Disarmiamo i sostenitori di genocidio e guerre.
di Enrico Semprini
Palestina: demistificare il linguaggio del nemico.
Sui media e nel linguaggio istituzionale, si utilizza continuamente una etichetta vaga che però ha una funzione ben precisa: giustificare il massacro in corso. Il termine di cui discutiamo è “terrorista”.
L’idea è che il terrorista possa essere impunemente ammazzato: nel linguaggio dominante dunque, quando si mette questa etichetta si disumanizza chi la porta.
Se muoiono altre persone attorno, quello viene definito “danno collaterale”.
Ha qualcosa a che vedere con il diritto? No, ha qualcosa a che vedere con la propaganda.
Vediamo cosa dice il diritto:
«Negli scenari delle operazioni militari e nei teatri di guerra contemporanei, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, tattiche del tipo sono state usate da e contro le forze militari e civili dispiegate sul campo, anche a scopo di monitoraggio e controllo.[16]
Il diritto umanitario «proibisce esplicitamente certe tattiche terroristiche che possono emergere durante un conflitto armato (per es. attacchi contro civili, “perfidia”, fingere di essere un civile mentre si partecipa ai combattimenti), ma anche gli “atti di terrorismo”. La quarta Convenzione di Ginevra dichiara che “le sanzioni collettive e in maniera simile tutte le misure intimidatorie o terroristiche sono proibite”, mentre il Protocollo aggiuntivo II proibisce gli “atti di terrorismo” a danno di quanti non prendono parte o hanno smesso di prendere parte alle ostilità. Inoltre, i Protocolli aggiuntivi I e II proibiscono gli atti volti a spargere il terrore tra la popolazione civile (quali le campagne di bombardamento di aree urbane o gli attacchi di cecchini)».
Torniamo alla definizione di “terrorista”: Hamas è definita “organizzazione terrorista” da Stati Uniti ed Unione Europea, mentre Hezbollah è definita organizzazione organizzazione terrorista solamente dagli Stati Uniti. Tuttavia in Europa un paese che non è parte della UE come la Svizzera definisce come terrorista solamente l’ala armata di Hamas, ma non Hamas. Se poi allarghiamo ancora di più lo sguardo ad altri paesi ci rendiamo conto che il battesimo di una forza politica come “terrorista” è legato a motivazioni di carattere politico strategico e non certamente da ragioni relative a qualche fondamento di diritto internazionale.
Per capire meglio il tema ci avvaliamo di due contributi:
1 – una definizione estratta dal sito della Enciclopedia Treccani che se letto per intero ci permette di capire che siamo all’interno di un tema che è allo studio senza che si sia arrivati a precise definizioni o ad una conclusione del dibattito;
2 – un estratto da Jura Gentium, nel quale Danilo Zolo mette in luce come ci possa essere una lettura del diritto che rende illegittimo considerare come terroristi gli atti dei popoli che resistono ad occupazioni militari o a situazioni di apharteid.
Treccani1: “Il terrorismo è stato così definito come l’attività di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusivo di forme d’azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalentemente politico.”
Se consideriamo la dimensione sociale di entrambe le formazioni politiche, Hamas ed Hezbollah, ci rendiamo subito conto che sono organizzazioni con un radicamento di massa, che svolgono funzioni amministrative e partecipano alla vita parlamentare la prima della Palestina, la seconda in Libano.
Certamente non sono “organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte”.
Già solo questo ci permetterebbe di capire che “gli omicidi mirati” o indiscriminati con i quali vengono colpiti dall’esercito israeliano entrambe le formazioni, sono atti senza nessuna legittimità.
Passiamo tuttavia a Zolo2:
“Questi autori sostengono che i «combattenti per la libertà» o i partigiani in lotta per la liberazione del proprio paese – i sudafricani che lottavano contro l’apartheid o i palestinesi che da decenni «resistono» all’occupazione del loro territorio da parte dello Stato di Israele – non possono essere considerati dei terroristi, qualunque sia l’operazione militare che essi pongono in atto. In questi casi lo spargimento del sangue di civili innocenti, per quanto vietato dal diritto internazionale come un crimine di guerra – anzitutto dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 – non dovrebbe essere qualificato come terrorismo. Nel 1998 e nel 1999, le Convenzioni internazionali della Lega Araba e della Conferenza islamica hanno ribadito con forza questa posizione.
