Nell’abisso non c’è solo la Palestina

dossier con testi di Mario Sommella, Lavinia Marchetti, Ilan Pappé (in uscita un suo nuovo libro), Sergio Sinigaglia, Francesco Cappello, SlaiCobas di Ravenna e 2 video.

Dalla parte giusta della storia: la Spagna di Sánchez e la lezione di dignità che l’Italia rifiuta

Ci sono momenti in cui la Storia bussa alla porta della politica. E non accetta silenzi, né ambiguità. Il governo spagnolo, guidato da Pedro Sánchez, ha risposto con fermezza e coraggio morale. Lo ha fatto assumendosi una responsabilità che altri, come l’Italia, continuano a scansare dietro il paravento della “neutralità”, della realpolitik o, peggio, della complicità silenziosa.

Con una decisione senza precedenti nell’Unione Europea, Sánchez ha annunciato nove misure dure e concrete contro Israele, accusato apertamente di genocidio nella Striscia di Gaza. Non è più solo una questione di posizionamento diplomatico, ma di rottura netta con il disumano. Lo ha detto con chiarezza: «Non è difendersi. Non è nemmeno attaccare. È sterminare un popolo indifeso». Ed è proprio da questa consapevolezza che nasce un atto politico tanto radicale quanto necessario.

L’embargo legale sulle armi: dalla parola all’azione

La misura più forte è il decreto legge reale che sancisce l’embargo totale e vincolante sulle forniture militari a Israele. Una scelta che mette fine all’ipocrisia dei “blocchi di fatto” e degli embarghi mai applicati fino in fondo. In un’Europa che ancora permette transiti bellici, vendita di tecnologie dual use, e addirittura gemellaggi militari con Tel Aviv, la Spagna compie un passo di rottura con le logiche dominanti dell’atlantismo cieco.

L’embargo spagnolo non si limita al commercio di armi. Vieta anche il transito nei porti e negli aeroporti di navi e aerei diretti in Israele con materiali bellici o combustibili per uso militare. Nessun altro governo occidentale ha avuto il coraggio di fare altrettanto. E nessun altro leader europeo ha pronunciato parole tanto chiare nel denunciare quello che sta accadendo a Gaza: un genocidio, sotto gli occhi di tutti.

Sanzioni personali e sostegno concreto al popolo palestinese

Altrettanto significative sono le misure che vietano l’ingresso in Spagna ai responsabili diretti e indiretti delle operazioni militari nella Striscia. Una risposta limpida ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant, che la Spagna si è detta pronta a rispettare. È un segnale potente: chi stermina i civili non può godere dell’impunità diplomatica.

Ma la politica del governo Sánchez non si ferma alla condanna. Punta a rafforzare gli strumenti di sostegno concreto al popolo palestinese, in particolare attraverso l’aumento degli aiuti umanitari e lo stanziamento di 150 milioni di euro all’UNRWA entro il 2026, nonostante le pressioni israeliane e statunitensi volte a screditare l’agenzia ONU. Sono stati inoltre varati nuovi progetti nei campi dell’agricoltura, della sanità e dell’alimentazione, e la Spagna rafforzerà il proprio impegno nella missione europea alla frontiera di Rafah.

Altre due misure emblematiche: il divieto di importazione di prodotti dai territori occupati, come i datteri Medjoul, e la riduzione dei servizi consolari agli israeliani residenti negli insediamenti illegali. È il segnale che la legalità internazionale non è solo una formula astratta, ma una linea di condotta concreta.

Il coraggio politico che manca all’Italia

Di fronte a questa presa di posizione netta e coerente, il governo italiano appare ancora una volta dalla parte sbagliata della Storia. Giorgia Meloni e il suo esecutivo, pur professandosi fedeli ai valori della Costituzione, preferiscono l’inerzia e la subalternità. Mentre Sánchez chiude i porti alle armi, l’Italia li apre agli F35 israeliani per manutenzioni segrete e addestramenti congiunti. Mentre la Spagna vieta l’ingresso agli sterminatori di bambini, l’Italia ospita militari IDF “in vacanza”, a ritemprarsi prima di tornare a massacrare civili nella Striscia.

Meloni alza la voce contro i migranti, ma tace davanti alle bombe su ospedali e campi profughi. Difende la “civiltà occidentale” mentre la civiltà implode sotto il peso dell’indifferenza e della complicità. L’Italia – Paese firmatario della Convenzione per la prevenzione del genocidio – si ostina a non vedere, non sentire, non agire. Persino la sinistra istituzionale balbetta, incapace di proporre una linea chiara, schiacciata tra il terrore di essere etichettata come “filo-Hamas” e l’ignavia di chi ha perso ogni riferimento etico.

La dignità come atto politico

Le parole di Sánchez non sono retorica. Sono un appello alla coscienza europea. E ricordano che governare non significa semplicemente amministrare, ma scegliere. E le scelte hanno un peso storico. «La Spagna vuole che la sua società sappia di essersi collocata dalla parte giusta della storia» ha detto il premier. Ecco cosa significa essere democratici: non difendere l’ordine costituito a prescindere, ma rompere con l’ingiustizia quando questa si fa sistema.

Di fronte al genocidio in corso, ogni ambiguità è complicità. Ogni silenzio è tradimento. Ogni neutralità è un atto di viltà. Ecco perché la scelta del governo spagnolo va sostenuta, diffusa, imitata. Perché ci ricorda che esiste un altro modo di fare politica, che non si inginocchia davanti ai padroni del mondo e non chiude gli occhi davanti alla morte.

La Storia registra tutto. E non perdona chi si gira dall’altra parte.

FONTI
• Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2025
• El País, dichiarazione ufficiale di Pedro Sánchez
• Dichiarazioni ONU, UNRWA, ICC (Corte Penale Internazionale)
• Articoli e report di Amnesty International e Human Rights Watch
• Osservatori indipendenti su Gaza (Euro-Med Monitor, PCHR)

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com

 

LA STORIA DELLA NAKBA

di Lavinia Marchetti

Purtroppo i testi usciti di recente, i bignami alla Travaglio, che hanno provato a descrivere anche la Nakba, sono insufficienti, spesso fuorvianti e comunque partono da un’irrimediabile punto di vista coloniale sul mondo. Leggendo vari libri sull’argomento, ho comparativamente, copicchiando su quelli più autorevoli, fatto una sintesi. Lunghissima per Facebook, però per chi ha voglia di leggerselo con calma, è qui. Ho letto molto sull’argomento. Peraltro ho due testi, in pdf, piuttosto grandi di formato, non facilmente reperibili. A mio avviso fondamentali. Sono: Before their Diaspora A Photographic History of the Palestinians 1876-1948 (Walid Khalidi) e un testo monumentale di 1200 pagine che ho letto a sprazzi: All That Remains The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948 (sempre di Walid Khalidi).

