Transizione energetica: negazionismo di Trump e ruolo Brics

di Mario Agostinelli (*)

Le manifestazioni dei primi giorni di ottobre in Italia e in altri paesi europei per Gaza – una marea umana che ha invaso le strade e le piazze – sono state accostate da Gianni Silvestrini1, direttore del Kyoto Club, ad un’altra scossa che si sta realizzando in Cina ed in alcuni Paesi Brics nel cammino verso il superamento delle fonti fossili, rilanciate da Trump in una perversa continuità a dispetto del cambiamento climatico. Un processo, quello del cambio del paradigma energetico, forse meno clamoroso, ma non meno rilevante in proiezione futura, rispetto al colpo d’ala che la Sumud Flotilla ha provocato nel mondo straziato dalle atrocità di Netanyahu. Di fronte ad un primo cittadino americano che ha descritto la questione climatica come “la più grande truffa mai perpetrata nel mondo” ed ha attaccato le rinnovabili come un “scherzo patetico”, il leader cinese Xi Jinping ha replicato che “La transizione verde e a basse emissioni di carbonio è la tendenza del nostro tempo. Mentre alcuni paesi si stanno muovendo contro di essa, la comunità internazionale dovrebbe rimanere concentrata sulla giusta direzione”. Una contrapposizione di non poco conto, largamente trascurata dal nostro mainstream, che continua a ignorare come l’evoluzione delle emissioni di anidride carbonica del comparto energetico cinese siano già diminuite del 3% nella prima metà del 2025 e come nel primo semestre del 2025 la Cina abbia installato 12 volte più potenza solare rispetto agli Usa.

Le note che seguono cercano di proiettare il dibattito sulla crisi climatica al di fuori di una partita truccata e persa nel contesto occidentale in cui i voltafaccia di Trump e le incertezze dei governi europei – quello italiano in particolare – si scontrano con una narrazione e decisioni opposte nell’area dei Paesi Brics e in un’Africa prossima al risveglio. La Cop 30 di Belem segnerà probabilmente il passaggio della leadership ambientale dal mondo occidentale a nuovi attori in marcia e tutt’altro che improvvisati.

Il discorso di Trump all’Onu

Il linguaggio sprezzante di Donald Trump usato all’Onu nell’aula più solenne del mondo lo scorso 23 Settembre ha rappresentato un oltraggio al diritto internazionale, oltre che al rispetto delle scelte dell’umanità in questa fase di profondo cambiamento. Da parte del tycoon non si è trattato solo di forzare la verità per piegarla ai propri interessi con un linguaggio intriso di integralismo moderno e irriducibilmente occidentale. Ciò che del suo sproloquio è apparso manifesto si è materializzato soprattutto nel rifiuto di riconoscere la sacralità della vita umana e la dignità ad essa associata. Valori che non sono solo violati dalle guerre in corso, ma vengono oltraggiati irresponsabilmente dalla negazione delle minacce alla sopravvivenza dovute all’incedere impressionante del surriscaldamento globale. Colpire con fango la necessaria trasformazione ecologica, soffocare speranze vitali per le generazioni future, invocare deportazioni di persone in cerca di un domani migliore: ebbene, tutto ciò costituisce un attacco ai fondamenti della convivenza e della solidarietà internazionale ed ai principi che la politica migliore ha generato per perseguire la pace.

Le parole di Trump all’Onu si sono rivelate l’opposto di un ragionamento ponderato di un Capo di Stato. Ma ciò che ha fatto maggiore impressione non sono solo le affermazioni convulse, quanto piuttosto gli applausi che hanno accompagnato il suo intervento. Ciò che inquieta è la corsa alla emulazione che la sua retorica scatena, alimentando un ciclo di morte, sofferenza e assenza di precauzione che si estende a tutti i conflitti aperti nel mondo: dalle guerre, alle deportazioni, alle catastrofi naturali indotte dall’attività umana. L’arroganza del presidente americano sta, purtroppo, giocando un ruolo imitativo nelle sue conseguenze che non è abbastanza rivelato nella sua portata catastrofica a fronte di un’emergenza globale sempre meno contrastata col passare del tempo dai governi del Pianeta.

Purtroppo, il segnale di fastidio con cui ci si sarebbe aspettato che reagisse l’opinione pubblica ha assunto pieghe non abbastanza deliberatamente ostili all’insolenza del capobastone: sulle questioni che riguardano la transizione energetica il contraccolpo tra i tradizionali alleati politici, economici e militari degli Stati Uniti si sta rivelando assai pesante. Oltre al cambio di passo nelle sedi amministrative, nelle università e nei centri di ricerca con cui l’establishment degli States sta accogliendo la sterzata impressa dal suo Governo, occorre registrare l’arretramento della politica green della Unione europea condotta a un punto morto dalla von der Leyen e, non da ultimo, l’evanescenza degli impegni di molti Paesi sugli obiettivi climatici concordati nel 2015 a Parigi. Una involuzione contrastata solo e limitatamente dagli impegni assunti dai Paesi Brics+ in vista della Cop 30 di Belem in Amazzonia, dove si paventa un ripiegamento della transizione energetica, tuttora impedita dal ricorso alle fonti fossili.

Il Climate summit del 24 settembre

Per la verità, il Climate summit all’Onu del 24 settembre 20252, ha evidenziato, nonostante il discorso negazionista di Donald Trump, una indubbia resistenza del multilateralismo climatico fuori dai confini più tradizionali dell’Occidente. Il summit, convocato dal Segretario generale delle Nazioni unite António Guterres, ha raccolto gli impegni formali di oltre 150 Paesi sull’accordo di Parigi, con Xi Jinping che ha presentato gli obbiettivi cinesi – apparentemente modesti ma promettenti – ed il Brasile di Lula che ha ribadito l’importanza dell’accordo del 2015, mentre l’Ue ha esposto una posizione assai debole, criticabile e criticata. Dal summit si è saputo che la Cina potrebbe avere già raggiunto il picco delle emissioni, segnando la vera svolta epocale a livello globale. Inoltre il multilateralismo, arricchito da contributi di paesi grandi e piccoli, sembra resistere agli attacchi in corso, mentre la Corte internazionale di giustizia arriva a legare la lotta contro crisi climatica alla affermazione diritti umani3. Il summit ha dimostrato che, nonostante le difficoltà, la decarbonizzazione è ancora viva e l’arroganza di Trump verrà contrastata – o almeno vibratamente contestata – da governi che nelle edizioni passate delle Cop avevano avuto un ruolo meno attivo.