Non si tratta, occorre sottolinearlo, di una questione puramente formale, poiché la definizione di un’organizzazione come terroristica – si pensi alle liste arbitrariamente predisposte dal Dipartimento di Stato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea – ha conseguenze rilevantissime. Le ha dal punto di vista degli ordinamenti giuridici interni … Il predicato «terrorista» ha conseguenze anche dal punto di vista del diritto internazionale. …
Ma vi è un’altra grave riserva … Terroristi sono sempre e soltanto i membri di organizzazioni che operano privatamente e clandestinamente, non i militari inquadrati negli eserciti nazionali. Gli Stati e i loro apparati militari non possono essere equiparati a delle organizzazioni criminali terroristiche. Qualsiasi azione da essi intrapresa – anche la più violenta, distruttiva e lesiva delle vite e dei beni di civili innocenti – non è considerata terroristica. … Le istituzioni internazionali universalistiche, sorte nella prima metà del secolo scorso – in primis le Nazioni Unite – non hanno il minimo potere di delegittimare le guerre di aggressione vittoriosamente condotte dalle grandi potenze. Solo le guerre degli sconfitti sono guerre criminali.”
Capiamo da questo intervento che l’illegittimità delle definizione di “terrorista” è portata avanti da uno dei più importanti filosofi del diritto del ‘900 italiano.
La questione è importante perché praticamente quasi tutti i giornalisti italiani (e probabilmente occidentali) danno per scontato che dire che gli israeliani hanno sparato ed ammazzato anche decine o centinaia di persone per colpire un terrorista è giustificativo dell’azione intrapresa. Ma se non ha senso definire terroristi gli appartenenti ad Hamas o ad Hezbollah, allora è chiaro che cade ogni giustificazione alle azioni dell’esercito israeliano.
E’ importante l’uso dei termini e la strumentalizzazione che si fa di quei termini: gli oppressori, nostrani e non, usano dei termini precisi per giustificare la loro propaganda ed è fondamentale che impariamo ad utilizzare criteri diversi per analizzare la realtà.
Cambiamo fronte.
Per discutere della guerra tra Russia ed Ucraina, utilizziamo una lente che passa dal ruolo della Russia all’interno del conflitto in Sudan.
Ci sono interessi anche dell’UE e degli USA in quel conflitto, sia chiaro, ma qui ci limitiamo a capire una cosa: la Russia ha una sua propria visione imperialista e coloniale e degli interessi strategici perseguiti con la stessa dose di cinismo tipica dei paesi europei.
Nel 2023 si poteva leggere in rete che “Mosca… ha dichiarato il proprio supporto a Hemedti fornendo armi e assistenza militare. La ragione di questo aiuto si trova in interessi economici comuni più che in motivazioni di vicinanza ideologico-politica: nella figura di Hemedti il Cremlino ha trovato infatti un ottimo partner in grado di garantirle accesso alle riserve minerarie di oro – di cui il Paese è particolarmente ricco – in cambio di supporto militare … Hemedti è il capo delle Forze di Supporto Rapido (RSF).”
Se l’esercito regolare sudanese non è considerato estraneo alla esecuzione di massarci, le RSF sono considerate un gruppo dedito alla pulizia etnica dei territori da loro controllati3.
Quest’anno leggiamo invece dal sito di Nigrizia4 che in Sudan la Russia ha raggiunto un accordo per una base militare russa sul Mar Rosso. L’apertura di una sua base militare sulle coste del Mar Rosso è un obiettivo che Mosca rincorre da anni. Dopo l’annuncio del raggiungimento di un’intesa definitiva per la sua realizzazione, quello che è oggi uno dei punti più caldi del pianeta rischia di diventare incandescente.
Non ci interessa seguire qui le vicissitudini che hanno visto la Russia allearsi con entrambe le fazioni in campo in modo completamente spregiudicato nel corso del tempo: ci serve per capire che la Russia si muove sulla base di suoi disegni di potere nello scacchiere internazionale.
