (o ne controllerà la veridicità, o andrà alle fonti, o lo smonterà) al posto tuo», al posto nostro. Cercare dunque chi lo fa (farlo noi, quando è possibile) è il primo passo. E naturalmente sostenere chi già lo sta facendo. Qualche piccolissimo esempio di persone-luoghi poco visibili ma secondo noi molto utili? A esempio Paolo Attivissimo (NOTA 2), il sito di Comune Info (NOTA 3), con tutti i loro limiti anche Radiotre o certa Raitre (NOTA 4), il blog Lunanuvola (NOTA 5), il prezioso lavoro di Peacelink (NOTA 6), i pochi giornalisti in cooperativa (NOTA 7). Ah, su certi temi anche la rivista «Cem mondialità», forse ne avete sentito parlare.

Occorre imparare ad allungare l’occhio e a prestare orecchio (e poi, passando per la stretta via della bocca e del cervello, trasformarsi in megafono come nelle scimmiette positive qui accanto) per esempio a tutti i luoghi dove la «cittadinanza attiva» sfrutta le aperture legislative sulla trasparenza, sull’anti-corruzione o sull’accesso ai dati per farne informazione e controinformazione, proponendo narrazioni – meglio se collettive – che si inseriscano nel discorso dei social media proponendo punti di vista diversi. Secondo i Wu Ming infatti raccontare è un verbo che si coniuga al plurale (NOTA 8) come vedremo più avanti. In parallelo ai Wu Ming scorrono le «Storie e Notizie» (NOTA 9) di Alessandro Ghebreigziabiher, scrittore e attore, che ha iniziato a muovere i primi passi a fine 2008: racconti e video basati su reali news prelevate dai maggiori quotidiani e agenzie di stampa on line, con questo motto: «Se le notizie sono spesso false, non ci restano che le storie». L’obiettivo è riuscire a narrare le news ufficiali in maniera a volte fantasiosa, per avvicinare la realtà dei fatti più delle cosiddette autorevoli fonti di informazione. La finzione che superi la verità acclarata nella corsa verso la comprensione delle cose è sempre stata un’ossessione di Alessandro Ghebreigziabiher. Notevolissimi i risultati, secondo Q1.

Ed eccoci dunque a un passaggio che Q2 propone di intitolare «L’ottimismo nella controinformazione collaborativa per resistere alle narrazioni tossiche dei mass media».

I dispositivi che determinano gli assetti dell’organizzazione del potere di informazione e di narrazione sui quali qui ci vogliamo soffermare sono due: i canali attraverso cui si comunica e il tono con il quale si esprime il messaggio che può essere catalizzatore di sentimenti diversi, ma che nei media mainstream viene tendenzialmente appiattito sui due poli della scala: generando nuove paure o ansie negli apocalittici oppure indifferenza e autoreferenzialità negli integrati. Invece bisogna ambire a scatenare l’indignazione, non superficiale (e a volte forcaiola) che conferma gli stereotipi e sollecita alla chiusura ma quella che nasce dalle poche opportunità di stupore legate a una buona notizia e/o al “mondo mostrato sottosopra”: passa dalla pancia (ekkediavolo, mica c’è solo la “pancia leghista”) come la rabbia ma lascia un sapore dolce sulle labbra e brividi dalle parti del cuoricino, permette di guardare al futuro e attorno a noi con timida speranza. Ci riferiamo al genere di notizie che di solito non danno ai tg e non si trovano facilmente altrove, magari nemmeno su internet. E come nel caso iniziale del “cieco che raccoglie cacca” (a ripensarci bene è una metafora che si presta a molti usi) la piccola e/o grande buona notizia può arrivare attraverso un racconto – una telefonata o anche una mail – personale oppure occhi e orecchie curios* possono coglierla fra le righe (nelle crepe?) dei racconti, delle conversazioni fatte o colte al volo. C’è una «militanza conversativa e narrativa» sui bus, al mercato, nelle file che è importante quanto andare ai cortei. Si sa: spesso ci vuole un ottimismo della volontà per resistere al pessimismo della ragione. Soffermiamoci su due esempi di contro-informazione e di racconto collettivo. A uno di questi due esempi io-Q2 partecipo direttamente, l’altro lo seguo attraverso twitter e internet con curiosità e attenzione.