Il disimpegno dagli obiettivi climatici di Usa, Ue e Italia

Gli Stati Uniti, forti della rivoluzione dello shale gas, stanno trasformando il gas naturale liquefatto (Gnl) in uno strumento di proiezione di potere, ovvero, in una “diplomazia del freddo che accompagna le metaniere come moderne caravelle”4. Un legame politico che diventa obbligo commerciale per gli alleati prima dipendenti dal gas russo. Se Mosca esercitava un ricatto politico, Washington ora ne esercita uno commerciale e la dipendenza americana sostituisce decisamente quella russa. In base agli esiti perversi dell’accordo tra Trump e la von der Leyen, l’Europa, per ottenere condizioni favorevoli sui mercati globali e protezione strategica, deve garantire acquisti per centinaia di miliardi di dollari. Non è, evidentemente, libero mercato, ma mercato condizionato.

Dietro quei volumi liquefatti, rigassificati e stoccati restano infatti intatti i contratti di approvvigionamento, i costi della logistica, i nodi della dipendenza geopolitica. In altre parole, l’Europa non produrrà da sola la propria energia: semplicemente, la conserverà con più attenzione, ma comprandola a prezzi più elevati e con un ciclo di vita assai più dissipativo sotto il profilo ambientale. Ed il consumatore europeo, alla fine, pagherà la differenza, mentre la retorica politica parla di indipendenza e autosufficienza. L’indipendenza energetica, nel senso pieno, significherebbe sviluppare soprattutto rinnovabili, accumuli, idrogeno e reti intelligenti. Tutti capitoli – come è il caso del ritardo dell’eolico a Civitavecchia – ostaggio di burocrazie, veti locali e interessi incrociati.

In sostanza, si delinea un’Europa che sarà vincolata da contratti di lungo periodo con Washington, da prezzi più alti, e, soprattutto, da una ulteriore lentezza nel costruire una vera strategia energetica verde. Il Gnl, nato come strumento di transizione, rischia di trasformarsi in infrastruttura permanente, che ipotecherà decenni di politiche energetiche. Gli Stati Uniti di Trump hanno colto l’occasione di una crisi europea per trasformarla in opportunità nazionale, costringendo la Ue a ragionare come consumatore e importatore anziché come produttore ed innovatore. Chi controlla le fonti, controlla le scelte. Chi dipende dai fornitori, dipende anche dalle condizioni che essi impongono. Non si riducono i gap di prezzo se non si trasforma la transizione energetica in una leva di sovranità.

Per quanto ci riguarda, il Mediterraneo diventa sempre più il crocevia strategico del Gnl, sede di equilibri politici, condizionamenti commerciali, strategie militari. Le infrastrutture necessarie – rigassificatori, depositi, metaniere – richiedono miliardi di investimenti e contratti ventennali. Ciò significa che l’Europa e l’Italia, pur proclamando l’obiettivo delle rinnovabili, si stanno legando mani e piedi a infrastrutture fossili che dovranno essere ammortizzate nel tempo. In altre parole, la transizione rischia di trasformarsi in una strada obbligata e incatenata al gas, anziché un ponte verso un traguardo di Net Zero.5

Le disastrose scelte della Ue e dell’Italia

Entrando in dettaglio sugli obbiettivi climatici Ue (2035 e 2040) diventa chiaro come il salto verso gli Stati Uniti come fornitore di gas stia condizionando i target definiti a Parigi. Nella riunione del Consiglio Ue di settembre, anziché confermare la proposta per ridurre del 90% le emissioni di CO2 entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990 e raggiungere la neutralità climatica nel 2050, tutto è stato rinviato. Riguardo al target 2035 non si è andati più lontano di una semplice dichiarazione di intenti, con gli Stati membri divisi sulla questione e nessun accordo in vista, nonostante i tentativi di mediazione della presidenza danese di turno. Di conseguenza, Bruxelles non ha presentato alcun piano ufficiale al vertice sul clima del 24 settembre alle Nazioni Unite a New York, come richiesto dalla presidenza brasiliana della Cop 30. Quanto all’obiettivo 2040, il Consiglio Ue non è riuscito nemmeno a finalizzare la sua posizione, data la spinta contraria di diversi Paesi, tra cui Italia, Germania e Francia.

A conferma di una posizione attendista del nostro Paese, il ministro Pichetto Fratin, ribadendo il sostegno dell’Italia al principio della neutralità tecnologica, ha dichiarato che “spetta ai leader nazionali definire il livello di ambizione, così come tutte le condizioni abilitanti e le necessarie flessibilità per i propri territori”. E, citando a proposito “rinnovabili, nucleare, stoccaggio, cattura della CO2, geotermia, idroelettrico, biocarburanti sostenibili”, ha certamente messo in conto anche la crescita del Gnl di prossimo acquisto, forse tra “le soluzioni innovative che emergeranno”.

Il ministro dell’ambiente sta facendo propaganda a un nucleare che non c’è, ma dimentica di puntare sulle rinnovabili – più convenienti sotto molti profili – che potrebbero garantire l’indipendenza energetica dell’Italia. Pichetto Fratin continua a dichiarare, senza fornire prove, che il nucleare da fissione a cui pensa sarebbe sicuro, ma non è in grado di dimostrarlo. Ci si potrebbe aspettare un Ministro impegnato sui nuovi impianti per le rinnovabili che per fortuna aumentano anche senza l’intervento del Governo perché il crollo dei prezzi degli impianti rende sempre più conveniente la loro promozione. E’ evidente come la scelta delle rinnovabili porterebbe più indipendenza energetica e minori costi: un problema serio in un paese che dipende ancora troppo dalle fonti fossili.

Ad aggravare ancor più le preoccupazioni per una visione miope del nostro Governo sono intervenute le dichiarazioni della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di Settembre6. Sull’onda del discorso di Trump, la Premier ha semplicemente negato la realtà, descrivendo le politiche ambientali e la transizione ecologica come fattori di destabilizzazione sociale ed economica, arrivando a contestarne i benefici ambientali e ad accusarle di “depauperare la conoscenza”. E’ vero esattamente il contrario: l’innovazione oggi è guidata dalla transizione energetica ad un nuovo paradigma e l’incapacità del nostro Paese di compiere scelte coraggiose e di fare sistema in questo senso sta gravemente danneggiando l’economia e producendo impoverimento di vasti strati della popolazione. Una lettura come quella della Presidente del Consiglio, invero, rischia di indebolire le risposte sempre più urgenti ad una crisi climatica che sta colpendo pesantemente l’Europa ed il nostro Paese.

