La brutta Italia che si arma e fa le guerre…

… ma c’è chi si oppone.

Testi di «Rete italiana pace e disarmo», Angelo Baracca, Giorgio Beretta, Giuseppe Bruzzone, Davide Conti (su due libri curati da Franco Corleone), Alessandro Di Battista, Gregorio Piccin, Arnaldo Scarpa e Daniele Taurino

NOTA INTRODUTTIVA DELLA “BOTTEGA”

Ecco un altro piccolo dossier intorno all’Italia armata e guerrafondaia. Fra le tante bugie e censure dei media (tranne il quotidiano «il manifesto» che noi saccheggiamo) quella che riguarda i traffici di armi è una delle peggiori e più pericolose. E angoscia sempre più l’assenza di iniziativa in Italia (con rare eccezioni) da parte di quel che resta delle sinistre e del movimento pacifista.

L’Italia alla guida della NATO in Iraq? Meglio di no


Comunicato di Rete Italiana Pace e Disarmo

 

L’ormai prossima assunzione italiana del comando della missione della Nato in Iraq desta molte perplessità e preoccupa che non vi sia stata fino a oggi una adeguata discussione pubblica su questo fatto. L’Italia alla guida della NATO in Iraq? Meglio di no.

La missione verrebbe ampliata da 500 a 4.000 uomini trasformandola di fatto in missione di combattimento da quella che, almeno sulla carta, era solamente funzionale all’addestramento dell’esercito iracheno. La recente decisione di dotare le Forze Armate italiane di una flotta di Hero-30, i cosiddetti Droni Kamikaze dichiaratamente finalizzati all’utilizzo nel “mutato scenario operativo in Iraq”, come scritto nella relazione del Ministero della Difesa resa nota dall’Osservatorio Mil€x, non può che aggravare questa nostra preoccupazione.

La missione italiana in Iraq, con 280 militari impegnati nella forza Nato e 900 militari nella missione Prima Parthica che nella Nato sarà integrata, diventa così la più grande missione italiana all’estero. Se prima la presenza militare italiana era interna alla Coalition of the Willing per la lotta contro Daesh da ora in poi acquisisce di fatto ben altra funzione. 

Mosul è stata liberata a ottobre 2016 e la campagna militare contro Daesh è stata dichiarata conclusa dal governo iracheno alla fine del 2017. Lo sporadico ripresentarsi di attentati di quest’origine e la permanenza di sacche di estremismo violento non giustificano la presenza di una forza della Nato così consistente, con tanto di robot assassini e aerei da combattimento.

L’Iraq è un paese nel quale si combatte da tempo una parte del conflitto che oppone Stati Uniti e Iran. Un conflitto combattuto tramite terze parti e giocato con cinismo sulla pelle di donne e uomini iracheni e che tiene in ostaggio il Paese da anni. Compito degli europei dovrebbe essere di favorire la liberazione del Paese da questa morsa e sostenere lo sviluppo economico, la democrazia e i diritti umani e questo non si fa con gli eserciti, ma collaborando con l’attivo sostegno alla società civile irachena. 

La sconfitta definitiva di Daesh va affidata alla politica, alle riforme sociali e lo possono e devono fare gli iracheni. La stessa missione di addestramento, dopo quanto successo in Afghanistan su cui non si è nemmeno fatta una seria analisi, dovrebbe almeno essere rivalutata. Il rischio concreto è che l’Italia rimanga invischiata nella lotta per il controllo dell’Iraq, per conto di altri Paesi, senza nemmeno un dibattito pubblico e senza che ne abbia nemmeno un diretto interesse con la conseguenza, tra l’altro, di nuovi gravi rischi anche per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie italiane che operano in Iraq, dovuti alla confusione tra presenza civile e militare.

Chiediamo dunque la sospensione della decisione di assumere la guida della Nato in Iraq e del processo di acquisizione di questi armamenti e l’apertura di un dibattito pubblico o almeno parlamentare su modelli, obiettivi, strumenti della attuale presenza italiana in Iraq.


  • Rete Italiana Pace e Disarmo AOI – Associazione ONG Italiane
  • Accademia Apuana della Pace
  • ARCI
  • Associazione CITTA’ PLURALE – Matera
  • Associazione culturale-ambientale “La Città degli Alberi
  • Associazione Nazionale per la Pace
  • Associazione per il rinnovamento della sinistra
  • Associazione per la pace di Padova
  • Associazione solidarietà internazionale
  • Associazione Taiapaia Valsugana
  • Associazione Trentina Accoglienza Stranieri
  • AssoPace Palestina
  • Attac Italia
  • Casa della Pace Milano
  • Casa per la Pace Modena
  • Centro di Documentazione del Manifesto Pacifista
  • Centro don Lorenzo Milani
  • Centro Studi Sereno Regis
  • CGIL CISS – Cooperazione Internazionale Sud-Sud
  • Cittadinanzattiva/Tribunale dei Diritti del Malato di Rieti
  • Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei)
  • Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza
  • Coordinamento toscano del CDC
  • Cultura è Libertà
  • Donne in Nero di Napoli
  • Donne in nero di Torino e Alba
  • Emmaus Italia
  • Forum permanente delle donne – Certaldo
  • La Società della Cura – Padova
  • Laboratorio Decoloniale Femminista e Queer
  • Medicina Democratica Livorno
  • MIR- Movimento Internazionale della Riconciliazione
  • Movimento di lotta per la salute Maccacaro
  • OPAL – Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa
  • Pax Christi
  • Rete NoWar-Roma Rete Romana Palestina
  • Reti di Pace – Monteverde Roma
  • Rifondazione Comunista
  • Sinistra anticapitalista
  • Sinistra Italiana
  • U.S. Citizens for Peace & Justice – Rome
  • Un Ponte Per
  • Wilpf Italia – Lega Internazionale Donne per la Pace

Cattolici, pacifisti varie tendenze, uniti per obiettivi, nel rispetto delle idee proprie e altrui.

Un appello di Giuseppe Bruzzone

Apprendo, da un’ encomiabile rassegna stampa gestita da Elio Pagani, che il Centro Pax Christi di Cecina ha scritto una lettera aperta al Ministro della Difesa. Lettera molto “forte” che coinvolge anche il governo di cui lo stesso fa parte, che fotografa una situazione di scelte che non tengono conto di determinate realtà. Nucleare, climatica, sanitaria e sociale, perché no, in cui siamo inseriti come Paesi abitanti in una casa comune che è la nostra, di tutti, la Terra, palla rotante nello Spazio in cui ci sono miliardi di altri corpi, che regolarmente dimentichiamo, quasi sentendoci padroni dell’ Universo. Anche se qualche Nazione sostiene e afferma pubblicamente che loro,con le 800 e più basi militari, in tutte le sue espressioni,nel mondo, compreso il nostro Paese, “sovranista”(!), sono di una “pasta” diversa e quindi faresti meglio a seguire le loro regole e non farti tante domande. Eppure, ad esempio, in quella nazione (che cos’è la vita…) è nato uno scienziato, Sabin, che con i suoi studi sulla poliomelite e rifiutandone la brevettibilità,ha permesso il sorriso a tanti bambini e ai loro genitori, con l’ utilizzo del suo vaccino, in “tutto” il mondo. Concetto che dovrebbe estendersi in tutti i Paesi, senza rinnegare la propria origine particolare, italiana o altro, ma che gli studi compiuti da una parte di noi certificano nella comune appartenenza alla razza umana (Einstein). In una situazione, per cui ci fosse una guerra nucleare, questa riguarderebbe tutti gli Stati e non solo i belligeranti ( troppo abnorme questo aspetto per non continuare a parlarne). Sarebbe giusto ? Politici, militari con fior di lauree, medaglie e attestati vari non hanno nulla da dire ? Siamo arrivati a questo ? Il coraggio ,umano, semplice, naturale, di chi magari ha figli, nipoti, o amori in atto, non dovrebbe interrompere quella corsa al conflitto dei “forti”,” che tu non sai chi sono io” con alle spalle milioni e milioni di persone di cui non ti rendi conto che porti alla morte ? Se il comportamento dei gruppi è questo, il gruppo stesso non è composto dai singoli ? Certo questo dovrebbe riguardare tutti, cittadini compresi……