Attraverso questo fatto, riusciamo a capire che:
a – se è vero che nei governi occidentali si muovono interessi che hanno cercato di stimolare l’interventismo russo in Ucraina attraverso l’espansione della Nato, se è vero che nel 2022 era stato raggiunto un possibile accordo di pace e che dall’Inghilterra, corroborata dagli Stati Uniti, sono partiti dei messaggi che sono riusciti a boicottarli, se attualmente l’Unione Europea mostra un interesse per la guerra indipendente dallo stimolo degli Stati Uniti
b – è anche vero che le mire della Russia non sono unicamente difensive, che non si muovono per un interesse legato a parti della popolazione civile ucraina e che di conseguenza chi non vuole essere subordinato alla Russia ha diritto di difendersi.
Per questo sintetizzando: si deve essere contrari al riarmo europeo, contrari all’illecito finanziamento della guerra Russo-Ucraina, per il diritto all’autodeterminazione dei popoli ed al fatto che dovrebbe essere un referendum della popolazione del Donbass a decidere se vogliono stare soli o con gli uni o gli altri dei contendenti, infine contrari all’imperialismo Russo in maniera non meno determinata di quello contro i nostri imperialismi nazionali, eurounitari e della Nato.
Note di chiusura: che cosa vuol dire essere “campisti”?
Quando si parla contro il riarmo europeo, contro le politiche che intendono proseguire la guerra in Ucraina, contro il genocidio e l’occupazione progressiva del popolo e del territorio palestinese, contro gli attacchi agli Hezbollah, quando si è riconosciuto un ruolo talvolta legittimo alle forze Yemenite ed Iraniane nella ribellione contro l’attività genocida israeliana pur continuando nella critica politica rispetto alle problematiche sociali che si vivono in quei regimi, si è talvolta accusati, per chi ama parlare difficile, di essere dei “campisti”.
Non senza ironia, qualcuno diceva che il campismo era assimilabile a chi assisteva alla politica come ad una partita di calcio, nella quale devi fare il tifo per forza per uno dei contendenti anche se non gioca nessuno con il quale provi affinità.
Per spiegare il termine (e per capire che se si è davvero di sinistra non si appoggia alcun regime per quanto sia inviso ai propri oppressori) riportiamo il testo di Fabio Guidi che segue, come questione politica di interesse per la sinistra attuale… anche se l’articolo è di qualche anno fa.
E tratto dal sito “Brescia Anticapitalista”5:
Cosa c’è dietro il “campismo”?
Negli ultimi anni abbiamo fatto la conoscenza con un fenomeno politico, all’interno della sinistra, apparentemente nuovo: il cosiddetto “campismo”. In realtà sarebbe più corretto definirlo “neo-campismo”, perché il “campismo” storico faceva riferimento al cosiddetto “campo socialista” (guidato dall’URSS, o dalla Cina, o da entrambi). Il concetto era piuttosto semplice, ed aveva, a modo suo, qualche legame con la tradizione rivoluzionaria. Da un lato c’era l’imperialismo (in particolare quello USA). Dall’altro c’erano i paesi non capitalisti (per molti addirittura “socialisti”) che “oggettivamente” contrastavano, con la loro mera esistenza, il pieno dispiegarsi dell’aggressività imperialista. Le sfumature erano moltissime all’interno di questo “campismo”. Si andava da chi era disposto a chiudere non un occhio, ma entrambi gli occhi, le orecchie e tutti e 5 i sensi, pur di giustificare qualsiasi malefatta dell’URSS (o della Cina), in nome della vecchia massima machiavellica del “fine giustifica i mezzi (tipica della realpolitik, non certo del marxismo), fino a chi, pur criticando anche aspramente gli opportunismi e i veri e propri tradimenti delle direzioni sovietica e/o cinese, riteneva, un po’ alla Churchill, che fossero “dei figli di puttana, ma comunque i NOSTRI figli di puttana“. In un certo senso, nella sinistra “comunista”, tutti eravamo, chi