Secondo un recente studio (Extreme Weather Events dell’University of Mannheim7) nell’estate 2025 si stima che l’Italia abbia subito perdite economiche per 11,9 miliardi di euro a causa di eventi climatici estremi, un valore destinato a salire fino a 34,2 miliardi, con gli effetti a lungo termine, entro il 2029. I danni stimati includono l’impatto diretto di ondate di calore, siccità e inondazioni su infrastrutture, produttività e sistemi locali, senza considerare i costi sociali e ambientali indiretti, come quelli derivanti dagli incendi. I territori vengono quotidianamente funestati da eventi sempre più intensi, la minimizzazione e il silenzio non fanno altro che farli sentire abbandonati dal Governo. Anche in questa occasione Giorgia Meloni ha parlato di “estremismo ideologico”, dimenticando che non c’è nulla di più ideologico che rifiutare di basare le scelte strategiche di un Paese sui dati forniti dalla comunità scientifica.

Non si può che invitare le istituzioni e tutte le forze politiche a riconoscere l’ineludibilità della scienza e la propria responsabilità politica che dovrebbe superare ogni arroccamento ideologico e di schieramento in un momento così delicato. Il cambiamento climatico, come avverte WWF Italia, e la perdita di biodiversità “non si combattono con semplificazioni, ma con scelte fondate su dati, visione e impegno per un futuro sostenibile e giusto”8.

Il riarmo, la corsa alla guerra, la CO2 degli eserciti

La demolizione sistematica di Donald Trump di quell'”ordine internazionale basato sulle regole” spinge anch’essa ad un riarmo sconsiderato a spese della diplomazia e delle prospettive della pace e dei diritti sociali. Le guerre non solo distruggono e provocano immani sofferenze, ma contribuiscono anche a rendere il mondo più caldo, più instabile, più insicuro. In una fase in cui l’Occidente è propenso ad accrescere significativamente le spese per le armi, pochi riflettono sul disastro che questo comporta sul cambiamento climatico.

La spesa militare globale ha raggiunto 2.718 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento significativo dovuto a conflitti come l’invasione russa dell’Ucraina, l’invasione israeliana di Gaza, le guerre africane “dimenticate”. Si è aperta nel 2025 una corsa al riarmo che, in Europa e nella Nato in particolare, pregiudica i bilanci di Stati che intraprendono un percorso spesso non condiviso dalle loro stesse popolazioni. Nella Ue è stato deciso un impegno comune per aumentare progressivamente le spese militari al 5% del Pil entro il 2035. Per il 3,5% dovranno essere spese militari secondo la tradizionale definizione della Nato, mentre per il restante 1,5% saranno spese inerenti la cosiddetta “sicurezza allargata”. In soldoni, per i paesi europei della Nato, significa passare da una spesa militare complessiva annua di 440 miliardi di euro nel 2024 (pari al 2,02% del Pil) ad una spesa militare nel 2035 di almeno 996 miliardi di euro (pari al 3,5% del Pil), a cui vanno sommati circa 420 miliardi di euro per il restante 1,5% relativo alla sicurezza.

Raramente si fa mente locale sulle conseguenze climatiche del riarmo in corso. L’attività militare è infatti altamente energivora e dipende principalmente dai combustibili fossili, generando significative emissioni dirette ed indirette.

Un’analisi del 20259 ha rilevato che per ogni 100 miliardi di dollari di spesa aggiuntiva vengono emessi circa 32 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica. L’impronta di carbonio delle forze armate globali è già ora considerevole, pari a circa il 5,5% delle emissioni complessive. Un aumento delle emissioni derivanti da maggiori budget militari è in diretto conflitto con l’obiettivo climatico di 1,5°C dell’Accordo di Parigi,

Il ciclo di vita di materiali, tecnologie ed azioni previsti e destinati alla guerra è quanto di più dissipativo si possa immaginare. Si tratta di un impiego qualificato di grandi quantità di energia e materia che da ordinate vengono degradate, disperse e dissolte all’istante con la loro potenza distruttiva. Combustibili fossili per veicoli militari, consumo energetico nelle basi militari, produzione di materiali ad alta intensità di carbonio (es. acciaio, alluminio), tecnologie sofisticate e comunicazioni ad ampio raggio comportano ingenti scorie ambientali ed emissioni di CO2 negli ecosistemi naturali e negli insediamenti civili.

La quantificazione di tanta calamità consapevolmente provocata si traduce in un bilancio spesso sconosciuto o ignorato. .Su questa base, ad esempio, l’aumento della spesa militare della Nato tra il 2019 e il 2024 ha generato circa 64 milioni di tonnellate di CO2equivalente. Ulteriori aumenti già in adozione potrebbero portare ad un incremento di 132 milioni di tonnellate di CO2equivalente, superando le emissioni territoriali del Cile. Addirittura, se venissero confermate le previsioni di spesa per i prossimi anni concordate con Trump, le emissioni cumulative derivanti da una spesa militare media del 3,5% del Pil della Nato per 10 anni potrebbero superare le emissioni annuali del Brasile. Va ricordato che i membri della Nato rappresentano già oggi collettivamente il 55% della spesa militare globale e che la CO2 equivalente è stimata in 2.330 milioni di tonnellate all’anno: una cifra che eguaglia le emissioni di alcuni interi paesi come Colombia o Qatar.

L’accelerazione data da Trump al sistema di guerra

Quando guardiamo all’accelerazione che Trump sta dando al sistema di guerra degli Stati Uniti non possiamo che allarmarci ulteriormente. Innanzitutto, l’aumento del budget di un trilione di dollari previsto per il bilancio Usa porterà le emissioni di anidride carbonica del colosso industriale della US Army alla pari di quelle di interi Paesi sviluppati. I recenti aumenti della spesa del Pentagono, infatti, produrranno da soli 2.600 milioni di tonnellate di gas per il riscaldamento del pianeta, alla pari con le emissioni annuali di carbonio equivalente generate da 68 centrali elettriche a gas o dall’intero paese della Croazia. L’esercito degli Stati Uniti e il suo apparato industriale diventeranno da soli il 38° più grande emettitore al mondo, il che si traduce in circa 47 miliardi di dollari di danni economici a livello globale. Questo calcolo non include le emissioni generate da finanziamenti militari supplementari degli Stati Uniti, come per i trasferimenti di armi ad Israele ed Ucraina negli ultimi anni.