Nakba (in arabo “catastrofe”) è il termine con cui i palestinesi indicano la tragedia del 1948: la distruzione della loro società in Palestina e la trasformazione in profughi di gran parte della popolazione araba locale. In seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948 e alla fondazione dello Stato di Israele, circa 700–800 mila palestinesi (oltre metà degli arabi di Palestina) furono costretti ad abbandonare le proprie case, spesso con la forza o sotto il terrore di massacri. Nell’arco di pochi mesi, 531 villaggi palestinesi vennero distrutti e almeno 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Questo processo, pianificato dai comandanti sionisti a marzo 1948 e attuato sistematicamente durante la guerra, ha tutti i caratteri di una pulizia etnica deliberata. La Nakba segnò una frattura epocale nella storia mediorientale: non solo un immane sconvolgimento demografico e territoriale, ma anche un trauma politico e culturale dalle conseguenze durature per il popolo palestinese.

LE ORIGINI DEL 1948: CONTESTO E CAUSE DELLA NAKBA

Per comprendere la Nakba occorre situarla nel contesto del conflitto arabo-sionista sotto il Mandato britannico. Il movimento sionista, sorto a fine Ottocento con l’obiettivo di fondare uno Stato ebraico in Terra d’Israele (Palestina), dovette confrontarsi sin dall’inizio con la presenza di un numeroso popolo indigeno arabo-palestinese. Fin dai primi decenni, alcuni leader sionisti considerarono l’idea di trasferire forzosamente la popolazione araba per assicurare la maggioranza ebraica nel futuro Stato. Lo storico palestinese Nur Masalha documenta come il concetto di transfer, eufemismo per indicare la rimozione organizzata degli arabi dalla Palestina, fosse «centrale nel pensiero strategico della leadership sionista» sin dagli albori del progetto. Trasformare una terra arabizzata da secoli in uno Stato a maggioranza ebraica implicava, in ultima analisi, uno sradicamento demografico. Nei decenni ’30 e ’40, di fronte alla crescita della popolazione ebraica grazie all’immigrazione, l’idea del trasferimento forzato degli arabi divenne sempre più concreta. Piani dettagliati di “trasferimento” circolarono ai vertici dell’Yishuv (il comunità ebraica in Palestina), specialmente dopo il Rapporto Peel del 1937 che per primo propose lo scambio di popolazioni. Il leader sionista Chaim Weizmann espresse apertamente l’auspicio di vedere la Palestina «ebraica come l’Inghilterra è inglese», un obiettivo realizzabile solo riducendo drasticamente la presenza araba.

Già prima del 1948, dunque, il terreno ideologico era preparato. Eppure, ufficialmente, la dirigenza sionista evitò dichiarazioni palesi di espulsione forzata, consapevole delle implicazioni morali e diplomatiche. Fu la crisi bellica del 1947-48 a offrire l’opportunità per attuare nei fatti quella “soluzione” demografica a lungo vagheggiata. Nel novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono un piano per la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, provocando l’immediato rifiuto arabo-palestinese (che vedeva negato il principio di autodeterminazione della maggioranza indigena) e l’avvio di una guerra civile. Tra dicembre 1947 e l’inizio del 1948, mentre aumentavano gli scontri tra milizie sioniste e arabi palestinesi, la leadership dell’Yishuv maturò la convinzione che solo la forza avrebbe potuto assicurare il nascente Stato d’Israele entro confini ampliati e “ripuliti” dalla maggior parte degli arabi. Nel marzo 1948 lo Stato Maggiore dell’Haganah (la principale organizzazione armata sionista) adottò il famoso Piano D (Dalet), punto di svolta nelle vicende della Nakba. Il Piano D, osserva lo storico Avi Shlaim, mirava a garantire il controllo militare e amministrativo delle aree assegnate allo Stato ebraico (e oltre) «così da fornire una solida base continua per la sovranità ebraica». La vera novità era l’ordine di «occupare i villaggi e le città arabe», cosa mai tentata prima su larga scala. Pur se formulato in modo ambiguo, il piano puntava in sostanza a «liberare l’interno del Paese da elementi arabi ostili» e «in tal senso forniva un mandato per espellere i civili». Implementando il Piano D nell’aprile-maggio 1948, l’Haganah contribuì in modo diretto e decisivo alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi.

Lo scoppio della guerra aperta consolidò tra i dirigenti sionisti l’idea che la rimozione della popolazione araba fosse non solo desiderabile, ma necessaria per la sopravvivenza di Israele. «Dall’inizio di aprile 1948 – scrive il celebre storico israeliano Benny Morris – il ‘trasferimento’ aleggiava nell’aria, e la partenza degli arabi era profondamente desiderata, a livello locale e nazionale, dalla maggioranza dello Yishuv, da Ben-Gurion in giù». Sebbene – nota Morris – non vi fosse un ordine generale centralizzato di espulsione per ogni villaggio, le azioni sul campo parlarono da sole: «molte unità [ebraiche] cacciarono fuori le comunità arabe di routine, mentre altre le lasciarono sul posto; […] in luglio e di nuovo in ottobre-novembre 1948, le truppe IDF continuavano a espellere comunità arabe, anche se molto dipendeva dalle circostanze locali e dai singoli comandanti». Insomma, gli eventi sul terreno – villaggio dopo villaggio – andarono componendo, de facto, un quadro generale di pulizia etnica, ancor prima che la dirigenza politica ne formulasse uno esplicito. Il risultato, rimarca Morris, fu che nell’Israele emergente rimase solo un’esigua minoranza di arabi (circa 150.000 su 900.000 originari). La maggioranza degli arabi palestinesi, invece, fu rimossa: «si può ben dire che tutti i circa 700.000 che finirono per essere profughi furono spostati a forza o espulsi». Cruciale, a questo riguardo, fu la decisione del governo israeliano – presa già nell’estate 1948 – di vietare in modo tassativo il ritorno degli arabi espulsi o fuggiti: «la politica fu di impedire il ritorno dei rifugiati a tutti i costi, applicata con determinazione e spesso brutalità». Anche coloro che tentavano di rientrare clandestinamente venivano routinely rastrellati ed espulsi di nuovo. In questo senso, conclude amaramente Morris, persino chi era fuggito senza uno sfollamento coercitivo diretto – magari per paura o per il caos dei combattimenti, divenne, di fatto, un espulso permanente a causa del divieto israeliano di rimpatrio.