Ritornando all’ inizio dello scritto e alla lettera al ministro Guerini da parte del gruppo Pace di Cecina aggiungo che anche chi scrive, ne ha indirizzata una allo stesso Ministro. Angelo Baracca, invece ne ha commentato le affermazioni in un articolo apparso su Pressenza, tempi addietro. Mi domando se non è il caso, come recita il titolo di questo scritto, possa Avvenire (giornale compreso) un ritrovarsi fra tante realtà per perseguire obiettivi comuni, quale adesso preponderante, il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari che l’Italia non ha firmato e ratificato. Certo sono informato che Rete Pace e Disarmo, di cui fa parte la stessa Pax Christi, sta scrivendo ai nostri parlamentari per la sua approvazione. Ma ho quasi l’ impressione che sia un lavaggio della propria coscienza e non un punto d’ arrivo determinato, per contrastare questa politica economica delle armi e della “voglia” quasi di conflitto per mostrarsi forti “prima”.” Dopo” è meglio non pensarci, che abbiamo tante vite da vivere. E poi, non siamo un grande Paese che, nelle sue missioni di Pace all’ estero, può mostrare i propri droni da guerra ? La nostra Costituzione dice questo, anche nel suo spirito ?

Milano 28 novembre 2021 Giuseppe Bruzzone

La “bottega” aveva segnalato ad Angelo Baracca che, dopo La mostra dei mostri in Egitto, preparavamo un piccolo dossier intorno all’Italia armata e guerrafondaia: «fra le censure dei media quella che riguarda i traffici di armi è una delle peggiori e più pericolose anche perchè quel che resta delle sinistre dice poco e nulla fa».

Angelo ha risposto così.

Sinistra? Quale? Non se ne vede traccia, il ministro “Guerrino” è più guerrafondaio del Kaiser Guglielmo 1.

Ieri era stata diffusa una lettera di parlamentari a Biden perché adotti la posizione di no-first-use nucleare firmata da alcuni (pochi) parlamentari di Paesi europei della Nato, c’era perfino un ungherese e un turco, NEMMENO UNA/O ITALIANO!

https://nofirstuse.global/nato-parliamentarians-support-no-first-use-policies/

Siamo lo scendiletto degli USA quando accedono alla  Nato. A proposito ti segnalo, elaborato con un certo sforzo pensando esplicitamente alle/i giovani

https://www.pressenza.com/it/2021/11/lalleanza-atlantica-nato-crimini-e-misfatti-sudditanza-e-complotti-abc-ad-uso-delle-i-giovani/

 

Ercolano non è un fatto isolato

Armi. La legittima difesa e i due giovani uccisi

di GIORGIO BERETTA (*)

Non erano ladri e non stavano rubando. E, anche se stavano rubando, nessuna norma di legge permette di sparare ad un ladro che non stia minacciando qualcuno. Ma è successo l’altra notte a Ercolano (Napoli). Vincenzo Palumbo, camionista di 53 anni, vedendo un’automobile sospetta non lontano da casa è sceso in strada con la sua pistola, legalmente detenuta, ed ha esploso sei colpi contro la vettura, una Panda, centrando alla testa due giovani, Tullio Pagliaro (27 anni) e Giuseppe Fusella (26 anni), uccidendoli all’istante. Il camionista avrebbe poi telefonato ai Carabinieri dicendo di aver «ucciso due ladri» e, scoprendo che i due giovani non erano malviventi e si erano fermati per caso in quella strada, si sarebbe giustificato dicendo di aver subito di recente il furto dell’auto e un furto in casa di una ingente somma.

Non è un episodio isolato. È invece, il frutto, certo indiretto ma avvelenato della propaganda politica delle destre di Salvini e Meloni che per anni hanno diffuso lo slogan «la difesa è sempre legittima». Lo hanno fatto soprattutto in occasione delle modifiche apportate nel 2019 all’articolo 52 del Codice Penale. Articolo che, pur modificato, prevede tuttora che per essere legittima, la difesa deve rispondere a criteri precisi («necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta»), ma la tenace propaganda politica ha lasciato intendere che quel «sempre» introdotto nella legge costituisse un viatico a farsi giustizia da soli.

Non è casuale, perciò, il silenzio dei due esponenti politici sempre pronti a chiedere condanne esemplari soprattutto quando a commettere furti e rapine sono immigrati o extra-comunitari. La responsabilità penale è sempre del singolo, certo. Ma non si può non notare la responsabilità morale di chi lancia slogan per fare incetta di voti senza considerare gli effetti nefasti delle proprie parole. Soprattutto in un Paese in cui, la voglia di farsi giustizia da sé pervade non solo i social, ma intere, barbare, trasmissioni televisive.

Se c’è un allarme oggi in Italia non è certo quello delle rapine nelle abitazioni. Lo certificano i dati Istat che riportano nel 2019 (ultimo dato disponibile e anno prima del lockdown per la pandemia Covid) un minimo storico degli ultimi venti anni di 1.818 rapine in abitazione. Se consideriamo tutte le rapine (banche, uffici postali, esercizi commerciali, abitazioni, in strada ecc.) nel 2019 ve ne sono state 24.276 meno della metà delle 51.210 del 2007. E nel 2019 sono stati 9 gli omicidi per «furti e rapine» in tutta Italia: fatti gravissimi, ma rappresentano un altro minimo storico degli ultimi venti anni.

Non si hanno, invece, dati ufficiali sugli omicidi con armi legalmente detenute perché né il Viminale né Istat li riportano. È una grave mancanza perché, come si evince dai dati resi pubblici dall’Osservatorio Opal, nel triennio 2017-19 sono stati almeno 131 gli omicidi perpetrati con armi regolarmente detenute a fronte di 91 omicidi di tipo mafioso e di 37 omicidi per furto o rapina. Oggi quindi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o dai rapinatori. È un dato impressionante e che dovrebbe far riflettere se si considera che meno di una persona su dieci o dodici tra la popolazione adulta ha una regolare licenza per armi. È ciò che, purtroppo, hanno sperimentato sulla loro pelle i due giovani di Ercolano.

Non vi è, pertanto, nessuna necessità di porre mano alle norme che regolamentano la legittima difesa: anche con le recenti modifiche non giustificano nessuna pretesa di farsi giustizia da soli e garantiscono il diritto a difendersi quando è minacciata la nostra incolumità. Sarebbe, urgente invece introdurre – come abbiamo ripetuto su questo giornale – norme più restrittive sulle licenze per armi e controlli più frequenti e rigorosi sui legali detentori. Ma, soprattutto, è necessaria un forte presa di posizione da parte delle forze politiche che davvero hanno a cuore la sicurezza pubblica. Soffiare sul fuoco della paura e del rancore per alimentare la corsa alle armi rischia di portarci ad una deriva di stampo giustizialista. Di cui, francamente, non abbiano alcun bisogno.

(*) dell’OPAL, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa; articolo pubblicato anche dal quotidiano “il manifesto” del 31 ottobre

Cosa hanno in comune Pfizer, Moderna, J&J con le principali industrie d’armi al mondo?

di Alessandro Di Battista (*)

Sapete cos’hanno in comune Pfizer, Moderna, J&J con le principali industrie d’armi al mondo ed i colossi del web? Semplice, i fondi di investimento!