L’aumento della spesa militare è quindi incompatibile con gli obiettivi climatici globali e rappresenta una minaccia significativa non solo per il welfare ed i diritti.

Perché non chiedere allora che gli aumenti della spesa militare degli Stati Uniti e della Nato possano essere reindirizzati verso misure di resilienza climatica smilitarizzate, come il trasporto pubblico, le energie rinnovabili o i nuovi alloggi sociali verdi, un vero investimento nella sicurezza umana? E questa non è utopia: è politica…

La svolta energetica degli Usa

Le frasi grevi pronunciate da Donald Trump all’Assemblea Onu del 23 Settembre sono un’allusione ad una politica energetica di impostazione brutalmente negazionista e sovranista. Ricordo qui alcune tra le affermazioni più significative del tycoon: “Le fonti rinnovabili sono una barzelletta, non funzionano, sono troppo costose; non sono abbastanza potenti da alimentare gli impianti di cui hai bisogno per rendere grande il tuo Paese”; “Il vento non soffia: quei grandi mulini a vento sono così patetici e così brutti, così costosi da gestire, e devono essere ricostruiti di continuo e iniziano ad arrugginire e marcire”; “La maggior parte degli impianti eolici e solari è costruita in Cina: li costruiscono, ma hanno pochissimi parchi eolici, usano quasi tutto, gas e carbone, ma non gli piace il vento, ma di sicuro gli piace vendere i mulini a vento”; “L’Europa, d’altra parte, ha ancora molta strada da fare, con molti paesi sull’orlo della distruzione a causa del programma per l’energia verde”. Le aggressioni verbali non si limitano ad un’insolenza estemporanea: hanno invece ripercussioni sull’attività amministrativa e scientifica negli States. Sono state imposte censure impensabili fino a prendere di mira il cambiamento climatico. Secondo quanto riferito da Politico10 il Dipartimento dell’Energia statunitense (Doe) avrebbe emanato una circolare interna all’Ufficio per l’efficienza energetica e le energie rinnovabili (Eere) che vieta ai dipendenti di usare determinati termini come “cambiamento climatico”, “green”, “decarbonizzazione”, “transizione energetica”, “sostenibilità”, “sussidi”, “agevolazioni fiscali”, “crediti d’imposta”, “emissioni di gas a effetto serra” ma anche solo “emissioni”.

Con simili premesse non ci si può stupire se la svolta impressa da Trump alla politica energetica degli Stati Uniti evidenzia già da questo 2025 un’ulteriore spinta verso l’industria dei combustibili fossili, accompagnata da un significativo smantellamento delle normative ambientali, con un’enfasi sull’autosufficienza nazionale e il rilevante recupero del nucleare come “tecnologia dal pedigree cento per cento americano11”.

Più in dettaglio, potremmo sintetizzare così il programma del governo Usa attuale: rinascita del carbone con costruzione di nuove centrali e abbattimento delle normative ambientali; estensione dell’estrazione di petrolio e gas, specialmente nei giacimenti da scisto e nelle aree non ancora sfruttate, come il Mare Artico e le acque offshore; costruzione di oleodotti e gasdotti come Keystone XL e Dakota Access; potenziamento del programma di esportazione di Gnl; intese con altri paesi produttori di combustibili fossili per ridurre la dipendenza da fornitori esteri; promozione di esenzioni per le aziende che investono in combustibili fossili; smantellamento delle normative ambientali, continuando a ridurre i limiti sulle emissioni di gas serra e semplificando le autorizzazioni per nuove installazioni energetiche sia con il sequestro di CO2 che con impianti di fissione; rafforzamento della posizione competitiva degli Stati Uniti nei mercati globali e verso la Ue in particolare; contrasto agli investimenti, ai sussidi e agli incentivi fiscali per l’energia solare ed eolica e, in genere, per l’energia rinnovabile; promozione e ripresa del settore nucleare lungo tutto il ciclo di vita del materiale fissile; promozione della ricerca su nuovi combustibili alternativi che potrebbero supportare un’economia a basse emissioni pur mantenendo i combustibili fossili come base energetica.

Per una svolta così cruenta occorre, naturalmente, un coinvolgimento dei media e dei social network per comunicare i risultati anche sotto il profilo dei posti di lavoro nell’industria energetica e dell’eventuale rafforzamento dell’autosufficienza a discapito dell’ambiente.

Gli effetti della svolta in atto

Gli effetti della svolta si sono manifestati già nel corso di quest’anno12. Gli investimenti in rinnovabili negli Usa sono calati del 36% rispetto alla seconda metà del 2024, “poiché gli operatori si stanno ricalibrando in base al mutevole panorama politico della regione”. Guardando al solo fotovoltaico utility scale 13, c’è stato un calo del 19% dei capitali attirati rispetto al primo semestre del 2024.

Gli investitori e gli sviluppatori di energie rinnovabili stanno riconsiderando l’allocazione del capitale verso l’Europa e si stanno spostando dove i rendimenti dei progetti sono più elevati. E’ il caso dei progetti di eolico offshore per i quali le aziende stanno riallocando i capitali dagli Stati Uniti verso l’Europa dove diversi sviluppatori si sono concentrati sui siti del Mare del Nord rispetto ai progetti statunitensi.

Sta creando grande scalpore l’avvio di cause legali da parte del colosso danese Oersted contro l’ordine dell’amministrazione Trump di sospendere i lavori per il parco offshore Revolution Wind da 704 MW, al largo del Rhode Island. In ballo c’è la costruzione di un grande parco eolico marino da 704 MW al largo delle coste del Rhode Island, un progetto da un miliardo e mezzo di dollari già completato all’80% che il presidente americano ha deciso di bloccare alla fine di agosto. Questa azione legale fa seguito a una causa multi-statale intentata da una coalizione di 18 procuratori generali contro l’amministrazione Trump, per il suo tentativo illegittimo di congelare lo sviluppo dell’energia eolica tramite un ordine esecutivo. Revolution Wind, si ricorda, ha ottenuto tutti i permessi federali e statali richiesti nel 2023, a seguito di verifiche iniziate più di nove anni fa. Finora si sono installate tutte le fondazioni offshore e circa il 70% delle turbine eoliche; l’installazione dei cavi di esportazione è quasi completata, così come il 90% della sottostazione sulla terraferma. L’impianto eolico produrrebbe energia elettrica sufficiente ad alimentare più di 350mila abitazioni dal 2026, supportando oltre 2.000 posti di lavoro nei settori dell’edilizia, della cantieristica navale e della produzione.