Dall’altra parte, il racconto degli eventi fornito dal mondo arabo-palestinese era diametralmente opposto a quello auto-rassicurante israeliano. Secondo la propaganda ufficiale di Israele, i palestinesi avrebbero abbandonato le loro case volontariamente, o su ordine dei propri leader e dei governi arabi, lasciando intendere che l’esodo fosse in fondo autoinflitto e assolvendo così Israele da ogni responsabilità morale. Questa versione, “i palestinesi se ne sono andati spontaneamente”, divenne a lungo la narrativa pubblica israeliana, funzionale a presentare lo Stato ebraico nascente come «più giusto e morale» dei suoi vicini arabi. Il mondo arabo, al contrario, denunciava fin dal 1948 che l’esodo palestinese era frutto di una espulsione pianificata e violenta, parte integrante del progetto sionista di colonizzazione. Per decenni le due parti brandirono queste interpretazioni opposte come arma polemica: Israele negando qualunque colpa (“furono gli arabi a volersene andare”), i palestinesi ricordando al mondo la loro Nakba e reclamando il diritto di tornare. La ricerca storica moderna, in particolare il lavoro dei cosiddetti New Historians israeliani negli anni ’80 e ’90, ha permesso di fare luce su molti documenti d’archivio e di smentire la versione ufficiale israeliana. Come scrive l’ex ministro britannico Ian Gilmour, Israele fu fondato «su un crimine e una menzogna»: il crimine dell’espulsione di circa 750.000 palestinesi (il 90% degli arabi dei territori che divennero Israele) unito al rifiuto di farli rientrare, e la menzogna di negare tale espulsione sostenendo falsamente che i profughi «se ne erano andati di propria volontà, incoraggiati da proclami arabi». In realtà, sottolinea Gilmour, «nessun ordine di evacuazione fu mai emanato dai leader arabi», anzi questi esortarono i civili a rimanere; le indagini storiche hanno stimato che «la partenza di solo il 10% dei profughi poté in qualche modo definirsi volontaria». La storiografia più rigorosa oggi concorda sul fatto che la grande maggioranza dei palestinesi del 1948 dovette andarsene a causa diretta delle azioni militari sioniste (attacchi, espulsioni forzate, massacri intimidatori) o in fuga precipitosa per il terrore generato da queste violenze.

Va comunque ricordato che, nei convulsi frangenti della guerra, anche fattori arabi interni contribuirono in parte all’esodo. Lo stesso Morris e altri storici (compresi studiosi palestinesi) riconoscono che alcune evacuazioni di villaggi furono inizialmente incoraggiate da dirigenti arabi locali, preoccupati di mettere al sicuro donne, bambini e anziani dalle zone di combattimento. Già a fine 1947, ad esempio, il Comitato Nazionale Arabo invitò le famiglie non combattenti a lasciare alcune aree ad alto rischio. In altri casi, notabili e ufficiali arabi ordinarono l’evacuazione totale di villaggi ritenuti indifendibili o esposti, temendo che restare significasse arrendersi al nemico. Queste partenze anticipate – spesso caotiche e prive di coordinamento – ebbero un effetto domino psicologico devastante: erosero la fiducia dei palestinesi nella capacità dei loro leader di proteggerli e li spinsero via via a “seguire i vicini” sulla via dell’esilio. La disgregazione della società palestinese, già fiaccata da decenni di colonizzazione e repressione (si pensi alla rivolta del 1936-39 sanguinosamente soppressa dai britannici), raggiunse così un punto di non ritorno sotto l’incalzare degli eventi del 1948.

DALLA GUERRA ALL’ESODO: GLI EPISODI PIÙ VIOLENTI DELLA NAKBA

Tra la primavera e l’estate del 1948, la guerra in Palestina seguì una dinamica che combinò operazioni militari convenzionali e pulizia etnica della popolazione civile. Sin dalle prime fasi, le forze sioniste (Haganah, Palmach e anche milizie irregolari come l’Irgun e la Banda Stern) misero in atto una strategia di “offesa aggressiva” e terrore psicologico verso i centri arabi. Nel mese di aprile 1948, in particolare, una serie di operazioni (come Nahshon nel corridoio Gerusalemme-Tel Aviv) rovesciarono le sorti del conflitto a favore degli ebrei, passando da una fase difensiva a una franca offensiva generale. L’ordine era di conquistare posizioni strategiche e “ripulirle” dagli abitanti arabi. È in questo contesto che si inseriscono alcuni degli episodi più truci e sanguinosi della Nakba, entrati tragicamente nella memoria storica.

Uno di essi è il massacro di Deir Yassin, un villaggio palestinese alle porte di Gerusalemme, accaduto il 9 aprile 1948. Deir Yassin era un piccolo paese che aveva persino firmato un patto di non aggressione con le vicine forze ebraiche. Ciò nonostante, rientrava nell’area che il Piano Dalet designava per la “pulizia” etnica, e venne dunque condannato alla distruzione. Alle prime luci del 9 aprile, unità armate dell’Irgun e della Banda Stern – due milizie sioniste estremiste – attaccarono il villaggio circondandolo. Secondo il racconto dello storico Ilan Pappé, «i soldati ebrei irruppero nel villaggio e crivellarono di colpi le case, uccidendo molti degli abitanti». Quelli che sopravvissero all’assalto iniziale furono radunati e «assassinati a sangue freddo», con i cadaveri poi mutilati, e «molte donne vennero violentate prima di essere uccise».

Una testimonianza agghiacciante è quella di Fahim Zaydan, un ragazzo di 12 anni all’epoca, che vide sterminare la sua famiglia davanti ai suoi occhi: «Ci fecero uscire uno a uno; spararono a un vecchio e quando una delle sue figlie si mise a piangere, uccisero anche lei. Poi chiamarono mio fratello Muhammad e gli spararono di fronte a noi, e quando mia madre urlò, chinandosi su di lui con in braccio la mia sorellina Hudra ancora allattata al seno, uccisero anche lei». Fahim stesso fu ferito dai proiettili mentre i miliziani allineavano i bambini contro un muro e «li falciavano solo per divertimento», ma fortunatamente sopravvisse sotto i corpi degli amichetti.

Le dimensioni esatte della strage di Deir Yassin furono a lungo oggetto di polemica. La propaganda sionista dell’epoca vantò un numero esagerato di vittime (254 morti) – nel tentativo deliberato di seminare il terrore tra gli arabi palestinesi. Studi successivi ridussero il bilancio, fissandolo a 93 morti accertati, comunque un massacro spaventoso. Pappé sottolinea che tra gli uccisi vi furono “circa trenta neonati”, a dimostrazione del fatto che «la distinzione tra ‘colpiti in battaglia’ e massacrati civili inermi era assai labile» nella mentalità dei combattenti ebrei, che consideravano ogni villaggio arabo come una base nemica. Al di là delle cifre, l’impatto psicologico fu enorme. Deir Yassin divenne l’«epicentro della catastrofe»: le autorità sioniste stesse diffusero la notizia del massacro per «avvertire tutti i palestinesi che una sorte simile li attendeva se non abbandonavano subito le loro cas». La strategia funzionò. Quando pochi giorni «dopo la popolazione araba di Haifa e di altre città seppe dell’eccidio, il panico dilagò. Appena le notizie di Deir Yassin – e del massacro compiuto tre giorni dopo nel vicino villaggio di Khirbet Nasr al-Din – raggiunsero la numerosa popolazione palestinese [di Tiberiade], molti fuggirono» racconta Pappé. Anche il rimbombo dell’artiglieria ebraica, i bombardamenti indiscriminati e persino trovate di guerra psicologica (come altoparlanti che diffondevano rumori spaventosi) terrorizzarono la gente. Nel giro di una settimana, città miste come Tiberiade e Haifa, dove arabi ed ebrei avevano convissuto per anni, collassarono: decine di migliaia di arabi scapparono verso il porto o le colline, spesso senza che vi fosse stato un ordine diretto di sgombero, ma in preda al panico e convinti che arrendersi significasse andare incontro a un altro Deir Yassin. Gli ufficiali britannici presenti in Palestina osservarono spesso impassibili queste scene, talvolta persino incoraggiando l’evacuazione delle città arabe per “evitare spargimenti di sangue”, di fatto facilitando il piano sionista di ripulire le zone strategiche.