La prima esperienza è nata da un gruppo di volontar* dei servizi sociali e sanitari di Ferrara che, dopo aver partecipato a un evento organizzato dalla Regione Emilia-Romagna (intitolato «Costruiamo la Fiducia con gli Open Data in Sanità») ha chiesto di poter organizzare un «Laboratorio del Riuso» di questi dati, appunto «open data», per consentire a chiunque voglia informarsi sulle premesse e sugli effetti delle politiche in questo caso per la salute, la sanità e il sociale. Permettendo così di accedere a una grandissima quantità di informazioni “grezze” che se elaborate e inserite all’interno di una struttura narrativa possono essere utilizzate per approfondire le notizie allarmanti o le dichiarazioni (e le decisioni) dei politici ma anche per costruire inchieste e promuovere azioni collettive. Come si vede siamo sul terreno dei valori e dei beni comuni: salvaguardare i diritti dei cittadin* verificando come/dove e da chi vengono negati. Ho la fortuna di essere coinvolta in questo percorso come «facilitatrice» e con mia grande sorpresa uno dei gruppi di lavoro – che ha come obiettivo raccontare il benessere dei bambin* – ha deciso di utilizzare queste informazioni per sviluppare un indicatore che spieghi quali sono i risultati raggiunti dall’amministrazione per valorizzare la presenza dei bambin* nella società. Una volontaria, una signora anziana e senza figli, ha spiegato così la scelta di lavorare sul benessere: «viviamo in una città che ha fatto passi da gigante per garantire sia agli anzian* che ai bambin* di poter vivere bene. Perché ci dobbiamo concentrare sempre su quel che non funziona? Non è altrettanto importante raccontare quel che viene fatto bene e vigilare affinché continui a essere fatto bene?». La collaborazione viene agevolata da internet e dai social media che permettono di lavorare a distanza con persone che probabilmente non avremmo incontrato mai e scoperto così vicine a noi nella vita “reale” o meglio nella sua versione mainstream.

Il secondo esempio è a cavallo fra internet e il laboratorio di scrittura. Il valore aggiunto qui dato dai nuovi media consiste nella disseminazione capillare del risultato dei laboratori. Un risultato che difficilmente con i media tradizionali avrebbe varcato la soglia della chiacchierata fra conoscenti. Consiste in un’esperienza di narrazione collettiva resa possibile attraverso i social media e che personalmente ho seguito grazie a essi, in particolare il Wu Ming Lab. Chi ha organizzato l’iniziativa – appunto il collettivo Wu Ming – descrive in questo modo la nascita del laboratorio: «poiché twitter è uno strumento dispersivo, e 140 caratteri son pochi per spiegare un progetto, è venuto il momento di dedicare alla questione qualche riga in più. Fin dalla sua nascita, tra le ragioni sociali della Wu Ming Foundation, c’è il “raccontare storie con ogni mezzo necessario”, coinvolgendo nel processo una vasta comunità, poiché raccontare, per noi, è un verbo che si coniuga al plurale. Per questo, la nostra attività di cantastorie non è mai stata soltanto quella di produrre racconti: li abbiamo sempre anche smontati e rimontati in pubblico, criticati, messi in discussione, trasformati e accresciuti con il contributo di chi desiderava commentare, scrivere, rielaborare. E l’abbiamo fatto con tutte le storie che ci sembravano interessanti, non solo con quelle che sceglievamo di maneggiare per i nostri romanzi. Questo blog è diventato così anche un laboratorio di analisi delle “tossine narrative”, nel tentativo di costruire racconti alternativi ai miti tecnicizzati del potere». L’esperienza dei Wu Ming ha prodotto libri, conferenze e nuovi incontri di scrittura collaborativa come quella sul metodo della “Termodinamica della Fantasia” che descrivono in questo modo: «per cominciare, prenderemo le mosse da una vicenda reale e dalla sua traccia d’archivio (giornali, sentenze, fotografie, lettere, testimonianze). Cercheremo poi di risalire all’origine di quella traccia, chiedendoci chi ha prodotto i documenti, chi li ha archiviati e per quale scopo. Analizzeremo il materiale di partenza per farci un’idea delle sue caratteristiche: punti di vista rappresentati ed esclusi, narrazioni tossiche, motivi di fascino e di frustrazione, coni d’ombra da illuminare, silenzi da interrogare, interpretazioni possibili e verifiche necessarie. Quindi lavoreremo sugli spunti narrativi offerti dall’archivio e li svilupperemo, con quella che abbiamo definito Termodinamica della Fantasia, ovvero l’insieme di trasformazioni e invarianti che fa passare una storia dallo stato di “oggetto d’archivio” a quello di “oggetto narrativo”. Ragioneremo sull’intreccio, sui personaggi, sull’incipit e sul finale del racconto, sui temi e sugli archetipi, nonché sulle questioni etiche che bisogna considerare quando si plasmano storie in carne ed ossa».