Anche per quanto riguarda l’occupazione, i dati e le prospettive sono significativi di effetti non certo positivi. Il rapporto Clean Jobs of America 202514, rivela che i posti di lavoro nel settore dell’energia pulita sono cresciuti del 2,8% nel 2024, creando quasi 100.000 nuovi addetti e che i lavoratori impiegati nelle energie green – circa 3,5 milioni alla fine dello scorso anno – superano più di tre volte quelli che operano nell’industria petrolifera, del gas e del carbone. All’inizio del 2025 si prevedeva che le fonti energetiche pulite sarebbero rimaste uno dei segmenti in più rapida crescita nell’economia statunitense. Invece, secondo alcune stime citate nel Rapporto, nella prima metà del 2025, le aziende hanno cancellato o chiuso oltre 22 miliardi di dollari in fabbriche e progetti legati all’energia pulita in America, eliminando 16.500 posti di lavoro annunciati in precedenza. Si potrebbero perdere più di 830.000 posti di lavoro entro il 2030 a causa dei tagli alla politica energetica voluti da Trump. Nel solo settore del fotovoltaico sarebbero a rischio circa 330.000 occupati tra quelli diretti e indiretti.

Le conseguenze del “patto” tra Trump e la von der Leyen

Dopo l’accordo su dazi ed energia subito dalla von der Leyen nella tenuta scozzese di Trump, le pressioni degli Stati Uniti sulla Ue si sono fatte più decise. Come rivelato dal discorso all’Onu del 23 Settembre il giudizio del tycoon sulle politiche ambientali comunitarie è impietoso: “Vi dico che se non vi liberate dalla truffa dell’energia verde, il vostro Paese fallirà. Se non fermate persone che non avete mai visto prima e con cui non avete nulla in comune, il vostro Paese fallirà.” La transizione energetica, nella sua visione, rappresenta un ostacolo alla crescita economica più che una necessità geopolitica e climatica.

Chris Wright – già imprenditore nello shale gas e ora Segretario all’energia – ha chiarito in un incontro a Bruxelles15 quali siano le intenzioni degli Usa: sostituire il gas russo con forniture statunitensi e sollecitare la Ue ad allentare il proprio quadro regolatorio. Ricordando che solo il 2% dei nuovi data center globali è stato realizzato sul suolo europeo negli ultimi due anni, Wright ha chiesto di recuperare il gap nell’economia digitale con una politica energetica non centrata sulle rinnovabili, in cui gli Stati Uniti si propongono come fornitori di energia a basso costo per sostenere la competitività industriale degli alleati. La dipendenza della Ue dalle forniture Usa è intesa a lungo termine e l’accordo da 750 miliardi di dollari in campo energetico è solo l’inizio. In questo quadro si inserisce a pieno titolo il rilancio del nucleare: una tecnologia che “vanta un’identità nazionale Usa”.

Quella nucleare sarebbe una tecnologia più genuinamente americana rispetto alle rinnovabili, come l’eolico e il solare. Il pedigree cento per cento americano sarebbe dovuto alla combinazione tra componentistica (come il combustibile, i sistemi di raffreddamento e generazione elettrica) e la nazionalità delle aziende più innovative per la messa a punto degli impianti nucleari, perlopiù di matrice Usa. Mentre l’atomo, dunque, viene giudicato capace di soddisfare quell’inclinazione autarchica, lo stesso non varrebbe invece per l’eolico e il solare, entrambe fonti di energia fortemente legate al reperimento di risorse estere su cui ad oggi la Cina detiene un controllo pressoché esclusivo.

Il risorgere di una tecnologia in larga parte abbandonata punta alle ricadute sui paesi alleati e, non a caso, è al centro dell’interesse agitato da Meloni e Pichetto Fratin nel Paese che ha registrato la sconfitta dell’atomo in due referendum sulla materia. Una rinnovata corsa agli investimenti nel settore e il dispiegamento di opportuni incentivi fiscali, sembra avere lo scopo di dispiegare le ancora troppo contratte capacità statunitensi. Tale slancio produttivo, assieme all’estensione nell’operatività delle vecchie centrali a carbone in fase di dismissione e all’efficientamento della rete elettrica nazionale, farebbe da trampolino di lancio per una più proficua corsa agli armamenti tecnologici, specie in materia di intelligenza artificiale.

Il prevedibile fallimento della politica energetica trumpiana

Chiarite le prospettive della politica energetica di Trump ci si potrebbe chiedere, data la gravità di quel che sta avvenendo negli Stati Uniti, se a fermare questa deriva possano essere il crollo della fiducia degli investitori privati negli impegni federali, oltre all’aumento dei costi di sviluppo dei nuovi progetti ed il conseguente aumento delle bollette. “Il programma di dominio energetico dell’amministrazione Trump fallirà”. A emettere questa lapidaria sentenza è l’Ieefa, ovvero l’Institute for energy economics and financial analysis16, con una ampia documentazione che non è limitata ai soli confini degli Stati Uniti, perché colpisce anche aziende europee. E perché rispecchia anche i rischi che corriamo in Italia se il governo continua con i traccheggiamenti sulle rinnovabili e se non si decide a garantire finalmente una transizione giusta e trasparente.

Alla base del previsto fallimento della strategia trumpiana centrata sul «drill, baby, drill» (“trivella, ragazzo, trivella”) e su politiche che contrastano lo sviluppo delle rinnovabili, spiega l’Ieefa, c’è un mix di fattori concatenati come il crollo della fiducia degli investitori, a cui segue un aumento dei costi di sviluppo di tutte le risorse energetiche, la limitazione della produzione di turbine a gas, i tempi lunghi dei progetti legati al nucleare. E, alla fine dell’analisi, c’è una conclusione che non termina solo con il fallimento del programma adottato dal tycoon: alla fine, la conclusione è che a fare le spese di tutto ciò saranno i consumatori, costretti a pagare di più le forniture energetiche.