Un altro capitolo cruciale (e cruento) della Nakba fu la conquista delle città arabe di Lydda (Lod) e Ramle, nel cuore della Palestina centrale, a luglio 1948. Queste due cittadine, popolate complessivamente da oltre 50.000 arabi e presidiate solo da deboli forze locali, costituivano un ostacolo all’unificazione del territorio israeliano tra Tel Aviv e Gerusalemme. Il primo ministro David Ben-Gurion le considerava «due spine nel fianco» di Israele, «pericolose sotto ogni aspetto», al punto da annotare ossessivamente nel suo diario che «dovevano essere distrutte». L’operazione militare lanciata a metà luglio (nome in codice Danny) ebbe dunque un duplice scopo: annientare la resistenza araba a Lydda-Ramle e provocare l’esodo forzato della popolazione. All’alba del 10 luglio 1948, poderose unità dell’IDF – tra cui le brigate Yiftah e Harel del Palmach, supportate da artiglieria – accerchiarono Lydda e Ramle. I legionari transgiordani, che avrebbero dovuto difendere la zona, si erano in gran parte ritirati; in città restavano solo milizie improvvisate di abitanti e qualche volontario arabo. La mattina dell’11 luglio, dopo intensi combattimenti periferici, le truppe israeliane penetrarono dentro Lydda: una colonna corazzata guidata dal giovane colonnello Moshe Dayan attraversò la città a tutta velocità aprendo il fuoco su chiunque vedesse per strada. Un soldato israeliano, soprannominato “Gideon”, ricordò in seguito quella incursione di 47 minuti così: «[Il mio] jeep fece la curva ed ecco sulla soglia di una casa di fronte una ragazza araba che urla, gli occhi pieni di terrore. È tutta lacera e coperta di sangue… Intorno a lei a terra giacciono i cadaveri della sua famiglia… Ho aperto il fuoco contro di lei? … Ma perché porsi queste domande, siamo in mezzo alla battaglia, nel pieno della conquista della città. Il nemico è ad ogni angolo. Tutti sono nemici. Uccidi! Distruggi! Massacra! Altrimenti sarai tu a essere ucciso e non conquisterai la città». Questa furia omicida, come traspare dalle parole deliranti del miliziano, portò i soldati a sparare su chiunque, inclusi civili inermi. Dozzine di abitanti di Lydda caddero sotto i colpi quella mattina.

Il giorno seguente, 12 luglio, Lydda sembrava ormai caduta senza ulteriore resistenza, e a Ramle le autorità cittadine negoziavano la resa. Ma verso mezzogiorno successe l’imprevisto: una colonna di autoblindo giordane penetrò all’interno di Lydda (forse in ricognizione) e aprì il fuoco, cogliendo di sorpresa i soldati israeliani che credevano la città già pacificata. Ne seguì uno scontro a fuoco caotico; alcuni civili di Lydda, vedendo i blindati arabi, imbracciarono le armi e spararono dalle finestre. Gli occupanti israeliani reagirono in modo indiscriminato e spietato: in preda al panico, «spararono a qualsiasi cosa si muovesse, lanciarono granate nelle case e massacrarono i prigionieri palestinesi radunati nel cortile di una moschea». In poche ore, furono uccisi «circa 250 abitanti» di Lydda (tra uomini, donne e bambini), come ammise poi lo stesso rapporto ufficiale dell’IDF. Fu un vero eccidio, passato alla storia come la strage della moschea di Dahmash. A quel punto Ben-Gurion, informato dei fatti, diede luce verde al piano premeditato: espellere in massa tutta la popolazione civile di Lydda e Ramle. «I loro abitanti devono essere espulsi rapidamente, senza riguardo all’età», recitava l’ordine diramato dal capo operativo Yitzhak Rabin, specificando di «dirigerli verso Beit Nabala» (un villaggio sulla via per la Cisgiordania). Un ordine analogo arrivò per Ramle, nonostante la resa firmata garantisse teoricamente la permanenza di chi lo desiderava, con l’istruzione di trattenere solo gli uomini in età militare come prigionieri.

Nel giro di 48 ore, le forze israeliane svuotarono completamente Lydda e Ramle. Circa 50.000 persone (comprese migliaia di rifugiati di villaggi vicini che si erano ammassati lì) furono costrette ad avviarsi in un estenuante esodo forzato. Da Lydda la colonna di profughi fu cacciata a piedi, sotto il sole cocente di luglio, lungo la strada verso est; ai posti di blocco, molti soldati derubarono i fuggitivi degli averi rimasti, persino dell’acqua. Da Ramle una parte degli abitanti fu caricata su camion dell’esercito fino a un punto di scarico, per poi proseguire a piedi verso la linea del fronte transgiordano. La marcia si trasformò ben presto in un calvario: «soffrendo la fame e la sete, decine [di persone] morirono lungo il cammino verso Ramallah», annota Morris. Un soldato israeliano descrisse la scena desolante lasciata dal convoglio di sfollati: «all’inizio [abbandonavano] utensili e mobili, e alla fine, corpi di uomini, donne e bambini sparsi lungo la strada. Anziani seduti accanto ai carri imploravano una goccia d’acqua – ma non ce n’era». Un altro testimone ricordò di «bambini persi» nella calca e persino di un bimbo caduto in un pozzo e annegato senza che nessuno potesse salvarlo, mentre intorno scoppiavano tafferugli disperati per un sorso d’acqua. «Nessuno saprà mai quanti bambini morirono durante la marcia», scrisse nelle sue memorie il generale arabo John Glubb, comandante della Legione Transgiordana.

L’operazione Lydda-Ramle rappresenta uno degli atti più espliciti di pulizia etnica pianificata compiuti nel 1948. Perfino un comandante israeliano (probabilmente Yigal Allon) spiegò a posteriori che l’enorme colonna di profughi in movimento aveva fornito a Israele «un utile strumento strategico»: ingombrando le strade e appesantendo le linee nemiche con decine di migliaia di disperati bisognosi di aiuto, rendeva più difficile una controffensiva araba e minava il morale dei legionari di re Abdullah. In effetti, l’esodo di Lydda-Ramle generò scompiglio politico e sociale anche nel campo arabo: improvvisi assembramenti di decine di migliaia di profughi affamati misero in crisi le città cisgiordane di Ramallah e Nablus, e la popolazione palestinese insorse accusando i governi arabi di inerzia di fronte alle pulizie etniche israeliane. Ma nulla poté cambiare l’esito. Per i profughi in marcia, la destinazione fu l’esilio: molti trovarono rifugio di fortuna nei campi allestiti a Ramallah, Gerico o nelle colline di circonvallazione, altri proseguirono verso la Giordania, la Siria o il Libano. L’esodo di Lydda e Ramle, la “marcia della morte” palestinese, divenne uno dei simboli tangibili della Nakba.