Questo metodo prescinde dal supporto nel quale i percorsi si sviluppano, potrebbe essere un blog su internet come una conversazione fra amic* mangiando castagne e bevendo vino novello, ma è sintomo di una comune volontà di innovazione nella narrazione e nel ri-creare informazione: adatto insomma a difendere e allargare gli spazi di libertà, indipendenza critica, immaginazione, socialità, partecipazione.

Come ci raccomanda «Cem», ribadiamo che fare buona informazione è anche cercare e spargere «i semi di un cambiamento positivo» pur se convinti che i tempi potrebbero essere lunghi e dunque forse “non ne vedremo i frutti”. Continuando ovviamente a segnalare non tanto le singole degenerazioni e bugie ma i meccanismi di fondo che le rendono possibili ma anche chi rende più difficile farlo (NOTA 10). E riprendiamo dunque un’indicazione per questa “annata generativa” che merita di essere meditata e non solo annunciata.

«Ho vissuto il sogno che il web con le sue caratteristiche di orizzontalità, trasparenza, collaborazione, partecipazione, potesse cambiare il mondo». (F. Mello giornalista e blogger (NOTA 11). Essere generativi in questo ambito non significa incrementare l’avanzamento tecnologico o sviluppare app, ma piuttosto interrogarsi sul ruolo e sul servizio che i mass media possono svolgere per favorire la rigenerazione sociale della quale si ha bisogno. Le reti virtuali possono tramutarsi in reti sociali poi operative? Possono essere impiegate per definire nuove rotte educative?». Noi rispondiamo sì e continuiamo. «Siamo davvero più informati o più frastornati?». L’uno e l’altro e qui dobbiamo muoverci su tutti i margini e in tutte le “crepe” possibili. E continuiamo: «Esiste una vera democrazia della Rete? Viviamo in un’epoca che i social network hanno abbondantemente colonizzato se non infestato imponendosi come new media e come infaticabili produttori di notizie, ma spesso ci sfuggono i rapidi cambiamenti del web: infatti, “da strumento di conoscenza orizzontale e aperto a tutti sta sempre più diventando il motore del turbocapitalismo in cui il marketing è la cifra di tutto”, come afferma Federico Mello». La trappola da non far scattare dunque è – stiamo sempre citando le indicazioni di «Cem» – è qui: «L’apparente protagonismo partecipativo che i social permettono stanno rendendo quasi obsoleta la funzione del giornalista di professione che appare “lento” perché opera una scelta critica, vaglia le fonti, controlla, analizza e poi divulga. Questi passaggi selettivi non possono avvenire nelle diffusioni di tipo virale. Di fronte all’incalzare dei fatti o fattoidi e della inarrestabile diffusione di ogni tipo di dato che, vero o falso, fa scaturire reazioni a catena, è necessario produrre anticorpi». Vero ma il giornalista “tradizionale” e lento praticamente non esiste – è sopravvissuto qualche panda che ogni tanto ci viene mostrato, felice a mangiare il suo bambù, grande alibi per proclamare che il “pluralismo” c’è ancora – come abbiamo velocemente provato a spiegare.

Dunque «Per un uso generativo dei media occorre tenere presente che:

– non è possibile un impiego neutrale dei cosiddetti new media: un like o un unlike possono provocare effetti dalle ricadute imprevedibili.

– nel web nulla si cancella ma tutto fluttua e può essere recuperato: i nostri dati sono di fatto pubblici: simo mappati, tracciati, identificati e catalogati.

– dal punto di vista educativo lasciare solo un minore a spasso per la rete equivale a farlo camminare di notte sul ciglio di una autostrada; occorre un’etica della navigazione che fornisca bussole e strumenti di orientamento.

– gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili: il cyberbullismo crea disagi notevoli e può operare nell’anonimato; proteggendo i responsabili e isolando le vittime, produce una tale onda di vergogna e sofferenza da indurre al suicidio chi ne è colpito.

I new media rappresentano una nuova frontiera dell’educazione ingiustamente sottovalutata per scarsa avvedutezza dai formatori sfavoriti dal digital divide e restii a considerare il web un nuovo ambito, a navigare per educare.

Occorre favorire un approccio ben ponderato all’uso responsabile dei media dei social attraverso l’alimentazione di uno spirito critico e selettivo che operi una cernita accurata delle informazioni:

– formare a un impiego eticamente di tali strumenti, valorizzando il loro potere pervasivo e la carica creativa che possono sprigionare.

– disciplinare l’impiego compulsivo di questi mezzi, sia per informarsi che per comunicare ed alternare la loro fruizione con il ricorso a fonti di informazione diversa.

– riscoprire il valore di un contatto diretto, visivo, tattile, con l’interlocutore e i membri dei social: un’emoticon non basta, neppure una nuova serie di stickers.