Il taglio in corso dei progetti di rinnovabili, ciascuno dei quali ha ricevuto miliardi di dollari di investimenti privati, sta provocando onde d’urto in tutto il settore del finanziamento dei progetti energetici, non solo nell’industria eolica e fotovoltaica. Il costo di questa incertezza politica aumenterà i rischi – e quindi i costi – dello sviluppo di altre nuove risorse di produzione di energia, tra cui nuovi impianti nucleari (sia piccoli reattori modulari che grandi reattori convenzionali), sistemi di accumulo con batterie dispacciabili, impianti a gas.

Come afferma il documento sopra citato: “L’energia rinnovabile e lo stoccaggio distribuibile sono l’unica opzione per aggiungere quantità significative di nuova capacità di generazione alla rete elettrica statunitense almeno per i prossimi cinque anni. L’aggiunta di energia proveniente da impianti a gas fino al 2030 è fortemente limitata dai vincoli di produzione delle turbine, e gli sforzi dell’amministrazione per mantenere in funzione impianti a carbone obsoleti e inaffidabili costeranno caro ai consumatori. Nel frattempo, qualsiasi nuovo impianto nucleare convenzionale potrebbe richiedere fino a due decenni per essere completato, e anche i piccoli reattori modulari sono ancora lontani dall’entrare in funzione; la loro tecnologia e la loro redditività rimangono ancora da dimostrare”.

I margini di riserva di energia elettrica si ridurranno pericolosamente ed i prezzi aumenteranno: tutto a causa della campagna anti-rinnovabili dell’amministrazione Trump. E le aziende che intendono costruire nuove risorse di generazione probabilmente cercheranno ambienti di investimento più stabili, oppure costringeranno ad una revisione dei programmi in corso.

Il quadro europeo

Non dobbiamo certo aspettarci da Trump una attenzione al futuro come merita la drammaticità della fase che stiamo attraversando. D’altra parte, l’European Green Deal e gli accordi di Parigi sul contenimento del riscaldamento climatico si stanno sacrificando alla logica della guerra, evocata dalla spesa in armamenti e dalla conseguente militarizzazione della convivenza, mentre la crisi climatica e ambientale sta accelerando la sua corsa. Le politiche finanziarie e industriali dell’Occidente, a cominciare dalla Ue, avevano già intaccato una cultura che dava la priorità, almeno a parole, alla pace e alla cura della Terra. Basta ricordare come il rapporto Draghi sullo stato dell’Unione europea citi qualcosa come una ventina di sigle di think tank o centri studi da cui attingere considerazioni e non accenni nemmeno per sogno all’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) o ai moniti della Laudato sì’.

Intanto, il nuovo rapporto dell’Europe’s Enviroment 2025 17, l’analisi più completa sullo stato attuale e sulle prospettive dell’ambiente, del clima e della sostenibilità nel nostro continente, informa che, sulla base degli obiettivi attualmente presenti nei piani nazionali sul clima il mondo è proiettato verso un aumento della temperatura atmosferica a fine secolo tra +2,6°C e +2,8°C rispetto all’era pre-industriale: ben al di là dei limiti di sicurezza (+1,5°C-2°C) individuati dalla comunità scientifica e fatti propri dall’Accordo di Parigi. In questo contesto, l’Europa è particolarmente a rischio in quanto continente che si surriscalda più di tutti, ad un ritmo doppio rispetto alla media globale. E l’Italia risulta addirittura la nazione più esposta, che ha già raggiunto +3.22°C rispetto alla media del periodo 1850-1900 (preso dall’ultimo Ipcc come riferimento pre-industriale).

Continua la produzione di combustibili fossili

Nessuna meraviglia, se si pensa che a dieci anni dall’Accordo di Parigi cumulativamente i governi dei paesi del mondo stanno pianificando una produzione di combustibili fossili ancora maggiore rispetto a prima. Secondo il rapporto Production gap 202518 gli aumenti della produzione di combustibili fossili stimati nell’ambito dei piani e delle proiezioni dei Governi si avrebbero livelli di produzione globale nel 2030 superiori del 500%, 31% e 92% rispettivamente per carbone, petrolio e gas, rispetto al percorso mediano coerente di 1,5ºC. Questi piani e proiezioni superano anche collettivamente la produzione di combustibili fossili implicita negli impegni di mitigazione del clima dei paesi del 35% nel 2030 e del 141% nel 2050.

Qualche spiraglio si apre se si va oltre i Paesi sviluppati dell’Occidente da cui si sta spostando una leadership compromessa anche sotto il profilo della lotta al cambiamento climatico.

Nel mondo di oggi, in cui l’intreccio complesso delle attività umane è in grado di destabilizzare gli stessi equilibri planetari, il tema dell’energia è fortemente correlato a temi globali come i cambiamenti climatici e gli equilibri ecologici e socioeconomici. Sono quindi sistemi politici e culturali e organizzazioni sociali complesse a doversi mettere in gioco. Non dovrebbe quindi sorprendere che le soluzioni ai problemi in corso dipendano anche dai sistemi di governo e partecipazione che caratterizzano le aggregazioni umane e la loro espressione sociale. Stati Uniti, Paesi Ue e Brics affrontano le emergenze in corso con percorsi e soluzioni differenti nonostante il conflitto tra diversi approcci si stia accentuando e ridisegni i confini tra blocchi sempre meno cooperanti. Quindi possono emergere differenti configurazioni di modelli energetici tra questi blocchi e il conflitto anche economico che ne nasce può caratterizzare le politiche energetiche e climatiche di lungo periodo in un orizzonte tutt’altro che di pace scontata. La decarbonizzazione del sistema energetico globale può essere perseguita in molti modi diversi, Costi e benefici, in particolare, vengono distribuiti in modo radicalmente diverso a seconda della soluzione prescelta.

Le fonti rinnovabili cambiano il paradigma energetico

Nonostante i ritardi e le resistenze alla sua affermazione, un paradigma energetico risulta sempre più plausibile in ogni parte del mondo: quello in cui le fonti rinnovabili crescono esponenzialmente, favorite dai bassi costi e dalla rapidità di installazione degli impianti. Un modello decentrato e territoriale con un ciclo di vita a ridotta entropia in cui i grandi progressi tecnologici nel campo dell’elettronica di controllo e dell’intelligenza artificiale nonché nei settori di accumulo, hanno reso ancora più affidabile e accessibile la gestione di reti energetiche complesse e basate su fonti intermittenti, sia di piccola che di maggiore taglia.