Lungi dall’essere episodi isolati, Deir Yassin, Lydda, Ramle e decine di altri massacri e demolizioni punteggiarono la geografia della guerra del 1948. In Galilea, ad esempio, nel villaggio di Tantura (sulla costa a sud di Haifa) i soldati della brigata Alexandroni giustiziarono sommariamente circa 90 abitanti a fine maggio 1948, gettandone i corpi in fosse comuni sulla spiaggia. Nelle memorie di un ufficiale israeliano si legge la sconvolgente constatazione: «Il villaggio fu totalmente distrutto e tra le macerie c’erano molti corpi, in particolare di donne, bambini e neonati vicino alla moschea». Nel distretto di Acri, in Alta Galilea, villaggi come Saliha e Safsaf conobbero un destino simile: decine di civili furono trucidati sul posto dopo la resa (Safsaf, ottobre ’48, vide l’esecuzione di ~50 giovani e stupri di ragazze, secondo fonti dell’IDF). Nel villaggio di Dawayma, nei pressi di Hebron, truppe israeliane uccisero centinaia di abitanti nell’ottobre 1948, in quella che Benny Morris definì «più grande di Deir Yassin» quantomeno per numero di vittime. A Gerusalemme, atti di pulizia etnica avvennero anche a parti inverse: pochi giorni dopo Deir Yassin, il 13 aprile 1948, miliziani arabi attaccarono un convoglio medico ebraico diretto all’ospedale Hadassah sul Monte Scopus, massacrando 78 tra medici e infermieri, in quella che fu una rappresaglia feroce per Deir Yassinen.

La guerra del ’48 fu insomma spietata su entrambi i fronti; ma fu il fronte ebraico, armato e organizzato meglio, a conseguire non solo la vittoria militare, bensì l’obiettivo ultimo di “cacciare la maggior parte degli arabi e impadronirsi della loro terra”.

A fine conflitto (primavera 1949), il risultato era chiaro e irreversibile: circa 80% degli arabi dei territori conquistati da Israele non risiedevano più nelle loro case. La Palestina mandataria era stata letteralmente rifatta dal punto di vista etnico. «Il presidente israeliano Weizmann definì l’esodo arabo una miracolosa liberazione della terra» ricorda Gilmour – «benché di miracoloso non ci fosse nulla: fu il frutto di una spietata pulizia etnica». Weizmann e i leader sionisti avevano realizzato quel che sognavano da decenni: «come scrive Ilan Pappé, i due crimini del 1948-49 […] rappresentarono il compimento di un’ambizione sionista di lunga data». L’ideale del transfer – il trasferimento forzato della popolazione araba – si era pienamente concretizzato, dietro la cortina fumogena delle contingenze belliche. Nur Masalha parla di «continuità pervasiva del transfer nel pensiero e nell’azione sionista», smascherando il mito della “terra senza popolo” coniato dal propagandista Israel Zangwill: uno slogan che negava l’esistenza del popolo arabo palestinese, ridotto al rango di «accampamento temporaneo» da far sgomberare a piacimento.

In definitiva, la Nakba del 1948 fu la “soluzione finale” del problema demografico per il nascente Stato di Israele: «poiché la Palestina non era un Paese deserto, i sionisti dovettero costringere gli arabi a lasciarlo» chiosa Gilmour. Ben-Gurion stesso, già nel 1937, aveva scritto nel suo diario che «il trasferimento coatto degli arabi […] va abbracciato con la stessa tenacia con cui abbiamo fatto nostra la Dichiarazione Balfour e, ancor più, il sionismo stesso»: e nel 1948, conclude amaramente Masalha, «è esattamente ciò che avvenne».

CONSEGUENZE A LUNGO TERMINE DELLA NAKBA

Le ripercussioni della Nakba sul popolo palestinese sono state profonde e durature, plasmando la storia successiva del conflitto israelo-palestinese e l’identità stessa dei palestinesi. Innanzitutto, la Nakba creò la questione dei rifugiati palestinesi, una tragedia umanitaria e politica tuttora irrisolta. Entro il 1949, circa 750.000 profughi palestinesi si trovavano dispersi fuori dalle loro terre d’origine, nei campi profughi allestiti in Cisgiordania (allora sotto amministrazione giordana), nella Striscia di Gaza (sotto controllo egiziano), in Libano, Siria, Transgiordania e altrove. Intere comunità, villaggi e famiglie erano state smembrate. Le proprietà abbandonate, case, campi, oliveti, furono prontamente requisiti dallo Stato di Israele tramite leggi ad hoc (Absentees Property Laws), e redistribuiti ai cittadini ebrei o ai nuovi immigrati ebrei che affluivano da Europa e mondo arabo. Come notò l’osservatore israeliano Uri Avnery, «della vecchia società palestinese restavano solo polvere e macerie». La mappa della Palestina fu ridisegnata: città come Jaffa, Acri, Lydda, Ramle persero la loro componente araba quasi integralmente; circa 400 villaggi rurali palestinesi furono fisicamente rasi al suolo o occupati da coloni ebrei, al punto che oggi spesso ne restano solo i ruderi di una moschea o di un cimitero, nascosti dalla vegetazione mediterranea. La toponomastica stessa fu cambiata, sostituendo i nomi arabi con nomi ebraici: un’intera geografia veniva cancellata e riscritta, nell’intento di eliminare perfino la memoria dell’esistenza palestinese su quella terra.

Sul piano politico, la Nakba segnò la scomparsa della comunità nazionale palestinese come entità organizzata, almeno temporaneamente. «Nel 1948 metà degli arabi della Palestina, circa 1,4 milioni di persone, furono sradicati dalle loro case e divennero rifugiati» riassume lo storico Rashid Khalidi; al contempo «la tradizionale leadership politica e sociale palestinese fu dispersa e screditata, e le strutture politiche che quella classe dominava vennero polverizzate, per non essere mai più ricostituite». In effetti, molti leader palestinesi (notabili, parlamentari, attivisti) finirono in esilio o perdettero prestigio a causa della catastrofe, mentre i territori dove i palestinesi avrebbero potuto ancora aspirare a un proprio Stato, Gaza e Cisgiordania, furono annessi rispettivamente dall’Egitto e dalla Giordania nel 1949. Per quasi vent’anni dopo la Nakba, i palestinesi rimasero politicamente orfani: dispersi tra Paesi diversi, spesso relegati ai margini, senza una rappresentanza unitaria. Fu solo negli anni ’60 che una nuova generazione avrebbe fatto nascere l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), tentando di ricostruire un movimento nazionale autonomo.

