Ancora sull’Amazzonia in guerra

Reportage di MARINA FORTI (*) dalla foresta pluviale brasiliana dove è in corso una lotta di conquista per le risorse. Contro i popoli indigeni

 

Belem, Brasile

Gli attacchi continuano”, dice la giovane donna: “Non ne troverai notizia sui giornali, i grandi media osservano il silenzio. Ma i nostri villaggi continuano a essere attaccati dai tagliatori illegali di legname e i fazenderos continuano a invadere i territori delle nostre comunità”. Siamo nel campus dell’Università federale a Belem, la capitale del Parà, città di quasi tre milioni di abitanti affacciata sul rio delle Amazzoni – o meglio, su uno dei bracci laterali del fiume largo quanto un mare, che qui ha cominciato a formare il suo immenso delta. Belem è una porta dell’Amazzonia, e in questo campus universitario in riva al fiume si è riunito in settembre un forum “dei popoli e delle comunità tradizionali”. Rappresentano comunità native, sindacati rurali, delle organizzazioni di piccoli agricoltori e comunità rivierasche, e di movimenti sociali. Virginia, la dottoranda in jeans neri, con una piuma multicolore come orecchino e i capelli corti tinti di azzurro, è tra gli studenti di origine indigena che dirige l’incontro. Parla di attacchi quotidiani contro i leader delle battaglie per la terra, di movimenti di resistenza. Le notizie circolano tra le reti di organizzazioni indigene, i movimenti per la terra, le organizzazioni sociali.

In Amazzonia è in corso una sorta di guerra. È una guerra di conquista, combattuta a colpi di invasioni di terre, comunità assediate, scorrerie di bande armate agli ordini di imprenditori agricoli (qui li chiamano fazenderos) e attivisti uccisi. Combattuta anche con il fuoco: centinaia di incendi che bruciano ormai da un paio di mesi, segno inequivocabile di come uno sfruttamento insensato delle risorse stia devastando la più grande regione di foresta tropicale del pianeta.

Anche gli incendi fanno parte della “guerra di conquista”. Dall’inizio di agosto divampano in ampie zone della regione amazzonica brasiliana, lungo una linea chiamata “arco della deforestazione”: una fascia che va dal Parà meridionale a parte del Mato Grosso, al Rondônia che confina con la Bolivia, fino allo stato di Acre verso la frontiera con il Perù: come una grande mezzaluna che attraversa diversi stati e circonda l’Amazzonia da sud. (Altri incendi sono nel nord, nel Roraima, un altro stato pesantemente deforestato verso la frontiera con il Venezuela).

Gli incendi non sono una novità assoluta, compaiono ogni anno all’inizio della stagione secca (ma sarebbe meglio dire “meno umida”, qui piove quasi ogni giorno), quando i coltivatori bruciano i campi per preparare una nuova semina: la queimada è una pratica tradizionale e regolamentata, spiega Mara Dultra, grande esperta della regione amazzonica, consigliera della rete di organizzazioni sociali chiamata Cese (che avevo incontrato nella sua sede a Salvador, nello stato di Bahia). Questa volta però è successo qualcosa di più, spiega. Gli incendi sono triplicati rispetto alla media degli anni scorsi, per numero e per estensione, e hanno raggiunto o forse superato il picco del 2010, che fu un altro anno di crisi. Sono i dati ufficiali a dirlo. Gli ultimi sono quelli diffusi il 6 settembre dall’Inpe, l’Istituto nazionale di ricerca spaziale, che monitora il territorio brasiliano grazie alle foto dei suoi satelliti. Il 29 agosto l’Inpe registrava 1.255 fuochi attivi, il doppio del giorno precedente. La gran parte arde nelle foreste del Parà (quasi seicento), seguito dal Mato Grosso, Amazonas, Rondônia, Acre. In tutto agosto sono stati più di trentamila, e per volume hanno superato la media storica degli incendi d’agosto. Nei primi giorni di settembre continuavano ad aumentare. Città come Altamira, nel Parà, sono circondate dalle fiamme e coperte dal fumo.