Oggi nascono modelli dettagliati – su scala locale, nazionale o continentale – di come la transizione verso sistemi energetici basati al 100% su fonti rinnovabili possa essere progettata e realizzata, garantendo l’operatività e l’affidabilità della rete, consentendo alle industrie di decarbonizzare i propri processi produttivi in modo sostenibile e realizzando notevoli risparmi sul costo finale dell’energia. In questo sistema le comunità di cittadini possono giocare un ruolo attivo nella transizione energetica per accedere direttamente ai benefici che ne possono derivare. Sono i cittadini che con le loro scelte possono condizionare il modello energetico agendo da prosumer in situazioni di elevata cooperazione.

Non c’è dubbio che un modello come quello qui descritto prediliga la comunità alla competizione, la democrazia sociale al capitalismo concorrenziale, la convivenza pacifica alla guerra. Oggi una soluzione che mette a sistema decarbonizzazione, democrazia energetica, equità sociale, sostenibilità e valorizzazione dei territori non può essere perseguita in qualsivoglia sistema politico. Lo scontro riguardo all’affermazione di questo modello è in corso con rigurgiti di opposizione soprattutto negli Stati Uniti di Trump e con l’opposizione di tutto il sistema globale incentrato sui fossili e il nucleare. Come non pensare che sistemi politici differenti nel mondo giochino un ruolo specifico riguardo all’adozione di un modello come quello illustrato, che è suggerito dalla considerazione della gravità della crisi climatica e trova in sistemi politici e sociali maggiormente predisposti maggiore considerazione? Senza volerci dilungare, riesce comunque probabile che, di fronte all’abbandono dell’Accordo di Parigi da parte di Trump, al ripensamento del Green Deal da parte della von der Leyen e dei governanti Ue, agli interessi petroliferi degli Emirati Arabi, l’attenzione per un esito non drammatico della Cop 30 di Belem passi ai Paesi Brics ed in particolare a Brasile e Cina ed ai loro differenti approcci sociali alla transizione energetica.

Cina e Brics, una patente verde alla COP 30 di Belem

Solo 47 dei 97 Paesi membri del sistema Cop hanno consegnato i propri impegni di riduzione delle emissioni, nonostante il termine fosse stato posticipato. Tra essi Cina Brasile e India. La Ue approda a Belem divisa. La proposta di un taglio del 90% delle emissioni entro il 2035 ha incontrato resistenze, inclusa quella dell’Italia, con Giorgia Meloni che critica il Green Deal. Gli Usa addirittura si sono ritirati dall’Accordo di Parigi e definiscono il cambiamento climatico una truffa. Questi vuoti saranno rimpiazzati dai Brics?

Negli ultimi mesi, questo fronte, che rappresenta circa la metà della popolazione mondiale e oltre il 50% delle emissioni di CO2, ha adottato una linea più coordinata. I Paesi BRICS+ sono un blocco eterogeneo ma sempre più consapevole che clima e rinnovabili sono leve strategiche non solo di sviluppo economico e tecnologico, ma anche di potere e influenza geopolitica. Si propongono come portavoce del Sud globale, chiedendo più sostegno finanziario e opponendosi a misure percepite come discriminatorie. La crescente intesa tra la Cina – “industria del mondo” che ha annunciato un taglio delle emissioni tra il 7 e il 10% entro il 2035 e ha promesso di moltiplicare per sei la capacità di generazione eolica e solare rispetto al 2020 – e il Brasile – “polmone verde del mondo” con l’Amazzonia – che ha annunciato Net Zero al 2050, potrebbe dare vita a un accordo capace di riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti e dalla Ue.

Per quanto riguarda la Cina le sue credenziali come leader della transizione sono spesso oscurate da pregiudizi o da scarsa conoscenza. I dati sono impressionanti. Il 2024 è stato un anno record: + 45,2% per il fotovoltaico (raggiungendo 886,67 GW) e + 18% per l’eolico (raggiungendo 520 GW) rispetto all’anno precedente. In pratica, nel 2024 la Cina ha costruito quasi il doppio della capacità solare ed eolica rispetto a tutti gli altri Paesi del mondo messi assieme. Pechino ha raggiunto i suoi obiettivi con sei anni di anticipo, con 1.406 GW, ben sopra i 1.200 dell’obiettivo 2030.

Ma quello che ancora più sfugge nei nostri commenti è il ruolo che la Cina sta assumendo nel mondo con l’energia verde come strumento di negoziazione per eccellenza. I suoi investimenti diretti esteri, guidati dall’industria della green tech, negli ultimi tre anni ammontano a oltre 227 miliardi di dollari. Secondo Bloomberg19 quella cifra equivale al Piano Marshall del dopoguerra. Lo si intende meglio se si considera che servono ben 7 trilioni di dollari l’anno di investimenti nelle rinnovabili per raggiungere il net zero entro il 2050, per un totale di 175 trilioni entro il 2050. Grazie alle politiche cinesi, quasi i 2/3 dei mercati emergenti hanno oggi una quota maggiore di energia solare nelle reti rispetto agli Stati Uniti, che si attestano attorno al 9%. “Gli Usa assomigliano sempre più a un reperto steampunk20 ancora dipendente da tecnologie del XIX secolo, come fornaci e turbine, per alimentare i propri sogni di intelligenza artificiale.”21 Le sole esportazioni di pannelli solari cinesi nel 2024 sono state sufficienti a ridurre le emissioni globali di CO2 di 4 miliardi di tonnellate. Gli investimenti esteri cinesi nel Global South portano con sé posti di lavoro, indipendenza energetica, crescita economica, aria pulita.

Ed anche nei mercati interni dei Brics è in forte espansione il settore delle rinnovabili: nel 2024 la loro crescita è ovunque predominante raggiungendo il 53% della capacità elettrica installata, trainate soprattutto dall’espansione in Cina, India e Brasile. La Cina sta trasformandosi in un “elettrostato” promuovendo l’elettricità come vettore principale: una accelerazione che non solo riduce le emissioni e la dipendenza dalle importazioni di fonti fossili, ma alimenta anche la supremazia industriale e tecnologica in settori chiave. L’India, d’altra parte, ha raggiunto 220 gigawatt di capacità rinnovabile installata (il 43% della capacità elettrica), dopo aver aggiunto quasi 30 GW in un solo anno fiscale. Il Brasile, infine, vanta un parco di generazione elettrica tra i più puliti al mondo, con l’88% di capacità a basse emissioni.