più chi meno, contagiati da questa “malattia” (escluse le piccole correnti bordighiste e, in buona misura, gli anarchici). Lo stesso Trotsky ripeteva continuamente il mantra della “difesa dell’URSS”, nonostante fosse guidata dal “becchino della rivoluzione”, il prete mancato (e criminale seriale) Josif Stalin. Magari quelli come il sottoscritto preferivano Cuba, rispetto ad un URSS o una Cina che, negli anni Settanta, avevano perso, almeno per quelli come me, ogni attrattiva. Ma, appunto, Cuba stessa sembrava una campionessa del campismo (pur non rinunciando del tutto, almeno fino al 1968, alle giuste critiche verso i “giganti” del “campo socialista”). Era, insomma, in un certo senso, una specie di sostituto della lotta di classe. Il proletariato, gli sfruttati, sarebbero stati più o meno identicati con gli stati che avevano “superato” il capitalismo. Ovviamente la restaurazione capitalista nei paesi dell’ex “blocco sovietico” e, seppur in forme diverse, in Cina, Vietnam, ecc. ha lasciato completamente orfani milioni di compagni che vedevano in quelle società dei punti di riferimento. La maggior parte di loro ha abbandonato non solo il campismo, ma addirittura ogni riferimento al socialismo e alla possibilità di dar vita a società “post-capitalistiche”. E si ritrova oggi nel PD o in altri partiti analoghi in giro per il mondo. Quando non è passata direttamente al servizio della destra reazionaria (vedi il “piccolo timoniere” ex maoista Aldo Brandirali, leader del PCI (m-l), poi finito in CL e Forza Italia al seguito del suo guru Formigoni). La cosa che mi fa un po’ ridere (amaramente) è stata ritrovarmi a discutere con gente che, quando avevo 20 o 30 anni e osavo criticare l’URSS o la Cina, quasi mi menava, e negli ultimi anni dice peste e corna, in modo manicheo, di quelle stesse società che sosteneva acriticamente 15 o 20 anni prima, cancellando completamente la complessità di quelle stesse società e gli stessi aspetti contraddittoriamente positivi delle stesse (che per me, e su questo non ho cambiato idea, erano purtroppo di gran lunga meno significativi di quelli negativi).
Alcuni, però, orfani di quelle società, hanno mantenuto quel modo di pensare, magari attualizzato alla luce della globalizzazione e della geopolitica. E a questi si sono aggiunti un certo numero di giovani compagni, nati politicamente già orfani, e quindi portati ancor più facilmente a sposare una mitologia invece di attrezzarsi con gli strumenti razionali del marxismo (o dell’anarchismo) per analizzare concretamente la realtà sociale contemporanea. Devo dire che, a scanso di equivoci e non certo per una captatio benevolentiae a buon mercato, c’è, a mio avviso, una parte per così dire “sana” di questa propensione dualistica e manichea a scegliere un “campo”. Ed è la tensione ideale a combattere fino in fondo il “proprio imperialismo”, quello di casa. Che, sia detto per inciso, è quello più aggressivo e più potente, sia dal punto di vista economico che politico e culturale. E non mi riferisco qui nello specifico all’imperialismo italiano, ma a quello che viene percepito come un imperialismo “occidentale” globale (a guida USA), magari sorvolando sulle stesse contraddizioni interimperialistiche (che stanno tra l’altro acutizzandosi sempre più, come da manuale, nella lunga crisi iniziata 10 anni fa). Un atteggiamento “sano”, dicevo, una comprensibile e doverosa reazione agli sbracamenti vergognosi dei personaggi alla Veltroni (quello che già negli anni ’60 aveva come mito Kennedy invece del “Che”, almeno a quanto disse 25 anni fa). Reazione che porta magari compagni che definivano l’URSS come “socialimperialista” e nemico numero uno ai tempi della “moda maoista” ad esaltarsi al giorno d’oggi e a mettersi la mano sul cuore quando sentono le note del (peraltro musicalmente apprezzabile) inno sovietico.