Eppure, paradossalmente, la Nakba lungi dal cancellare l’identità palestinese finì per rafforzarla nel lungo periodo. Il sentimento di uno scopo comune e di una storia condivisa emerse più forte dalle ceneri del 1948. «Invece di causarne l’assimilazione nei Paesi ospitanti» scrive Khalidi «il trauma del 1948 rafforzò gli elementi identitari preesistenti, alimentando e consolidando una definizione di sé palestinese che era già presente». Milioni di palestinesi in esilio, pur integrandosi in varia misura nelle società di Siria, Libano, Giordania o altrove, continuarono a sentirsi parte di un unico popolo con una missione: il ritorno in patria e la riconquista dei propri diritti. «Gli eventi condivisi del 1948 avvicinarono i palestinesi in termini di coscienza collettiva, divenendo una potente fonte di credenze e valori comuni» prosegue Khalidi. Ovunque si trovassero, nei campi profughi di Gaza, nei sobborghi di Amman, nei quartieri di Beirut o nelle città della nuova Israele, i palestinesi tramandarono ai figli e ai nipoti la memoria della Nakba: i racconti dei villaggi perduti, le chiavi delle case lasciate, gli atti di proprietà custoditi gelosamente come simbolo di un diritto inviolato. Ancora oggi, a oltre 75 anni di distanza, la Nakba rimane «un argomento costante di discussione tra palestinesi di diverse provenienze e generazioni, e in ultima analisi una sorgente potente di convinzioni e valori condivisi». Questa memoria collettiva del trauma ha cementato la coscienza nazionale palestinese, fungendo da collante identitario persino più delle istituzioni politiche (spesso fragili) o delle frontiere geografiche.

La Nakba ha anche avuto conseguenze geopolitiche di vasta portata. Il conflitto israelo-palestinese, inizialmente localizzato, assunse una dimensione regionale e internazionale proprio a causa della questione dei rifugiati e della radicalizzazione che ne seguì. I paesi arabi confinanti, che avevano subito una cocente sconfitta nel 1948, dovettero farsi carico di centinaia di migliaia di profughi, con pesanti oneri socio-economici e tensioni interne. La presenza di popolazioni palestinesi in Giordania, Libano e Siria influenzò la politica di quegli Stati per decenni (si pensi al Settembre Nero giordano del 1970, o al ruolo dei palestinesi nella guerra civile libanese). Sul piano diplomatico, la questione dei rifugiati divenne uno dei nodi centrali di ogni trattativa di pace: già nel dicembre 1948 le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 194, affermando che i profughi disposti a «vivere in pace con i loro vicini» avevano diritto di ritornare a casa al più presto, oppure di ricevere compensazioni. Israele però rifiutò sempre tale principio, temendo (anche comprensibilmente dal suo punto di vista nazionale) che il ritorno in massa degli arabi avrebbe snaturato il carattere ebraico dello Stato appena creato. Questo rifiuto, il «secondo crimine» di cui parlava Gilmour, fece sì che il dramma dei rifugiati rimanesse aperto e dolorante fino a oggi. Circa 5 milioni di palestinesi sono tuttora registrati come rifugiati presso l’UNRWA (l’agenzia ONU per i profughi palestinesi), sparsi tra Territori occupati, Paesi arabi e diaspora globale.

Per lo Stato di Israele, la vittoria del 1948 fu completa sul piano territoriale, ma ne conseguì un conflitto permanente con il mondo arabo e con il popolo palestinese. La giovane Israele consolidò immediatamente la propria presa sui territori conquistati: tra il 1949 e il 1953 attuò politiche per giudaizzare il paesaggio, fondando nuove città e kibbutz sui siti arabi spopolati e promulgando leggi che espropriavano in massa le terre dei pochi arabi rimasti (quasi un milione di dunam di terreni fu confiscato ai cittadini arabo-israeliani tra il 1948 e il 1972). Tuttavia, la sicurezza restò un miraggio. Nei decenni successivi, la regione fu scossa da nuovi conflitti legati anche all’eredità della Nakba: la crisi di Suez del 1956 (durante la quale si verificarono ulteriori espulsioni e un massacro di civili a Kafr Qasim, in Israele, nell’ottobre 1956); la guerra dei Sei Giorni del 1967, che portò all’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza e a un secondo esodo di circa 300-400 mila palestinesi dalle nuove zone occupate; l’emergere della resistenza palestinese armata negli anni ’60 e ’70 (Settembre Nero, Guerra del Libano 1982, ecc.), fino alla prima Intifada del 1987 e oltre. La questione palestinese divenne così un conflitto di portata mondiale, con implicazioni durante la Guerra Fredda e coinvolgimento di grandi potenze, ma al cuore di essa rimaneva – e rimane tutt’oggi – la ferita aperta del 1948.

Dal punto di vista del popolo palestinese, la Nakba è molto più di un evento storico: è un’esperienza vissuta che si rinnova nelle generazioni. Ogni anno, il 15 maggio (anniversario del giorno successivo alla dichiarazione d’indipendenza di Israele) i palestinesi commemorano il Giorno della Nakba, in ricordo della loro catastrofe nazionale. In queste commemorazioni – con mostre, marce silenziose, chiavi simboliche esibite, affiora il racconto di ciò che la Nakba ha significato: la perdita della patria, l’angoscia dell’esilio, ma anche la perseveranza nell’identità e nella speranza del ritorno (al-‘awda). «La traumatica esperienza del 1948 e il suo impatto sui diversi segmenti del popolo palestinese è tuttora un tema comune di discussione […] e in definitiva una potente fonte di valori condivisi» ribadisce Khalidi. La Nakba è dunque una memoria viva che unisce i palestinesi nella diaspora come nei Territori Occupati, fungendo da pilastro della loro identità nazionale moderna. Paradossalmente, la catastrofe ha contribuito a forgiare la coscienza di sé del popolo palestinese come nazione distinta, con una narrazione storica comune di martirio e resilienza.

In conclusione, chiedersi “cos’è la Nakba?” significa entrare nel cuore della questione palestinese. La Nakba è la catastrofe fondativa per il popolo palestinese: è la distruzione nel 1948 di un’intera società, con violenze indicibili e ingiustizie mai riparate; è l’origine del lungo esilio e della statelessness (assenza di stato) di milioni di persone; è il trauma che ha ridefinito l’identità palestinese e, in buona parte, anche quella israeliana. La Nakba è un evento storico documentato con rigore – attraverso archivi, testimonianze, ricerche di storici israeliani, palestinesi e internazionali – ma è anche una ferita aperta, un dramma umano la cui eco risuona ancora oggi nei campi profughi di Gaza e Libano, come nei vicoli di Gerusalemme Est o nelle città della diaspora. Comprendere la Nakba significa capire perché il conflitto arabo-israeliano appare così intrattabile: al centro vi è il nodo irrisolto di un popolo che nel 1948 fu spogliato della propria terra e del proprio futuro, e che da allora rivendica riconoscimento, giustizia e il diritto a esistere come nazione libera. Come scrive lo storico Ilan Pappé, le pagine della Nakba «ci costringono a uscire dalla nostra pericolosa apatia e a guardare in faccia i crimini di guerra e contro l’umanità» commessi nel 1948. 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Zureiq, Constantin. Ma‘na al-Nakba. Beirut: Dar al-Ilm lil-Malayeen, 1948.