L’intenzione della Cina alla Cop 30 non è quella di isolarsi, ma di guidare la leadership dei Brics in un contesto attento al Sud globale, tenendo a freno le difese di carbone, petrolio e gas di Russia e degli Emirati. In risposta a Trump, l’intervento di Xi Jinping all’Onu ha già chiarito la proiezione geopolitica che il Dragone intende assumere nell’evento che si tiene a Novembre a Belem. La risposta nemmeno tanto indiretta al presidente degli Stati Uniti che aveva liquidato la crisi climatica come una “truffa” è arrivata inequivocabile: “La transizione verde e a basse emissioni di carbonio è la tendenza del nostro tempo. Mentre alcuni paesi si stanno muovendo contro di essa, la comunità internazionale dovrebbe rimanere concentrata sulla giusta direzione, in uno sforzo scrupoloso e in un contesto internazionale aperto e solidale”. È evidente come Trump, con il suo rifiuto delle istituzioni multilaterali, Onu in primis, stia di fatto regalando alla Cina un ruolo centrale anche sul clima, oltre che nella geopolitica mondiale in generale, come testimonia ad esempio l’incredibile parziale riavvicinamento tra Pechino e Delhi seguito alla dura offensiva fatta a colpi di dazi dalla Casa Bianca contro l’India.

Per concludere

Proprio nel momento in cui l’utopia delle rinnovabili diventa realtà e il fotovoltaico e l’eolico dimostrano di essere la soluzione più economica e valida ai combustibili fossili, cresce la resistenza contro questa alternativa: talvolta come una opposizione dichiarata in nome della crescita e della guerra, talvolta come dilazione dei tempi per passare al nuovo paradigma facendo convivere (e prosperare) nuove tecnologie come il nucleare o il metano con annessa cattura della CO2. Si dice che le rinnovabili non poterebbero sostenere il peso di una fornitura energetica sufficiente, ma la radiazione solare che raggiunge la Terra è pari a circa 18.000 volte il fabbisogno energetico attuale e, se coprissimo, come dice Wright22, tutta la Terra di pannelli e turbine, otterremmo circa 3.500 volte più energia di quanto ce ne serva, coprendo 1/3500 della superficie terrestre (447mila kmq, la superficie della Spagna per intendersi). Detto in altre parole, per sostituire tutta l’energia fornita oggi dai combustibili fossili occorrerebbe meno della superficie che oggi coprono pozzi di petrolio, raffinerie, miniere, discariche di ceneri, oleodotti e gasdotti, serbatoi e tutte le altre infrastrutture per gas petrolio e carbone, messe insieme.

C’è poi una questione poco nota che riguarda l’energia da combustione. Anche con una crescita moderata della domanda, entro circa tre secoli il solo calore di scarto prodotto dall’uso dell’energia, quello che creiamo, ad esempio, quando usiamo un computer o un bollitore per l’acqua o un autoveicolo, potrebbe innalzare la temperatura globale di più gradi. Non potendo evitare tutte le forme di calore di scarto, almeno cerchiamo di evitare quelle, enormi, che accompagnano la produzione dell’energia primaria. Con Fv, eolico e moto ondoso questo problema non esiste: l’energia solare nelle sue varie forme, comunque colpirebbe il pianeta e si trasformerebbe in calore. Con altre fonti, come quelle fossili o nucleari, la questione è diversa, perché il loro calore è aggiuntivo a quello inevitabile proveniente dal sole e per questo ci danneggia. Va notato come il calore di scarto, peggiorando il riscaldamento globale dovuto ai gas serra, ha già effetti sul clima delle aree più industrializzate.

Siamo di fronte ad uno di quei rari cambiamenti della storia umana in cui passiamo da una fonte energetica dominante ad un’altra. Anche la Laudato si’ di Francesco ne era pienamente consapevole. L’ecologia integrale richiamata in questa Enciclica riprende la constatazione che le quattro forze fondamentali che governano il comportamento della materia – nucleare forte, nucleare debole, elettromagnetismo, gravità – hanno plasmato e caratterizzato l’universo in tempi tra loro distinti, distanti ere ai fini della regolazione di un ambiente adatto alla vita. Delle quattro forze, la radiazione elettromagnetica e la forza di gravità (sole, vento ed acqua) permangono oggi ad assicurare il proseguimento della vita che non deve essere compromessa con il ricorso ad energie come quelle nucleari troppo elevate ed incompatibili con la riproduzione del vivente. Qui sta il contrasto tra le fonti rinnovabili e quelle fossili e nucleari e l’affermazione nell’Enciclica che la natura non può essere considerata solo come – letteralmente – un “pozzo di energia”.

Come scrive l’ambientalista americano Bill McKibben,23 siamo di fronte ad un paradosso epocale: la maggior parte dell’espansione straordinaria del solare sta avvenendo non in Occidente, ma in Cina. che possiede un mix unico di capacità manifatturiera, pianificazione centrale e autoritarismo politico, difficilmente replicabile altrove.

Se davvero riconvertissimo nel segno dell’ecologia integrale non solo produzione e consumi, ma anche le relazioni sociali in un clima di fraternità anziché di competizione, nel pieno di un rilancio della democrazia sociale della nostra Costituzione, non aiuteremmo a trasformare anche i balbettii di una sinistra smarrita in un programma credibile e socialmente desiderabile? “Sarebbe – insiste McKibben – una rivoluzione capace di sovvertire l’economia della scarsità, da cui deriva gran parte della povertà, grazie a prezzi dell’energia bassi e stabili, sempre meno dipendenza dalle petro-dittature, e quindi più pace, riduzione drastica dell’inquinamento e persino un rinnovato legame con la natura”.

(*) in uscita su Alternative per il Socialismo. Le immagini qui usate – scelte dalla redazione della “bottega” – sono rubate al grande Altan.

NOTE

5 Le Nazioni Unite definiscono Net Zero la “riduzione delle emissioni di gas a effetto serra il più vicino possibile allo zero, con il riassorbimento delle emissioni rimanenti dall’atmosfera, dagli oceani e dalle foreste”.

13 Per Utility Scale, si intende un sistema fotovoltaico di vasta dimensione che supera o è equivalente ad 1MW (Megawatt), progettato per generare energia su larga scala.

20 Lo steampunk è un filone della narrativa fantastica, e più nel dettaglio di quella fantascientifica, che introduce una tecnologia retrofuturistica all’interno di un’ambientazione storica, spesso il XIX secolo 

Redazione
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