Il numero di incendi attivi ha una relazione diretta con la deforestazione, anche questo è confermato dai dati. L’Inpe informa che nei primi otto mesi dell’anno, fino a tutto agosto, sono stati disboscati 6,400 chilometri quadrati di foresta amazzonica, il 92 per cento più rispetto all’anno prima, e il ritmo è triplicato nel solo mese di agosto. Tagliati gli alberi, le fiamme servono a liberare la zona deforestata per poi farne pascoli o coltivazioni.

La crisi degli incendi ha una data di inizio. È il 10 agosto, quando centinaia di roghi sono stati appiccati contemporaneamente dal Parà al Rondônia. È stato chiamato “o dia do fogo”, il giorno del fuoco. “È stato un atto criminoso e i responsabili non sono un mistero, si conoscono per nome e cognome, sono alcuni grandi fazenderos”, spiega Josè Carlos Zanetti, attivista dei movimenti per la terra che ho incontrato presso la Cese. E non si trattava di ripulire i campi. Con gli incendi coordinati “abbiamo inteso appoggiare il governo”, hanno dichiarato con candore alcuni fazenderos al giornale Folha do Progresso, del Parà: sostenere la politica del presidente Jair Bolsonaro di aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento economico.

È proprio questo il punto: “aprire” la foresta significa entrare in nuovi territori, quelli delle riserve indigene o comunque protetti come le “riserve estrattiviste”, quelle affidate a comunità rurali che raccolgono gomma naturale (i seringueiros) o altri frutti della foresta, o coltivano piccole porzioni di terreno a rotazione in modo sostenibile e controllato, su piccola scala: create negli ultimi trent’anni, le riserve estrattiviste nascevano da un movimento popolare guidato da uno straordinario personaggio, Chico Mendez, ucciso esattamente trent’anni fa da uomini armati al servizio di alcuni latifondisti. La guerra per conquistare l’Amazzonia è antica.

La crisi degli incendi ha i suoi risvolti politici, interni e internazionali: quando l’Istituto nazionale di ricerca spaziale ha diffuso i primi dati sulla deforestazione, all’inizio di agosto, il presidente Jair Bolsonaro dapprima ha negato, poi ha licenziato il direttore dell’Istituto reo di aver creato eccessivo allarme. Poi ha incolpato “le ong”. L’allarme aveva già raggiunto i mass media internazionali, creando scintille nelle relazioni tra il Brasile e il mondo; da un lato governi europei improvvisamente preoccupati della salute del “polmone del pianeta”, dall’altro uno strafottente Bolsonaro che replica “l’Amazzonia è nostra”. Con un tardivo intervento, a metà agosto il presidente brasiliano ha mandato 40 mila uomini delle forze armate a contenere le fiamme. Il 28 agosto ha firmato un decreto che vietava nei successivi 60 giorni di appiccare fiamme. Ma non sembra molto efficace, secondo l’Inpe i fuochi attivi sono raddoppiati nei giorni seguenti.

Ma torniamo al punto: “Gli incendi aumentano e temiamo il peggio, la stagione secca è appena all’inizio”, spiega Mara Dultra. Le comunità rurali che vivono nel fondo della foresta sono assediate dalle fiamme, spiega; interi villaggi sono in emergenza sanitaria perché respirano fumo e molti sono costretti alla fuga. Forse, al momento di stampare queste righe le fiamme avranno cominciato a calare, ma le conseguenze perdureranno a lungo, spiega. “Uno degli effetti è mettere in pericolo la loro sicurezza alimentare nel prossimo anno, perché sono bruciate le zone di raccolta su cui si fondavano”. Ma è solo l’inizio, teme Dultra. Le politiche di protezione della foresta e dei suoi abitanti sono state depotenziate e delegittimate. L’ente di protezione ambientale (Ibama), quello per le popolazioni indigene (Funai), “tutte le istituzioni di ricerca e di controllo sono senza fondi, demoralizzate, smobilitate. Hanno rilassato le normative ambientali, il ministro dell’ambiente dice che bisogna sfruttare ‘in modo razionale’ le risorse forestali, renderle produttive, sviluppare le miniere, l’allevamento, l’agricoltura. Parlano di aprire le zone di conservazione, che sommate alle riserve indigene e a quelle estrattiviste sono un territorio notevole. Con un messaggio simile, l’agro-business è perfettamente legittimato ad andare all’assalto dell’Amazzonia. I disboscatori illegali sanno di avere un governo amico”.