Masalha, Nur ad-Din. Expulsion of the Palestinians: The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought, 1882–1948. Beirut: Institute for Palestine Studies, 1992.

Sabbagh-Khoury, Areej. Colonizing Palestine: The Zionist Left and the Making of the Palestinian Nakba. Stanford: Stanford University Press, 2023.

Manna, Adel, ed., and Motti Golani. Two Sides of the Coin: Independence and Nakba, 1948. Two Narratives of the 1948 War and Its Outcome. 2011.

Sibilio, Simone. Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese. Roma: Edizioni Q, 2013.

Dalla Negra, Cecilia. Si chiamava Palestina. Storia di un popolo dalla Nakba a oggi. Ediz. integrale. Roma 2018.

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Pappé, I. (2006) The Ethnic Cleansing of Palestine. Oxford: Oneworld.

Shlaim, A. (2014) The Iron Wall: Israel and the Arab World. Updated and expanded edn. New York: W. W. Norton & Company.

Ilan Pappé: Deriva messianica, il sionismo verso la sua fine.

Fazi Editore annuncia che a ottobre pubblicherà il nuovo saggio del celebre storico israeliano Ilan Pappé «LA FINE DI ISRAELE. IL COLLASSO DEL SIONISMO E LA PACE POSSIBILE IN PALESTINA».

 

Ecco un recente intervento (un po’ sintetizzato) dello stesso Pappé.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe già s’intravedevano, ma ora sono evidenti fin nelle fondamenta. A più di 120 anni dal suo inizio, il progetto sionista in Palestina – l’idea d’imporre uno stato ebraico in un paese arabo, islamico e mediorientale – rischia forse di crollare? Storicamente, il rovesciamento di uno stato può avere cause molto diverse. Può essere la conseguenza di attacchi costanti da paesi vicini o di una guerra civile cronica. Può risultare dal collasso delle istituzioni pubbliche, diventate incapaci di dare servizi ai cittadini. Spesso comincia come un lento processo di disintegrazione che poi accelera fino a che abbatte strutture che sembravano solide e incrollabili.

Difficile è accorgersi dei primi segnali più evidenti che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a una fase storica che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché quando Israele si sarà reso conto della portata della crisi scatenerà una violenza feroce e sfrenata per cercare di contenerla, come fece il regime del l’apartheid in Sudafrica nei suoi ultimi giorni.

Un primo indicatore è la spaccatura della società israeliana ebraica, con due fronti rivali. La frattura nasce dall’aver definito l’ebraismo come nazionalismo. Anche se a volte l’identità ebraica in Israele è sembrata poco più che tema di dibattito tra fazioni laiche e religiose, ora è diventata lotta sul carattere dello stato stesso, che si combatte non solo sui mezzi d’informazione ma anche nelle strade. 

Uno dei due fronti può essere definito «stato di Israele». Ne fanno parte gli ebrei europei più laici, progressisti, in prevalenza (ma non solo) di classe media e i loro discendenti, che sono stati determinanti nella fondazione dello stato nel 1948 e sono rimasti egemoni fino alla fine del secolo scorso. Non fatevi trarre in inganno: la loro difesa dei «valori democratici liberali» non pregiudica l’adesione al sistema di apartheid imposto in van modi a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. Il loro desiderio essenziale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista da cui gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo «stato di Giudea», che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata e rappresenta la base elettorale che ha permesso la vittoria di Benjamin Netanyahu alle elezioni del 2022. La sua influenza negli alti ranghi dell’esercito israeliano e dei servizi di sicurezza sta aumentando in modo esponenziale. Lo stato di Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia estesa su tutta la Palestina storica. Per raggiungere l’obiettivo è determinato a ridurre al minimo il numero di palestinesi, e sta considerando l’idea di costruire un terzo tempio al posto della moschea Al Aqsa di Gerusalemme. Crede che questo gli consentirà di ripristinare l’epoca d’oro dei regni biblici. Per lo stato di Giudea gli ebrei laici sono eretici al pari dei palestinesi, se rifiutano di unirsi all’impresa.

I due fronti avevano cominciato a scontrarsi duramente già prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane successive all’attacco sembravano aver messo da parte le divergenze per concentrarsi sul nemico comune. Ma era un’illusione: il contrasto si è riacceso. Il risultato più probabile si sta già realizzando. Da ottobre più di mezzo milione di ebrei, rappresentanti dello stato di Israele, sono espatriati, un segnale che il paese sta venendo inghiottito dallo stato di Giudea. Questo è un progetto politico che il mondo arabo, e anche il mondo in generale, non tollererà a lungo.

II secondo segnale è la crisi economica di Israele. La classe politica non ha nessun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a continui conflitti armati, se non quello di dipendere sempre di più dagli aiuti statunitensi. Nell’ultimo trimestre del 2023 l’economia è crollata di quasi il 20 per cento; da allora la ripresa è fragile. È improbabile che i miliardi di dollari promessi da Washington riescano a invertire la tendenza. Anzi, le pressioni economiche non faranno che peggiorare se Israele entrerà in guerra con la milizia libanese Hezbollah, intensificando allo stesso tempo la sua attività militare in Cisgiordania, mentre alcuni paesi cominciano ad applicare delle sanzioni. La crisi è aggravata dall’incompetenza del ministro delle finanze Bezalel Smotrich, che sposta costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania ma sembra incapace di gestire il suo dicastero. Nel frattempo parte dell’élite economica e finanziaria (20 % di israeliani che pagano l’80% delle tasse) trasferisce all’estero i suoi capitali.

 

II terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele, che sta diventando uno stato paria. Il processo era cominciato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ne sono un riflesso le posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In passato il movimento globale di solidarietà con la Palestina era stato capace di convincere le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non era riuscito a far avanzare la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi il sostegno della classe politica ed economica a Israele era rimasto incrollabile. In questo contesto le recenti decisioni della Cig e della Cpi devono essere viste come un tentativo di dare ascolto alla società civile globale. I tribunali hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo stato israeliano.