Ma, ben più pesante, dal punto di vista politico, è la parte a mio avviso tutt’altro che sana di questo “neocampismo a prescindere”. Mi riferisco alla sistematica sottovalutazione (se non negazione tout court) degli aspetti assolutamente reazionari e negativi degli stati ritenuti, a torto o a ragione, alternativi o comunque d’ostacolo alle mire espansionistiche e aggressive degli imperialisti occidentali. E non mi riferisco tanto qui ai gruppi dirigenti di uno Stato come il Venezuela di Maduro, un paese capitalista e non certo socialista, ma sicuramente non paragonabile alle feroci dittature che non hanno nulla a che vedere (neppure nel richiamo simbolico e formale) con la storia e la tradizione del movimento operaio e socialista. Si arriva insomma ad applicare, con trenta o quarant’anni di ritardo, una pratica di realpolitik priva di principi (anzi, con l’unico principio del “il nemico del mio nemico è mio amico”) che è pericolosissima e rischia di essere la tomba di ogni prospettiva non dico comunista, ma persino moderatamente progressista. Si assiste così all’esaltazione, da parte di alcuni compagni, del “superpresidente” Putin, esponente di punta del rinnovato imperialismo russo e portatore di una concezione politica ultrareazionaria, erede delle aquile zariste e seguace, seppur a modo suo, di tendenze “euroasiatiste” debitrici delle correnti più estremiste della destra slavofila; che non disdegna, quando lo ritiene opportuno, di lasciare qualche piccolo spazio strumentale a innocue nostalgie di tipo “sovietico”, purchè funzionali all’affermazione “patriottica” dello sciovinismo “grande-russo”. E, di cedimento in cedimento, per una sorta di proprietà transitiva, si passa dal sostegno a Putin a quello ad Assad, o al clero iraniano, e persino, seppur con minor entusiasmo (e , per fortuna, con numerose defezioni, grazie all’appartenenza alla NATO) al nemico numero uno del popolo curdo, il “sultano” islamo-fascista Erdogan (vista la inaspettata luna di miele col nuovo zar del Cremlino). La lotta di classe e l’internazionalismo (i due pilastri imprescindibili di ogni politica che voglia definirsi rivoluzionaria) vengono messi pian piano sullo sfondo, sostituiti, in tutto o in parte (almeno per ciò che va oltre i “nostri” confini) da una geopolitica che si ritiene abile e “furba”, ma che in realtà si rivela sempre più un cavallo di Troia delle ideologie più reazionarie dell’avversario di classe. Per cui molto spesso i compagni che adeguano, in tutto o in parte, il loro progetto politico al discorso “neo-campista”, finiscono per veicolare (credo in perfetta buona fede -ma, come si sa, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno-) l’irrompere via via di concetti lontanissimi dal socialismo, come il “sovranismo”, “l’anti-cosmopolitismo”, la “lotta contro la mondializzazione”, il “comunitarismo”, la “teoria del complotto” (magari giudaico-massonico), l’abbandono della battaglia anticlericale (come nel caso della dittatura islamista iraniana), ecc. ecc. Non è un caso che spesso si trovino (loro malgrado) a condividere terreni ideali comuni con le correnti dell’estrema destra più squallida (i cosiddetti rossobruni, o magari i “bruni” tout court), in Italia come in Francia, per non parlare della Russia o dei paesi dell’est o del Medio Oriente, che hanno una lunga tradizione di “battaglie” contro l’Occidente “decadente” e “cosmopolita”. Una china molto
pericolosa per chi, credendo di combattere in modo più efficace (rispetto ai presunti “idealisti” che continuano a mantenersi integralmente sul terreno della lotta di classe e dell’internazionalismo conseguente) il “nemico principale”, finisce prima per mettere la sordina, e poi per tacere completamente l’assoluta estraneità ai “nostri” valori e alle nostre lotte dei protagonisti dell’altro (presunto) campo. E ricordiamo che quasi sempre, quando si lascia aperto lo spiraglio per permettere alle idee e alle pratiche dell’avversario di classe di penetrare nelle nostre file, quello spiraglio diventa una voragine in cui si finisce inghiottiti.
Flavio Guidi
1 https://www.treccani.it/enciclopedia/terrorismo_(XXI-Secolo)/
2https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/globterr.htm
Danilo Zolo divenne assistente e poi professore nell’Università di Sassari, e successivamente presso l’Università di Siena. Chiamato a Firenze come professore ordinario di filosofia del diritto, vi rimase fino al pensionamento. Nell’ultimo ventennio del Novecento è stato associato di ricerca e visiting professor presso varie università del Regno Unito e degli Stati Uniti d’America (tra cui Boston, Cambridge, Harvard, Pittsburg, Princeton), nonché in atenei del Centro- e del Sudamerica, tra cui Argentina, Brasile e Messico. Nel 2000 fondò Jura Gentium, un centro di ricerca che si occupa di filosofia del diritto internazionale e di politiche globali, e che pubblica l’omonima rivista.
3 https://www.medicisenzafrontiere.it/news-e-storie/news/guerra-in-sudan-i-motivi-e-la-situazione-oggi/
5https://bresciaanticapitalista.com/2018/03/23/cosa-ce-dietro-il-campismo/