 

Il linguaggio del governo Bolsonaro – “aprire” la foresta, “l’Amazzonia è nostra” – non è nuovo. È quello usato già mezzo secolo fa dai militari, quando hanno preso il potere con un golpe nel 1964 (la dittatura in Brasile è durata fino al 1985). È il regime militare che ha lanciato il primo sfruttamento “moderno” della foresta amazzonica e delle sue ricchezze naturali, e il primo atto fu costruire grandi strade che tagliano la foresta: la Transamazzonica (BR 230) dalla costa Atlantica fino a Porto Velho, la BR 364 da nord a sud attraverso il Rondônia. Le strade hanno permesso di raggiungere zone prima remote: la foresta amazzonica è un mondo fitto dove le sola via di comunicazione naturale è la ragnatela di fiumi che la attraversa.

Con le strade, è stato possibile raggiungere zone remote (la relazione tra strade e deforestazione è accertata), e insieme alle strade il governo ha dato incentivi a contadini desiderosi di emigrare e “conquistare” nuove terre per sé. La foresta è stata tagliata per il legno pregiato, per aprire miniere, e per guadagnare terra da coltivare – canna da zucchero, soja, caffe, cacao, palma da olio, e poi grandi allevamenti di bovini, secondo la domanda del mercato. Così il Brasile ha avuto il suo mito della “frontiera”, terre da colonizzare, coltivare, sfruttare. “La povera gente dagli stati del sud seguiva il sogno di un proprio rancho”, osserva Frei Atilio Battistuz, un francescano impegnato ad organizzare il lavoro sociale nelle diocesi del delta amazzonico (l’ho incontrato a Belem, nello stato di Parà). “Là c’era terra per tutti, gli dicevano”: nel Mato Grosso, poi nel Rondonia, poi via via sempre più a nord all’interno della regione amazzonica: il Mina Gerais, l’Acre. Ma quella terra non era vuota.

L’Amazzonia è un territorio conteso”, riassume Battistuz. “Ha tutto ciò che serve allo sviluppo capitalista”: legname, risorse minerarie, fiumi su cui costruire impianti idroelettrici. Dice che quella in corso è una guerra di culture: “Da dove vengono coloro che disboscano, attaccano le comunità rurali, i fazenderos che vogliono sbarazzarsi delle riserve protette? È la vecchia mentalità colonizzatrice che perdura da secoli”.

Oggi la frontiera è qui, nel Parà, uno stato grande come Francia e Spagna sommate. Belem è una sorta di confine tra il mondo acquatico dell’Amazzonia e quello delle grandi tenute agricole. Uscite di città verso nord-ovest e sud, e vi troverete in un Texas equatoriale: dove c’era la foresta sono distese di pascoli, mandrie di bovini, aziende agricole grandi e piccole. Lungo l’autostrada federale (qui è la BR 316) si allineano enormi stabilimenti dove la soia è trasformata in mangimi, concessionarie di veicoli agricoli, depositi di sementi, banche che pubblicizzano crediti per le aziende di allevamento – oltre a supermercati e centri di shopping che ricordano un midwest statunitense di seconda categoria, in cui si muovono famigliole bianche con grandi suv e pick-up.