Molti di voi conosceranno BlackRock, la più grande società di investimento del pianeta, ma i fondi finanziari che, di fatto, scegliendo dove investire condizionano le nostre vite, sono molti.

I primi tre investitori istituzionali di Pfizer sono fondi. Vanguard Group. possiede l’8,19% delle azioni, BlackRock il 7,32% e State Street Corporation il 5%. Lo stesso vale con Moderna: Vanguard ha il 6,7% e BlackRock il 6,63%.

Considerate che BlackRock gestisce un patrimonio di quasi 8000 miliardi di dollari, più del PIL di Giappone, Germania, Francia o Gran Bretagna. Solo USA e Cina hanno un PIL superiore ad 8000 miliardi di $.

Anche i primi due azionisti istituzionali di Johnson & Johnson sono fondi di investimento. Ancora una volta Vanguard Group. e BlackRock rispettivamente con l’8,8% ed il 7,4% delle azioni.

Vogliamo parlare degli azionisti di FB? Primo Vanguard Group. con il 7,73%, secondo BlackRock con il 6,59%. Stesso discorso per Amazon, Vanguard Group. ha il 6,65% e BlackRock 5,55%.

Vanguard, BlackRock e State Street Corporation sono anche i principali investitori istituzionali della Lockheed Martin Corporation, il primo produttore di armi al mondo e possiedono anche un mucchio di azioni della Boeing, numero 2 al mondo per produzione di armamenti.

La Boeing è conosciuta per il Jumbo Jet ma non tutti sanno che produce anche i missili Patriot, gli elicotteri Apache e i cacciabombardieri F18.

Vanguard Group, Morgan Stanley, Blackrock e State Street Corporation figurano, inoltre, nei primi quattro posti tra gli investitori di Twitter.

BlackRock e?, inoltre, il primo azionista di UniCredit, uno dei principali istituti finanziari italiani il cui Presidente è l’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

La scorsa estate Atlantia (società dei Benetton concessionaria delle autostrade) ha accettato un’offerta da 8 miliardi di euro presentata da un consorzio di cui fa parte Cassa Depositi insieme ai fondi di investimento Blackstone e Macquarie, il primo colosso USA, il secondo australiano.

Nelle ultime ore un altro colosso finanziario americano, il fondo Kkr ha avanzato un’offerta per acquistare il 100% di TIM, un tempo una gallina dalle uova d’oro per le casse dello Stato. Se l’acquisto dovesse andare in porto Kkr (attraverso TIM) potrebbe ottenere l’appalto miliardario per il Cloud, ovvero la gestione dei dati delle Pubbliche Amministrazioni.

Se iniziassimo a mappare i politici finiti a lavorare nelle banche d’affari, nei fondi di investimento e, in generale, nel mondo della finanza, faremmo notte.

Le Repubbliche occidentali sono dilaniate dai conflitti di interessi e dalle pressioni esercitate dai giganti della finanza che, con un clic, di fatto, dispongono della vita di milioni di cittadini.

I fondi finanziari stanno comprando di tutto, infrastrutture strategiche, case farmaceutiche, gruppi mediatici, social network. E la politica tace. Pensate che chi detiene tale potere non rischi di abusarne? Pensate che chi ha a disposizione una tale forza economica non sia capace di esercitare pressione sulle scelte di governanti o ministri?

Nel mio libro “Contro” scrissi: “Non mi fido di Draghi per il suo passato, non mi fido di Draghi per i macroscopici errori che ha collezionato, non mi fido di Draghi per la scarsa empatia, non mi fido di lui perchè è un tecnico che si è formato nell’humus del capitalismo finanziario, ovvero l’entità che, più di tutto, è alla base degli squilibri sociali ed economici della modernità”.

E ancora: “solo il rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta potrà far da argine all’allargamento della forbice tra l’indigenza più funesta e la sempre più oscena opulenza. Un tempo credevo che l’onestà fosse il requisito principale per occuparsi della cosa pubblica. Oggi la reputo una condizione necessaria, ma è l’indipendenza ciò che davvero può distinguere un buon rappresentante della nazione. E, sebbene appaia paradossale, l’indipendenza di un parlamentare, di un ministro o un presidente del Consiglio, è direttamente proporzionale alla dipendenza nei confronti di una moltitudine di persone. Si chiama democrazia e poco, ahimè, ha a che fare con il sistema in cui viviamo”.

Spero di avervi dato qualche spunto di riflessione.

(*) ripreso da www.lantidiplomatico.it

«Fuzilâz», una riabilitazione storica oltre il racconto epico

Due pubblicazioni curate da Franco Corleone «Claudio Graziani. Un episodio di guerra» e il recente «Il tempo dell’onore. Il Friuli Venezia Giulia rivendica il diritto alla memoria» (Menabò edizioni) per smontare una narrazione eroica rispetto alla realtà tragica

di DAVIDE CONTI (*)

Archiviate le manifestazioni ufficiali e le celebrazioni istituzionali relative al centenario del Milite Ignoto restano aperte questioni rilevanti rispetto la storia e il discorso pubblico sugli eventi della Grande Guerra. Ricomporre il contesto degli avvenimenti; rappresentare una resa di complessità attraverso la ricostruzione della dimensione reale e umana degli eventi; offrire un orizzonte di senso agli accadimenti che sia scevro da strumentalità e retoriche celebrative sono alcuni dei caratteri necessari alla rielaborazione del passato e alla rivisitazione dei suoi significati nel presente.

È IN QUEST’OTTICA che si collocano le due pubblicazioni curate da Franco Corleone Claudio Graziani. Un episodio di guerra e il recente Il tempo dell’onore. Il Friuli Venezia Giulia rivendica il diritto alla memoria (Menabò edizioni, pp.144, euro 15).
Attorno ai due testi Corleone, già deputato, senatore e sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001, organizza un ragionamento che muove dalle memorie individuali dei fatti e giunge alla misura collettiva del loro lascito nel tempo contemporaneo.
Il primo libro (uscito nel 2019) ripubblica un racconto breve del 1919 dello scrittore Silvio Villa dedicato al capitano degli Arditi Claudio Graziani, fucilato dalle gerarchie militari del regio esercito italiano per aver rifiutato di compiere con gli uomini della sua compagnia un’operazione suicida lungo una trincea in Carnia.

IL SECONDO RICOSTRUISCE il complesso e contrastato (a livello nazionale) iter istituzionale che ha portato il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia ad approvare all’unanimità il 28 maggio 2021 la legge per «restituire l’onore» ai soldati (nati o caduti nel territorio della Regione) che nella prima guerra mondiale vennero fucilati dai plotoni di esecuzione del proprio esercito per ordine dei tribunali militari di guerra che li condannarono per rivolta in faccia, ammutinamento e ribellione dopo aver rifiutato di eseguire ordini suicidi delle gerarchie.

IL TEMA È ANCORA OGGI particolarmente controverso in ragione della refrattarietà e del rifiuto delle istituzioni dello Stato (a partire dal parlamento) a riconoscere e riparare compiutamente con una legge nazionale le vicende che riguardarono oltre 750 soldati vittime di esecuzioni sommarie in base alle circolari del generale Luigi Cadorna. Paradigmatico dell’impaccio istituzionale appare il carteggio, pubblicato nel libro, intercorso tra Corleone e la presidente della Commissione difesa del Senato Roberta Pinotti nel novembre 2020. In quelle pagine il primo chiede impegni precisi per una legge di dignità e la seconda immerge la questione nello stallo degli iter parlamentari, segnando – come commenta amaro Adriano Sofri – «quanto è distante l’anima migliore della cavalleria da una commissione o un’aula parlamentare».
Restano aperte la battaglia per una legge nazionale di riabilitazione storica dei
fuzilâz e la questione dei conti con una vicenda che vede l’Italia in colpevole ritardo «l’esercito italiano – ricordò l’ex presidente del Senato Franco Marini nel 2016 – ha registrato in assoluto il più alto numero di fucilati e giustiziati tra quelli coinvolti nel primo conflitto mondiale. Già solo questo fatto fa comprendere l’asprezza senza pari utilizzata dai comandi italiani».