– imparare a elaborare i propri vissuti emotivi specie se negativi ricorrendo a una verbalizzazione più articolata dei 140 caratteri, imparando il buon uso della discrezione, non diffondendo dati personali e/o immagini che potrebbero mettere a repentaglio o pericolo la propria reputazione o quella degli amici.

  • imparare a disconnettersi».

Quanto all’impiego compulsivo, sopra citato, può essere utile aggiungere qualche riflessione e autocritica: non guasta dare un’occhiata a «Mobilitazione totale» di Maurizio Ferraris (NOTA 12).

Dalle indicazioni «Cem» siamo partiti e qui possiamo temporaneamente concludere. Per ri-metterci in cammino. Sbagliando, imparando, domandando, ascoltando, agendo e cercando di mettere il mondo sottosopra perché così – nella sua attuale narrazione cioè struttura di potere – proprio non ci piace.

BOX UNO – Barbara Romagnoli

BOX DUE – Cory Doctorow

N O T E

NOTA 1 – Perché l’asterisco? Diciamo anche noi che le parole contano e allora usare la desinenza maschile nel caso di un uomo e una donna (così sarebbe in italiano; in altre lingue non funziona così) è ribadire una sudditanza e/o una invisibilità. Dunque, con altre persone, anche noi preferiamo indicare questa compresenza con un asterisco. Si obbietterà che anche sul “maschile-femminile” i fatti contano più delle parole. Vero ma qui… stiamo parlando-scrivendo più che agendo; e allora perché non rendere evidente – con un piccolo segno grafico – il problema? Sulla complessa questione dei massmedia maschiocentrici rimandiamo al box, qui accanto, di Barbara Bonomi Romagnoli.

NOTA 2 – www.attivissimo.net/

NOTA 3 – http://comune-info.net/

NOTA 4 – C’era e c’è del vero e del buono («Report» per fare un solo esempio) in Raitre come giustamente ricorda Paolo Ruffini nel libretto «Scegliete!» (pessimo quel punto esclamativo) sottotitolo «Discorso sulla buona e la cattiva televisione» (Add editore, 2011) ma c’è anche spocchia e aria fritta. Se il modello di informazione indicato è «Che tempo fa» e «Vieni via con me», con le sue star strapagate, vuol dire che anche dalle parti di Raitre preferiscono le vetrine luccicanti alla sostanza.

NOTA 5 – https://lunanuvola.wordpress.com/

NOTA 6 – http://www.peacelink.it/

NOTA 7 – Fra molte cooperative fasulle le uniche vere coop di giornalist* che fanno quotidiani in Italia sono, con i loro molti pregi e qualche difetto, soltanto due: «Il manifesto» e «Il fatto quotidiano».

NOTA 8 – http://www.wumingfoundation.com/

NOTA 9 – «Storie e Notizie» ha un canale Youtube, una sua pagina Facebook e anche la versione in lingua inglese, Stories and News.

NOTA 10 – Si è detto in passato che “il caso Berlusconi” era unico in Europa. In parte era vero ma la pessima novità è adesso che quel modello di concentrazione ora avanza in molti altri Paesi. Una volta l’informazione francese era fra le migliori ma oggi «una mezza dozzina di miliardari sta per prendere il controllo di tutto ciò che conta nei media» come ha documentato Anna Maria Merlo in «Il monopoli della stampa» (su «il manifesto» del 21 ottobre 2015).

NOTA 11 – Federico Mello «Un altro blog è possibile», Imprimatur edizioni.

NOTA 12 – «Mobilitazione totale» è stato pubblicato pochi mesi fa da Laterza: una recensione ARMI: “dove sei?”… Rispondi subito è qui.

(Q1) Daniele Barbieri collabora abitualmente con «Cem»; nel testo a volte figura come Q1.

(Q2) Valentina Bazzarin è ricercatrice stabilmente precaria in sociologia dei processi culturali e comunicativi al dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. È anche attivista, impegnata nel difendere il diritto allo studio e alla salute, partigiana, ciclista, indignata, fotografa dilettante ma curiosa e viaggiatrice; nel testo figura a volte come Q2

CHI DI VOI E’ Più ATTENTA/O noterà che mancano i box e le vignette. Se vi interessano potete chiederli (gratiiiiiis) a Q1  o a Q2 oppure – meglio da ogni punto di vista – cogliere l’occasione per contattare «Cem mondialità» e/o abbonarvi.

DUE IMMAGINI sono riprese dalla Mafalda di Quino, l’altra è rubata da «Stranalandia», un bellissimo libro – per ragazze/i fino ai 109 anni – di Stefano Benni e Pirro Cuniberti.

 

Redazione
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