Invece, da Belem affacciatevi sulla baia fluviale dove arrivano i grandi cargo oceanici, oltrepassate il grande terminal di Barcarena, dove fanno il carico di minerali e soia, risalite il Rio e i suoi bracci laterali, schivate le grandi chiatte cariche di legname, ed eccovi nel mondo dell’acqua. Un mondo dove il rio è il tessuto di connessione per chi vive della foresta, di piccola agricoltura. Dove la vita si svolge sulle canoe, o sulle piccole barche di linea dove si viaggia oscillando sulle amache. Ma è un mondo conteso. “Le comunità tradizionali coltivavano su piccola scala, allevavano piccolo bestiame. Sono travolti dalle grandi fazendas, i grandi allevamenti di bovini che richiedono molta più acqua e depredano la terra, dalla monocoltura”, insiste Frei Luciano Bernardi, che per molti anni è stato un responsabile della Pastorale della Terra, organizzazione creata negli anni ’70 dalla Chiesa cattolica per dare sostegno ai movimenti per la terra.

Certo, in questa annosa guerra di conquista ci sono stati momenti diversi. Qui tutti evocano gli anni del governo dell’ex presidente Ignacio Lula Da Silva come un momento di respiro: non che si fosse fermato il disboscamento, ma era rallentato. La fine della dittatura militare aveva portato in Brasile un nuovo clima sociale; la Costituzione del 1988 aveva affermato principi di cittadinanza, sancito l’autodeterminazione dei popoli indigeni. Aveva permesso di riparlare di riforma agraria, redistribuzione. Aveva fatto emergere comunità discriminate come quelle dei quilombolas, i discendenti degli schiavi africani che fuggivano dalle piantagioni e si ritiravano in comunità libere nella foresta (alcune, nel diciottesimo secolo, diventarono famose): nel Brasile moderno sono stati dimenticati; con la nuova costituzione hanno acquistato una cittadinanza. Negli anni di Lula si cominciava almeno a parlare di redistribuzione. Ora il Brasile è come dopo un nuovo golpe, strisciante, cominciato con l’attacco alla presidente eletta Dilma Roussef, e con la pretestuosa condanna di Lula. Per l’Amazzonia, il progetto di Bolsonaro è chiaro: rimettere in questione i concetti di “ambientalismo, indigenismo, quilombolismo”, “integrare l’Amazzonia alla nazione”.

Mara Dultra fuma di rabbia: “Siamo tornati alla militarizzazione dell’Amazzonia”. Parla di manipolazione: “Abbiamo un ministro dell’ambiente molto abile. Dice che anche gli indigeni vogliono lo sviluppo: ma quello che gli offre è di vendere le terre delle riserve, come se fosse un affare alla pari. A volte li convincono anche, ma quando una comunità tradizionale ha perso la terra ha perso ogni ancoraggio alla sua vita sociale, il suo essere, e anche la sua sopravvivenza”. La protezione della foresta amazzonica è una questione di partecipazione, insiste Dultra: si è costruita con anni di dialogo tra i popoli indigeni, le altre popolazioni della foresta, la piccola agricoltura familiare, e gli esperti governativi, i ricercatori, scienziati. Tutto questo rischia di scomparire.

Non avverrà senza resistenze, però. Anche in Amazzonia, come in tutto il Brasile, resta un fronte sociale effervescente. Movimenti per la terra, comunità indigene, quilombos, anche le chiese: il Sinodo per la terra convocato questo ottobre in Vaticano è stato preceduto da una grande mobilitazione di base (vedi box).