I TESTI CURATI da Corleone si propongono, dunque, non solo come elementi ricostruttivi del passato ma come spinta e sprone all’adozione di misure che restituiscano da un lato la dignità di uomini a quei soldati uccisi ed espulsi dal racconto nazionale e dall’altro la giusta dimensione e interpretazione delle vicende della Grande Guerra liberate dalla retorica celebrativa e rese nella drammaticità materiale del primo conflitto totale moderno. Quella «inutile strage», come ebbe a definirla Benedetto XV, investì le masse contadine, operaie e popolari brutalizzandone la misura sociale e civile. Interrogarne il senso ci racconta molto dell’Italia che sarebbe stata. Racconta delle fratture interne alla comunità nazionale; dei conflitti sociali e politici che la attraversarono e della crisi sistemica che emerse dalla faglia della guerra e che ebbe l’esito tragico della dittatura fascista.
Decostruire il racconto epico-eroico e renderne visibili scismi e distonie rispetto alla realtà tragica del vissuto delle trincee concorre a fare dello spazio pubblico un luogo di formazione della cittadinanza repubblicana declinata sul rifiuto della guerra (con l’articolo 11 della Costituzione) e sulla cancellazione della pena di morte. Un percorso aperto dall’intervento di Sergio Mattarella il 4 novembre scorso quando, in occasione del centenario del Milite Ignoto, il presidente della Repubblica ha condannato le condotte delle gerarchie militari dell’epoca, ree di aver scaricato le loro responsabilità «in modo scellerato sulle truppe, sino all’orrore del sorteggio, per decidere con la decimazione, i soldati da destinare alla fucilazione».

(*) pubblicato sul quotidiano “il manifesto” del 26 novembre

TRE ARTICOLI DI GREGORIO PICCIN

L’Italia dei poligoni. La Carnia presa a cannonate.

Da sud a nord territori a servizio della belligeranza. Non c’è solo Quirra. In questi giorni tocca alla Carnia, dove l’esercitazione Frozen Arrow 2021 porta la guerra nelle case con muri e finestre che tremano per giorni come ci fosse il terremoto.

Insorgono comunità locali e sindaci. È apparso qualche giorno fa sul profilo Instagram dell’Esercito italiano un breve video con la colonna sonora dei Jefferson Airplane e le immagini dei cannoni e dei mortai eretti al cielo che sparano a tempo di musica.

Con questa operazione di comunicazione “pop”, l’arma di terra ha pensato di pubblicizzare Frozen Arrow 2021, una esercitazione congiunta tra alpini e artiglieria sul poligono «volante» del monte Bivara, in Friuli, in piena Zona speciale di conservazione per la protezione di habitat e specie animali e vegetali significative a livello europeo.

Hanno partecipato alla manovra, che si è conclusa lo scorso 12 novembre, anche due Eurofighter del 51° Stormo di Istrana che hanno simulato il supporto di bombardamento aereo guidato da terra.

Il colonnello Francesco Suma, Comandante del reggimento e direttore dell’esercitazione, nell’illustrare al Generale Fabio Majoli comandante della Brigata alpina “Julia” ha espresso la propria soddisfazione per il livello di integrazione dimostrato e la capacità di adattamento in un ambiente ormai invernale.

Sette giorni di cannonate non stop dalle 8 alle 23 che, oltre ad aver «soddisfatto» il colonnello Suma, hanno fatto tremare ininterrottamente i muri e le finestre delle case come ci fosse il terremoto e impazzire gli abitanti delle zone circostanti.

L’esistenza di questo controverso poligono, che negli ultimi anni viene utilizzato sia in primavera che in autunno, è oggetto di un’accesa contestazione delle comunità locali che dura da decenni.

Negli anni Ottanta venne bloccata l’ipotesi di un suo utilizzo permanente grazie ad una ferma presa di posizione di parlamentari comunisti, socialisti e radicali ma soprattutto di una massiccia azione di «guerriglia nonviolenta» degli abitanti di Sauris che si alternavano giorno e notte nell’accendere fuochi per segnalare presenza umana nell’area di tiro e sabotarne così l’utilizzo.

Lo scorso dicembre (in piena pandemia le esercitazioni non si sono fermate…) una istanza rivolta al Ministero della difesa che chiedeva la fine o comunque lo spostamento dell’area delle manovre militari firmata dai sindaci di Sauris, Forni di Sotto, Prato Carnico, Socchieve e Ampezzo è rimbalzata sul canonico muro di gomma.

«Ora spetta al Ministero della difesa decidere se battere in ritirata o continuare con queste simulazioni di guerra che hanno il territorio come unico vinto tra danni ambientali, alla fauna e al comparto economico-turistico» ha dichiarato Ermes Petris, sindaco di Sauris.

«Non è facile spiegare ai nostri figli il perché di quei colpi di mortaio e obice che rimbombano persino all’interno delle nostre case, la sensazione di inquietudine diventa pervasiva nelle giornate di esercitazione (…) Difficile spiegare anche ai nostri ospiti la follia di questo bombardamento contro una natura altrimenti incontaminata e la chiusura della strada verso il Cadore per 12 giorni in primavera e 12 in autunno. Quest’anno poi, come ulteriore presa in giro, ci ritroviamo sui social dell’Esercito italiano un video fallocentrico e volgare che abbiamo seppellito di commenti di protesta ma che ci hanno puntualmente censurato…». dichiara Noemi Letizia Milnigher, consigliera di maggioranza a Sauris e operatrice turistica.

Oggi, con un parlamento trasversalmente intruppato nella belligeranza del nostro Paese, l’opposizione alle servitù militari sta tutta sulle spalle delle comunità locali e dei loro sindaci. La strada è in salita ma la proverbiale tenacia dei montanari non prevede tregua.

Gregorio Piccin – su IL MANIFESTO (on line) DEL 16.11.202

Armi “beni essenziali”?

Pane, latte e pasta sono considerati beni primari a tal punto importanti che lo Stato ne supporta il consumo attraverso un ribasso dell’Iva al 4%. Avviene anche per altri beni di consumo e servizi: farmaci, trasporti, forniture energetiche e idriche per uso domestico su cui il ribasso è fissato al 10%. Vi sono poi «beni di consumo» molto particolari a quanto pare destinati all’esenzione totale dell’Iva: parliamo di armi e sistemi d’arma prodotti e venduti in Europa. Sembra una “fake” eppure è esattamente quello che ha proposto Ursula von Der Leyen nel recente discorso sullo stato dell’Unione: «Potremmo prendere in considerazione l’esenzione dall’Iva per l’acquisto di materiale di difesa sviluppato e prodotto in Europa».

Sinistra Europea nell’Europarlamento ha lanciato una campagna per bloccare l’iniziativa; «La proposta di finanziare con le nostre tasse, attraverso l’abbattimento dell’Iva, il commercio delle armi, è una proposta semplicemente criminale. Se i soldi gettati via con quella riduzione dell’Iva, venissero usati per lavori utili come il riassetto idrogeologico del territorio, avremo molti posti di lavoro in più che non nell’industria delle armi», ha commentato Paolo Ferrero, vice presidente di SE.

La proposta della Commissione europea non è tuttavia farina del sacco di von Der Leyden. Dal punto di vista delle capacità militari-industriali il nostro Paese è il terzo tra i quattro (Francia, Germania, Italia, Spagna) che hanno costituito il nucleo promotore della Permanent structured cooperation (Pesco) e fu l’allora ministra della difesa Roberta Pinotti (Pd) a giocare per prima la carta dell’esenzione Iva in vista degli accordi per imbastire la cosiddetta difesa europea: «La nostra proposta – dichiarava Pinotti – prevede in primis uno stimolo all’industria della difesa, mediante un piano di incentivi fiscali e finanziari rivolto ai progetti europei di cooperazione militare, con esenzione dall’Iva e sostegno della Banca europea degli investimenti».

Lo spostamento della «cortina di ferro» dal Friuli e dalla Germania a ridosso dei confini russi, oltre a colpire duramente l’economia reale di Paesi come il nostro (sanzioni, controsanzioni, prezzo del gas…), ha già prodotto un aumento delle spese militari in Paesi come Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania che hanno centrato il parametro Nato del 2% sul Pil. E anche se questi Paesi si considerano più vicini agli Usa che all’Ue, è pur vero che la Pesco, se rafforzata dalla misura dell’esenzione Iva, renderebbe decisamente più vantaggiosa e concorrenziale la merce bellica convenzionale made in Europe. Non a caso questo è uno degli attriti più brucianti con gli Stati uniti che da tempo insistono per entrare nel programma Pesco nonostante la partecipazione sia preclusa a Paesi extra Ue.

Ma come sempre accade, un successo per l’industria bellica nazionale od europea corrisponde ad una distrazione di risorse dalle cose che fanno la differenza nella vita di cittadini e cittadine: i salari sono bloccati, in particolare in Italia dove sono addirittura diminuiti rispetto al 1990, il carovita galoppa con aumento generalizzato dei prezzi, la crisi sociale morde ovunque.

I 76 eletti italiani (da FdI al Pd passando per Lega e M5S) al Parlamento europeo non hanno fiatato su questa proposta indecente fa tta per deregolamentare il mercato delle armi in vista dell’edificazione della «Difesa europea» – così, è bene saperlo, aumentaranno i profitti privati e si ridurrà l’introito fiscale degli Stati. Per questa trasversale classe politica, comunque atlantista, di «responsabili» quando si parla di corsa agli armamenti e regalie all’industria bellica, «austerità» e «moderazione» non sono mai di casa.

Gregorio Piccin – su IL MANIFESTO (on line) 06.11.20

La gabbia della NATO

L’Italia è un Paese belligerante da trent’anni (prima guerra del Golfo, 1991): è secondo per effettivi ed assetti militari inviati all’estero nel quadro delle missioni Nato dopo gli Stati Uniti, nono nella “top ten” mondiale per produzione di armi e sistemi d’arma e quinto avamposto militare statunitense a livello globale.

I nostri porti sono un nodo strategico nella logistica dei trasferimenti globali di armamenti mentre Camp Darby, che si serve del porto di Livorno, è il più grande arsenale statunitense al di fuori dai confini della madre patria.

L’Italia partecipa al programma “Nuclear Sharing” della Nato addestrando i propri piloti militari al bombardamento nucleare e custodendo decine di testate atomiche sul proprio territorio nazionale (Ghedi ed Aviano).

La spesa militare si attesta tra i 70/80 milioni di euro al giorno in costante aumento. L’introduzione della norma “Government to Government” (Guerini, Conte bis) ha trasformato formalmente il ministero della Difesa in “agente di commercio” dell’industria bellica nazionale. Questa è ufficialmente definita pilastro della politica estera mentre le missioni a cui partecipa l’Italia sono considerate da Alessandro Profumo (AD Leonardo) la migliore vetrina per l’industria nazionale di riferimento. Le stesse forze armate sono diventate co-fornitrici di servizi ed addestramento nelle commesse importanti verso Paesi terzi (aerei, vascelli, missili e radar) garantendo la loro professionalità, presenza, infrastruttura.

La disinvolta sovrapposizione tra “pubblico” e privato, tra fatturati e campi di battaglia ha assunto contorni gravissimi, una vera e propria emergenza democratica/costituzionale creata da una trasversale maggioranza parlamentare che nel corso di questi trent’anni ha guadagnato tutto il parlamento ed accumulato pesantissime responsabilità di guerra.

Dopo la retorica delle “guerre umanitarie” e dell’”esportazione democratica” utilizzata negli anni novanta e duemila per mascherare la nostra belligeranza e farla digerire all’opinione pubblica oggi si parla apertamente di riarmo in funzione della difesa di presunti interessi nazionali nel cosiddetto “Mediterraneo allargato”.

Si tratta di un ritorno, nel discorso ufficiale, all’origine di questa situazione ossia alle ragioni che spinsero il nostro Paese ad adottare il Nuovo Modello Difesa all’indomani della prima guerra del Golfo.

Dopo il 1989 si aprì una fase davvero propizia per la distensione ed il disarmo, una finestra che venne immediatamente sbarrata dagli Stati Uniti i quali chiesero ed ottennero dagli alleati un cambio di postura per le forze armate: non più “fanterie d’arresto” ma corpi di spedizione da integrare in un nuovo standard tecnico-organizzativo di proiezione di forza: la Nato da alleanza difensiva si preparava a diventare apertamente offensiva.

Il modello era (ed è) quello angloamericano basato su professionisti volontari, su una ferma di almeno 4 anni e sulla sostanziale ricattabilità sociale della truppa, tutti requisiti indispensabili per permettere ai governi di gestire operazioni di guerra e occupazione oltre confine (compresa la morte sul campo dei soldati) senza i “fastidi” derivanti dalle dichiarazioni ufficiali di guerra e dalle conseguenti mobilitazioni.

Un ridimensionamento della leva militare/civile, un suo adeguamento democratico (con aumento delle opzioni civili) non venne nemmeno preso in considerazione: la postura eminentemente difensiva che ne sarebbe derivata non era compatibile con la nuova fase di rilancio della “Nato globale” e col nuovo concetto di Difesa che, in barba al dettato costituzionale, ricomprendeva gli interessi nazionali nella difesa in armi del Paese.

La professionalizzazione delle ff.aa è stata quindi la chiave di volta tecnica e giuridica della nostra belligeranza e più in generale della sovversione del diritto internazionale, dello svilimento dell’Onu e di una nuova guerra fredda contro Russia e Cina con annessa corsa agli armamenti (ri)lanciata dal blocco euro-atlantico. Secondo il Sipri di Stoccolma oltre l’80% del mercato globale di armi e sistemi d’arma è controllato da multinazionali statunitensi ed europee.

L’Unione Europea ha aperto da anni una fase di riarmo sostenuta con fondi e programmi comunitari (PESCO, EDF) e dai singoli Paesi aderenti. Ma la così detta “autonomia strategica” si risolve in un assist poderoso all’industria bellica e più recentemente nell’idea di mettere in campo una forza di reazione rapida di circa 6000 uomini come espressione dello scomposto neocolonialismo del vecchio continente.

Nel discorso ufficiale questa “autonomia strategica” dell’Europa viene sempre intesa interna alla Nato ma soprattutto distante da un qualsiasi minimo ruolo continentale di distensione, disarmo, cooperazione.

In una situazione del genere non esiste al momento nel nostro Paese un dibattito pubblico qualificato e propositivo sul comparto Difesa. Il movimento pacifista nelle sue componenti principali non si pone il problema dell’adesione alla Nato né del modello di Difesa che ne sta alla base e della strutturale belligeranza che ne deriva.