Intanto però la “guerra di conquista” ha i suoi caduti. La Pastorale della Terra compila dal 1985 un elenco annuo di conflitti, di morti, feriti. L’anno scorso ha contato 71 assassini, il maggior numero del 2003: significa un morto ogni cinque giorni in conflitti per la terra, omicidi mirati di leader indigeni o sindacalisti rurali. Sempre l’anno scorso ci sono stati cinque massacri, con 31 vittime. Il Parà e l’Acre hanno il maggior numero di vittime. L’ultimo caso, in ordine di tempo, è avvenuto il 6 settembre a Tabatinga, cittadina all’estremo ovest dell’Amazzonia brasiliana, alla “tripla frontiera” tra Brasile, Colombia e Perù, dove un noto attivista sociale è stato ammazzato a colpi di mitraglietta sotto gli occhi della sua famiglia, per strada e in pieno giorno: Maxciel Pereira dos Santos era un funzionario dell’Agenzia federale brasiliana per i popoli indigeni, Funai, e si era battuto contro l’invasione di cacciatori, tagliatori di legname e cercatori d’oro nella riserva indigena di Vale do Javari, zona remota che ospita numerose popolazioni indigene isolate. (La Funai è stata spesso al centro di polemiche, la sua politica di protezione dei popoli “incontattati” è discussa. Resta però il fatto che la pressione di disboscatori illegali e garimpeiros (i cercatori d’oro artigianali) si fa sentire in zone sempre più remote della foresta amazzonica, come fossero le avanguardie di un’armata di coloni e fazenderos. La guerra per l’Amazzonia continua.

 

Box – L’ecologia sociale dei vescovi in Amazzonia

C’è chi parla di “conversione”, chi evoca “lo spirito del Concilio Vaticano secondo”, quello che nei primi anni ’70 in America Latina aveva segnato l’apertura della chiesa ai movimenti sociali. Certo è che il Sinodo dei vescovi dell’Amazzonia, che si terrà a Roma dal 6 al 27 ottobre, è stato preceduto da due anni di mobilitazione della chiesa cattolica in una regione che si estende tra Brasile, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Suriname, Guyana e Guyana francese.

Un lavorio che ha coinvolto comunità di base e mondo ecclesiale ed è riassunto in un documento di lavoro (“Instrumentum Laboris”) per molti aspetti sorprendente. Primo, perché fa una diagnosi cruda. “La vita in Amazzonia è minacciata da distruzione e sfruttamento ambientale” e dalla sistematica “violazione dei diritti fondamentali dei popoli originari”, si legge; il diritto alla terra e all’autodeterminazione sono minacciati “da interessi economici, in particolare dalle compagnie estrattive, spesso con la connivenza dei governi locali e nazionali e delle autorità tradizionali”. I vescovi denunciano la criminalizzazione e l’assassinio di leader locali e difensori del territorio; l’appropriazione e privatizzazione di beni naturali; i megaprogetti idroelettrici, le concessioni forestali e minerarie che portano all’espulsione degli abitanti; l’inquinamento provocato dall’industria estrattiva; il narcotraffico. “Tutto questo aumenta l’impoverimento dei popoli amazzonici”, oltre a minacciare gli ecosistemi e il clima globale.

Ma l’aspetto più sorprendente è l’apertura a concetti propri delle cosmovisioni amazzoniche, basate sull’armonia dei rapporti tra acqua, territorio e natura. L’Amazzonia, affermano i vescovi, è un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso, e la chiesa ha molto da imparare dai popoli indigeni con la loro forte spiritualità: serve “un dialogo interculturale in cui i popoli tradizionali siano principali interlocutori”. Ma questo significa fare i conti con il ruolo avuto dall’istituzione cattolica: “La Chiesa a volte è stata complice dei colonizzatori”.

Nel lavorio di base che precede il Sinodo inoltre ha molta risonanza l’appello alla “ecologia integrale” già enunciata da papa Francesco nella enciclica Laudato Si: “Un vero approccio ecologico è sempre un approccio sociale” che ascolta “il grido della terra insieme al grido dei poveri”. La chiesa dunque fa appello al dialogo e alla resistenza, alla “santa indignazione” di San Tommaso d’Aquino contro le ingiustizie. Un’apertura sociale che non si sentiva da tempo.

(*) reportage e box sono ripresi dal numero di ottobre del mensile «Altreconomia» che, come abbiamo più volte scritto, è uno dei pochi cartacei meritevoli di lettura: se ci consentite un consiglio … abbonatevi.

 

Redazione
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