La legittima e sensata richiesta di riduzione delle spese militari non pare essere sufficiente ad aggredire lo stato di fatto. Prospettare e chiedere una riduzione della spesa rivolta alle tecnologie offensive di punta senza toccare la forma professionale delle forze armate (e l’adesione alla NATO) è come avere una macchina da corsa e poi pretendere che funzioni col motore di una utilitaria.

Un dibattito all’altezza della estrema gravità della situazione (caos climatico compreso) dovrebbe partire da una revisione/ribaltamento dei concetti stessi di “Sicurezza” e “Difesa” per concentrarsi su una proposta di riforma organica di tutto il comparto: riassetto delle ff.aa in funzione difensiva/territoriale sviluppando concrete sinergie col settore civile nelle emergenze ambientali; ripristino della Guardia Forestale come corpo civile di polizia ambientale; adeguamento della mission di Leonardo alle nuove necessità delineate dalla riforma strutturale del comparto.

Riportare la forma ed il senso delle nostre Forze armate nell’alveo costituzionale, al di là dell’aspetto etico, dovrebbe quindi permettere un enorme risparmio di risorse e di logistica ed un più utile e razionale impiego di mezzi e uomini nella lotta ai cambiamenti climatici ed alle conseguenti crisi ambientali.

Volendo recuperare anche l’aspetto etico, preponderante rispetto a quello meramente strumentale, risulta indispensabile assumere un approccio organico e propositivo alla questione che sappia andare oltre la contestazione (storicamente ridotta ai minimi termini) e che permetta di intervenire sulle nostre pesantissime responsabilità di guerra.

Tutto ciò nella più ampia prospettiva politica di costituirsi come un polo neutrale all’interno dell’Europa stessa con forti capacità di attrazione sia verso Paesi europei non legati al mantenimento di politiche neocoloniali, sia verso il Mediterraneo, sia verso Paesi ubicati in altri continenti ricchi di risorse ma alla ricerca di nuove tecnologie, di scambi equi e di cooperazione: un grande, incerto ma indispensabile ricollocamento strategico.

Il tema di una riforma strutturale dello strumento militare dovrebbe essere posta come punto costituente al pari della revisione dei trattati di Maastricht e Lisbona, della struttura e natura della Bce, ossia di tutte le questioni che hanno a che fare con il recupero ed il rilancio della sovranità democratica e popolare.

Per ciò che riguarda l’Italia questa riforma consentirebbe di agire su diverse questioni:

renderebbe le Forze armate strutturalmente inservibili alla Nato, ad operazioni di guerra e occupazione, più in generale ad un profilo neocolonialista;

accontenterebbe” il terzo settore con la reintroduzione dell’obiezione di coscienza (istituto di civiltà universale e linfa vitale del no profit);

permetterebbe una conversione della logistica e della organizzazione militare verso una immediata ed efficace compatibilità con la Protezione civile;

permetterebbe di aprire un ragionamento meno bellicista sul futuro di Leonardo;

porterebbe ad un consistente risparmio di risorse nel quadro di nuove sinergie d’impiego civile;

sarebbe coerente con una revisione/rescissione degli accordi bilaterali che regolano la cessione di territorio nazionale per basi e strutture straniere;

sarebbe funzionale alla definizione una nuova politica estera e commerciale basata sulla cooperazione strategica piuttosto che sulla difesa in armi degli interessi strategici con ciò ridimensionando concretamente le cause delle tragiche migrazioni umane a cui stiamo assistendo.

La crisi economica, l’incessante susseguirsi di emergenze ambientali, i costi del nostro avventurismo militare hanno già modificato la fiducia popolare nel “tricolore armato” spedito per il mondo al seguito degli statunitensi.

Se si agisse sulla sfiducia strumentale in questo modello di Difesa prospettando una alternativa credibilmente più utile, razionale e meno costosa si potrebbe incrociare anche il favore di quegli enti locali e dei loro sindaci che in tutti questi anni si sono trovati ad affrontare le emergenze ambientali e gli eventi calamitosi con mezzi inadeguati.

L’effetto potrebbe essere in grado di increspare non poco la linearità del folle piano egemonico che continua a sovrastarci indisturbato.

Gregorio Piccin – su TRASFORM ITALIA (on line) del 10.11.2021

Campagne nonviolente e disarmiste contro le armi letali autonome

di Daniele Taurino (*)

La capacità di esposizione alla violenza mortale, in qualunque punto, in qualunque momento, che i droni (e i sistemi d’arma letali autonomi) hanno introdotto nelle nostre vite, riconfigura radicalmente la nostra prospettiva nelle relazioni intersoggettive, introduce una rivoluzione nei modi di compresenza.

I dispositivi con cui sono comandati i droni operano per scelte strutturali di non reciprocità: l’Altro è qui, io non l’ho ancora visto, non è nel mio stesso luogo, ma posso subire da esso il massimo dell’influenza possibile sulla mia vita. Non si tratta quindi di una semplice co-esistenza, per la quale è sufficiente e necessaria la simultaneità dell’esistere, poiché la compresenza ha un’aggiunta che è esplicabile in uno speciale rapporto di causalità: la possibilità istantanea, anche se non sempre in atto, per un termine di avere effetti su un altro o di subire effetti da esso.

Questa totale – e nuda – accessibilità di un termine all’altro ridefinisce l’idea stessa di portata e, nella teletecnologia dei droni, fa sì che le entità in relazione possano anche non darsi nello stesso tempo, poiché tutto, attraverso la rete, può essere programmato. La compresenza, nella prassi, si definisce quindi unicamente nella relazione fra le varie entità in gioco (esseri, monumenti, eventi…): è autonoma dalla colocalizzazione; può avvenire inconsapevolmente, ovvero senza la coscienza dell’essere compresenti; non è riducibile a un sentimento soggettivo e chiuso; produce effetti sul reale senza che sia necessario un luogo univoco per l’azione.

Tutti questi elementi, che ci appaiono chiari dalla prospettiva eminentemente violenta dell’uso militare dei droni, possono aiutarci a chiarire, per converso, la compresenza capitiniana sotto il segno della nonviolenza: una metafisica pratica che, proprio perché non può accettare il fatto della morte, la possibilità per i soggetti – soprattutto i più deboli – di essere continuamente soggetti al potere di morte, ci chiede lo sforzo di produrre continue aggiunte e compensazioni all’insufficienza della realtà attuale.

Chi ci dice che i vari modi di esplicazione, naturale, spirituale o tecnologica, dell’unità che ci unisce tutti debbano essere sempre usati per ripetere le violenti leggi dell’oggi?

Una prassi speciale come quella della compresenza dei morti e dei viventi, che prende atto di tutte le modalità possibili di connessione, può essere oggi il grimaldello a nostra disposizione per aprire un varco di bellezza e giustizia all’interno di una realtà completamente esposta alla violenza.

In altre parole, l’introduzione di questi sistemi d’arma esige anche un ripensamento delle modalità dell’azione nonviolenta, dibattito che si è aperto all’interno dei nostri movimenti; ma esige anche un coordinamento immediato di iniziative e campagne per ridurre, se non abolire, il rischio di “guerre dei droni”. Per far questo, come argomenta anche Alessandro Scassellati nell’articolo pubblicato il 10 novembre, è fondamentale aprire un dibattito pubblico in Italia e Unione Europea. È quello che stiamo provando a fare in particolare con la Rete italiana Pace e Disarmo e con l’European Network Against Arms Trade. E non da ieri.

Nel marzo del 2019 abbiamo presentato per esempio a Roma l’Appello di scienziati e ricercatori italiani contro i sistemi d’arma letali autonomi (acronimo LAWS, in inglese) meglio noti come Killer Robots. L’iniziativa ha visto fin da subito l’adesione di oltre 110 ricercatori di varie discipline che man mano vanno aumentando, in particolare quelle legate all’informatica, alla robotica e all’intelligenza artificiale; ma senza dimenticare materie collegate allo sviluppo di queste armi dal punto di vista sociale, etico, economico.

Il testo dell’Appello è stato elaborato grazie al contributo di esperti dell’USPID, l’Unione degli Scienziati per il Disarmo, e si colloca nell’ambito della Campaign to Stop Killer Robots (di cui USPID Onlus è membro italiano insieme a Rete italiana Pace e Disarmo) che ha già visto nel recente passato prese di posizione contro le armi autonome da parte di migliaia di scienziati, ricercatori, imprenditori nel mondo delle tecnologie e dell’intelligenza artificiale. Nel testo si sottolinea come “le nuove tecnologie dell’IA e della robotica possono trasformare profondamente e migliorare le nostre infrastrutture, i trasporti, la produzione industriale, i servizi pubblici, la difesa nazionale, i servizi alle imprese, le cure sanitarie e molti altri settori di grande rilevanza sociale ed economica”, ma i ricercatori ricordano che tutti siamo “tenuti a guidare con intelligenza e sensibilità morale la trasformazione tecnologica in atto, individuando, prevenendo e contrastando utilizzazioni moralmente inaccettabili delle tecnologie dell’IA e della robotica avanzata”.

Per questi motivi la ferma opposizione alle LAWS è esplicita: “Lo sviluppo delle armi autonome costituisce una grave minaccia per il rispetto delle leggi umanitarie in guerra; può interrompere la catena di comando e controllo, la quale consente di individuare i soggetti responsabili per eventuali crimini di guerra; dà a delle macchine la possibilità di decidere della vita o della morte di un essere umano; impedisce alle potenziali vittime di fare appello all’umanità condivisa degli avversari. Eliminando il controllo umano significativo sulla legittimità degli obiettivi militari e sulle decisioni di vita o di morte, le armi autonome si collocano al di là di una linea moralmente invalicabile”.

L’Appello si conclude con richieste chiare nei confronti dei decisori politici: “le armi autonome sono attualmente ancora in uno stadio iniziale di sviluppo e diffusione. Abbiamo ancora la possibilità di fermare la corsa a questo nuovo tipo di armi. Ma non c’è molto tempo. Chiediamo pertanto che il Governo e il Parlamento italiani assumano una decisa posizione contro le armi autonome nelle sedi politiche nazionali e negli opportuni forum diplomatici internazionali”.

Questo Appello ha fornito agli attivisti italiani della Campaign to Stop Killer Robots un ulteriore elemento di pressione verso il Parlamento affinché prenda consapevolezza di questo problema ed inizi a discuterne. Una convergenza di vedute tra il mondo delle organizzazioni che si occupano di pace e disarmo e i ricercatori italiani che ogni giorno mettono il loro ingegno al servizio dell’avanzamento scientifico e tecnologico del nostro Paese. Una convergenza che non può essere ignorata dalla politica e che speriamo possa servire ad inserire anche l’Italia nell’elenco dei 28 Stati che hanno già espresso il loro sostegno ad iniziative normative internazionali di messa al bando dei “Killer Robots”.

Ritengo allora che sia importante ribadire anche in questa sede le richieste collettive a Stati e Governi promesse dallo European Forum on Armed Drones di cui la Rete Italiana Pace e Disarmo fa parte.

Articolare chiare politiche

  • Tutti gli Stati devono riconoscere le gravi sfide presentate dall’uso di armi droni armati e articolare pubblicamente politiche chiare e posizioni legali precise sulla questione. Ciò include anche possibili collaborazioni in operazioni con droni effettuate da altri Stati.
  • Gli Stati che utilizzano droni armati devono pubblicare le loro regole e procedure per mostrare una piena adeguatezza al diritto internazionale, incluse azioni per prevenire, mitigare, investigare tutte le morti fuorilegge e in generale tutti gli impatti negativi sui civili.

Prevenire complicità

  • Gli Stati devono fare in modo di non diventare complici di attacchi illegali con droni, ad esempio fornendo supporto logistico o raccogliendo dati usati per individuare gli obiettivi. Gli Stati europei devono accettare la loro “responsabilità come terzi” in operazioni condotte da alleati.

Assicurare trasparenza

  • Tutti gli Stati dovrebbero lavorare sulla trasparenza attraverso la pubblicazione e condivisione di tutte le informazioni che possano contribuire allo sviluppo di norme stringenti sul comportamento negli attacchi con droni e la prevenzione di qualsiasi impatto negativo, attraverso il rafforzamento delle leggi internazionali.
  • Inoltre, gli Stati che usano droni armati in operazioni di contro-terrorismo devono fornire informazione pubblica e precisa (aggiornata per ciascun caso) sulle basi legali e fattuali per le quali specifici gruppi o individui siano considerati obiettivi, garantendo informazioni chiare sul numero di feriti e morti e sulle loro identità.

Strutturare forme di responsabilità e controllo

  • Gli Stati coinvolti in attacchi con droni devono condurre rapide, approfondite, indipendenti e imparziali investigazioni per tutte le accuse o sospetti di morti illegali e impatti negativi sui civili e pubblicare i risultati di ciascuna investigazione in tempi rapidi e certi.
  • Tutti gli Stati devono assicurarsi che diritti delle vittime di attacchi con droni siano rispettati, includendo un effettivo accesso a misure giudiziali di rimedio e riparazione.

Controllare la proliferazione

  • Tutti gli Stati devono applicare controlli più stringenti sul trasferimento di tecnologia militare e dual-use per droni. Ciò include standardizzare le categorie di droni e tutta la tecnologia relativa nei regimi di controllo alle esportazioni ed inserirle all’interno di Trattati internazionali o di Leggi di livello nazionale, regionale, internazionale. Gli Stati devono applicare criteri chiari per prevenire qualsiasi tipo di trasferimento irresponsabile.
  • Tutti gli Stati dovrebbero partecipare ai dibattiti globali sul tema nei Fora internazionali pertinenti, al fine di lavorare verso una maggiore e più ampia consapevolezza della questione e supportare un percorso di più stretto controllo sui trasferimenti di droni e di tutta la tecnologia collegata ai droni.
  • (*) ripreso transform-italia.it

Daniele Taurino è un filosofo e un attivista per la nonviolenza fa parte del Direttivo Nazionale del Movimento Nonviolento ed è responsabile di redazione di Azione nonviolenta, entrambi fondati da Aldo Capitini. Co-fondatore della Rete italiana Giovani, Pace e Sicurezza, co-coordina il Gruppo Pace del Forum per lo Sviluppo Sostenibile. A livello internazionale è attivo in numerosi progetti europei e nelle reti EBCO-BEOC e War Resisters’ International. Inoltre, partecipa dal 2017 ai lavori dell’European Youth Forum, di cui attualmente presiede il Coordinamento tra i membri sull’agenda Giovani, pace e sicurezza.

La Rete WarFree mette in luce i danni dell’industria bellica

di Arnaldo Scarpa (*)

È stato un successo il convegno organizzato dalla Rete WarFree nella mattinata di sabato 20 novembre, presso la Facoltà di Economia, Giurisprudenza e Scienze Politiche di Cagliari, in stretta collaborazione con alcuni docenti della stessa Facoltà.

Circa un centinaio i partecipanti, per la maggior parte in presenza, in rappresentanza delle tante organizzazioni che sostengono il progetto nato a Iglesias come alternativa all’economia predatoria e di guerra.

Numerosi i relatori, perlopiù del mondo accademico, a mettere in evidenza i danni dell’industria bellica, della chimica di base, dell’industria dell’alluminio e dei poligoni militari sull’ambiente, sulla salute e sul sistema valoriale dei sardi e, per contro, i benefici che progetti come WarFree possono portare.

Da una ricerca sul campo, intorno all’attività della fabbrica di bombe da guerra che si trova tra Domusnovas e Iglesias, condotta dal Comitato Riconversione Rwm negli anni scorsi, con l’impegno fattivo di un gruppo di laureandi e laureati dell’Università di Cagliari, è nato il progetto WarFree – Lìberu dae sa gherra, vera e propria ricetta alternativa all’estrazione di valore tipica dell’industria bellica e, in generale di tutte le attività produttive che non mettono al primo posto il benessere a lungo termine di tutti i soggetti coinvolti, dalla produzione all’utilizzo finale.

WarFree è una Rete di trentacinque microimprese che si riconoscono in una Carta dei Valori che ha come primo punto il rifiuto di ogni connivenza con l’economia di guerra. Esse si sostengono e si promuovono reciprocamente, nello sforzo di aumentare i fondamentali economici: fatturato, utili, occupazione, ecc., nell’attenzione costante alla sostenibilità etica ed ambientale.

Il Marchio Collettivo Europeo WarFree identifica i prodotti e i servizi del gruppo, caratterizzati da scelte concrete come la ricerca costante della sostenibilità ambientale, l’agricoltura naturale, l’impegno a sostituire le sostanze chimiche nocive e le plastiche per il confezionamento dei prodotti, la progressiva scelta di fonti energetiche rinnovabili e non inquinanti, il rispetto dei diritti dell’umanità, delle lavoratrici e dei lavoratori.

L’associazione che le rappresenta offre formazione permanente, consulenza rapida tramite una serie di professionisti esperti in vari campi e assistenza per l’accesso a finanziamenti agevolati.

I servizi di packaging, marketing e comunicazione digitale sono invece disponibili per i soci attraverso la Cooperativa WarFree Service, costituita da giovani comunicatori, in prevalenza donne, vincitrice di un premio di oltre 10.000 euro messo a bando dal programma europeo Success, condotto in Sardegna dalla Camera di Commercio di Sassari.

Il progetto è stato sostenuto fin dal principio dalla Chiesa Protestante del Baden (Germania), dalle Chiese Evangeliche italiane, e da altri partner, tra i quali l’associazione Link – Legami di Fraternità (del Movimento dei Focolari), i soci e le socie di Banca Etica – Sud Sardegna, oltre che dal citato Comitato Scientifico, costituito da alcuni docenti dell’Università di Cagliari.

Al convegno hanno inviato messaggi di saluto e sostegno i Vescovi di Cagliari e di Iglesias, così come i responsabili degli Uffici diocesani per i Problemi sociali e il Lavoro e per l’Ecumenismo di Cagliari mentre non hanno partecipato, pur essendo stati tutti invitati, i responsabili della amministrazione regionale e delle principali organizzazioni datoriali e sindacali della Sardegna. Assente anche il Comune di Iglesias, sede, oltre che della fabbrica di bombe, anche della Rete WarFree.

(*) Arnaldo Scarpa è il co-presidente dell’associazione di categoria Rete WarFree; il testo è ripreso – come la scheda successiva – da www.manifestosardo.org

Progetto Warfree: liberu de sa gherra

QUI IL VIDEO: https://youtu.be/QCfEW1HHXts

Pubblichiamo la video registrazione del convegno organizzato dalla Rete WarFree nella mattinata di sabato 20 novembre, nella Facoltà di Economia, Giurisprudenza e Scienze Politiche di Cagliari, in stretta collaborazione con alcuni docenti della stessa Facoltà.

WarFree è una Rete di trentacinque microimprese che si riconoscono in una Carta dei Valori che ha come primo punto il rifiuto di ogni connivenza con l’economia di guerra. Esse si sostengono e si promuovono reciprocamente, nello sforzo di aumentare i fondamentali economici: fatturato, utili, occupazione, ecc., nell’attenzione costante alla sostenibilità etica ed ambientale. Il Marchio Collettivo Europeo WarFree identifica i prodotti e i servizi del gruppo, caratterizzati da scelte concrete come la ricerca costante della sostenibilità ambientale, l’agricoltura naturale, l’impegno a sostituire le sostanze chimiche nocive e le plastiche per il confezionamento dei prodotti, la progressiva scelta di fonti energetiche rinnovabili e non inquinanti, il rispetto dei diritti dell’umanità, delle lavoratrici e dei lavoratori.

LE IMMAGINI sono scelte dalla “bottega”: le vignetta sono di Mauro Biani e Benigno Moi, le due sculture di Michael Murphy

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Mosaico dei giorni
    “Non con i nostri soldi” di Tonio Dell’Olio
    3 dicembre 2021

    Una legge che passa all’unanimità forse non è un’eccezione ma sicuramente è un bel segno. Soprattutto quando sai che i 383 deputati che partecipavano alla seduta ieri, hanno votato favorevolmente al divieto di investire denaro italiano in aziende che producono mine antipersona e bombe a grappolo. E sì, perché il paradosso era proprio questo: da tanti anni ormai l’Italia aveva detto no alla produzione, all’uso, allo stoccaggio e alla vendita in qualsiasi forma di armi inumane come le mine antipersona e poi permetteva che finanziarie, istituti di credito, fondi pensione, potessero trarre profitto dall’azionariato in imprese operanti al di fuori dei confini nazionali. Finalmente questa vergogna non è più possibile! Ricordiamo che le mine, come le armi nucleari, non discriminano l’obiettivo ed esplodono sotto i piedi di contadini e bambini, gente comune e persone inconsapevoli e inermi. Ricordiamo che purtroppo le mine sono armi che restano minacciosamente mimetizzate e pronte ad esplodere anche dopo la firma dei trattati di pace, degli armistizi e della cessazione delle ostilità. Trarre profitto da questo orrore non è cosa umana. Un grazie ai deputati e alla “Campagna contro le mine” che caparbiamente ha portato avanti questa opzione etica.

  • Giuseppe Bruzzone

    Esprimo anch’ io la mia contentezza, è stata una buona scelta quella dei parlamentari.
    Agli stessi in questi giorni sono arrivate o stanno arrivando richieste per la firma del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari cioè quel Trattato che potrebbe impedire che una guerra tra due o più Stati coinvolga inesorabilmente tutti gli altri che non vi partecipano, oltre a impedire che le distruzioni delle persone e delle cose raggiungano livelli mai avvenuti in passato. Sarà possibile sperare ?

  • domenico stimolo

    Inserisco qui, per giusta attinenza, la segnalazione di uno scritto – a cura di Luca Baida – pubblicato dal “ terzo giornale” in data 16 settembre sui tribunali militari, con il titolo “ la destra vuole riformare i tribunali militari”.
    Nello specifico l’articolo riguarda il disegno di legge presentato al Senato da FdI – prima firmataria Isabella Rauti – .
    Scrive tra l’altro Baida :“ Porta davanti ai tribunali militari gli appartenenti a tutte le forze armate per parecchie categorie di reati……”.
    Una questione di primaria importanza per la nostra struttura sociale e civile, di norma assente dagli organi informativi e dal dibattito politico, quindi, a parte nicchie selettive, escluso dall’interesse e dal coinvolgimento dei cittadini.

    Un articolo di grande interesse, pubblicato anche dalla “ Lista Deportati mai più”.
    E’ leggibile su:
    https://www.terzogiornale.it/2022/09/16/la-destra-vuole-riformare-i-tribunali-militari/

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