Il quarto segnale è il cambio di rotta radicale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi, molti ora sembrano disposti a disfarsi del loro legame con Israele e con il sionismo e a partecipare al movimento di solidarietà con la Palestina. Le comunità ebraiche, soprattutto negli Stati Uniti, un tempo garantivano a Israele un’effettiva immunità dalle critiche. La perdita di questo sostegno ha grandi implicazioni per la reputazione del paese. L’ American Israel public affairs committee (Aipac, gruppo di pressione statunitense filoisraeliano) può ancora fare affidamento sui cristiani sionisti per fornire assistenza e rimpolpare le sue file, ma senza una significativa base ebraica non sarà la stessa formidabile organizzazione: il potere della lobby si sta sgretolando.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che sia ancora potente e che disponga di armi all’avanguardia. Ma i suoi limiti sono stati messi a nudo il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato fortunato, perché la situazione avrebbe potuto essere peggiore se Hezbollah si fosse unito in un attacco coordinato. Da allora Israele mostra di dipendere disperatamente da una coalizione guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, che per il suo attacco di avvertimento ad aprile ha schierato circa 170 droni oltre a missili balistici e guidati. Il progetto sionista conta più che mai sulla rapida consegna di enormi quantità di forniture da parte statunitense, senza le quali non sarebbe in grado neppure di combattere contro un piccolo esercito guerrigliero. Tra la popolazione ebraica del paese ormai c’è la percezione diffusa che Israele non sia pronto né capace di difendersi. Questo ha portato a una forte pressione per revocare l’esenzione dal servizio militare per gli ebrei ultraortodossi – in vigore dal 1948 – e per cominciare ad arruolarli in massa (il 25 giugno la corte suprema israeliana ha ordinato di arruolare gli studenti ultraortodossi delle yeshiva). Difficilmente farà una gran differenza sul campo, ma riflette la portata dei dubbi sull’esercito.

L’ultimo indicatore è la rinnovata energia dei giovani palestinesi. Sono molto più uniti, interconnessi e chiari sulle loro prospettive rispetto alla classe politica palestinese. Considerato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania e tra le più giovani al mondo, questo nuovo gruppo avrà un’influenza immensa sull’andamento della lotta di liberazione. Le discussioni che si stanno svolgendo al suo interno mostrano che le nuove generazioni vogliono istituire un’organizzazione davvero democratica – che si tratti di un’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) riformata o di una completamente nuova – che coltivi un’idea di emancipazione antitetica alla campagna dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per il riconoscimento dello stato. Sembrano preferire la soluzione di uno stato unico al modello ormai screditato dei due stati.

Riusciranno a mettere in piedi una risposta efficace al declino del sionismo? È difficile rispondere. Al collasso di un progetto statale non sempre segue un’alternativa più rosea. Altrove – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e duraturi possano essere gli sviluppi. In questo caso sarebbe una questione di decolonizzazione, e il secolo passato ci ha dimostrato che le realtà postcoloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’agire dei palestinesi potrà portarci nella giusta direzione. Io credo che una combinazione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando succederà, dobbiamo sperare che un robusto movimento di liberazione sarà lì a riempire il vuoto.

Per più di 56 anni quello che è stato definito «processo di pace» – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative statunitensi-israeliane a cui i palestinesi erano invitati a reagire. Oggi la «pace» deve essere sostituita con la decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro idea per la regione, alla quale gli israeliani saranno invitati a reagire. Per la prima volta, almeno da molti decenni, il movimento palestinese prenderebbe l’iniziativa avanzando le sue proposte per una Palestina postcoloniale e non sionista. Nel farlo guarderà probabilmente all’Europa o, più opportunamente, agli antichi assetti del Mediterraneo orientale, dove gruppi religiosi secolarizzati si trasformarono gradualmente in gruppi etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che la prospettiva piaccia ad alcune persone e ne spaventi altre, il collasso di Israele è ormai prevedibile. Diventerà un tema di primo piano quando ci si renderà conto che il tentativo secolare guidato da Regno Unito e Stati Uniti di imporre uno stato ebraico in un paese arabo sta arrivando al capolinea. È riuscito a creare una società di milioni di coloni, molti di seconda o terza generazione, ma la loro presenza dipende ancora, come quando arrivarono i primi, dalla capacità di imporsi con la violenza a milioni di persone del posto, che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella propria terra. Nei prossimi decenni i coloni dovranno separarsi da questo approccio e dimostrare la loro volontà di vivere come cittadini alla pari in una Palestina liberata e decolonizzata.”

Alle origini di Israele

di Sergio Sinigaglia

L’articolo di Roberto Della Seta (**) su Israele e «l’autobiografia di una nazione», individua sicuramente alcuni punti fondamentali e il riferimento alla nota analisi di Gobetti è certamente opportuna.

Però non ritengo che il problema dell’involuzione della presunta democrazia israeliana risalga al 1967, come pensa Della Seta che ritiene si possa lasciare “da parte la storia complessa e per molti aspetti contraddittoria del primo sionismo, la cui ambizione di creare in Palestina un «focolare nazionale ebraico» recava certo un’impronta colonialista, ma rispondeva anche all’urgenza di liberare gli ebrei europei da secoli di persecuzioni destinate poi a esplodere nella Shoah e invece si possa sorvolare sul periodo precedente, ancora prima della fondazione dello stato nel 1948”.

Viceversa credo che il “peccato originale” risieda proprio agli albori della nascita del sionismo. Autorevoli storici non allineati con la narrazione mainstream, hanno evidenziato aspetti centrali di tutta la secolare vicenda. Per tutti cito Shlomo Sand «L’invenzione del popolo ebraico» e il più recente contributo di Jean-Pierre Filiu «Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto».

Il primo smonta in modo circostanziato tutta la narrazione biblica che, come è noto, fa da base all’ideologia sionista. In particolare mette in discussione anche la cosiddetta cultura laica dei padri della patria, ricordando come negli anni successivi alla nascita di Israele, era abitudine per il gruppo dirigente guidato da Ben Gurion riunirsi nella casa di questi, leggere e commentare passi biblici. Possiamo ben dire, dato che – come è noto – lo Stato israeliano non ha una vera e propria Costituzione, che sia la Bibbia la sua carta fondante.

Filiu si sofferma, tra i vari aspetti, sulla funzione centrale che parte del mondo cattolico ebbe nel promuovere il progetto del ritorno nella “terra degli avi”.

Nel 1844 il reverendo George Bush (docente di ebraico all’Università di New York, cugino del trisavolo di George H. Bush presidente degli Stati Uniti dal 1989 al 1993, a sua volta padre di Geeorge W. Bush, alla Casa Bianca dal 2001 al 2009) pubblica un’opera intitolata “La Valle della Visione, o le ossa aride di Israele rivivificate”.

Il reverendo vedeva segni divini nell’emancipazione degli ebrei da parte di «vari governi cristiani» e nella loro «elevazione tra le nazioni di onorevole reputazione». Dunque agli ebrei era assegnato il compito di una missione da cui dipendeva «la salvezza».

Altro polo di questo processo è il protestantesimo britannico attraversato allora da un revivalismo religioso che fece da base all’evangelismo. Per questo movimento sviluppatasi in maniera esponenziale fino ad oggi, vedi il ruolo che avuto nella scalata al potere di Trump, c’era la credenza nella “Seconda venuta” di Gesù a Gerusalemme, per cui gli ebrei sarebbero stati i restauratori nella Terra d’Israele del “Regno dei cieli”.

Del resto il noto slogan, menzognero quanto suggestivo del movimento sionista sin dalla sua fondazione, «Un popolo senza terra, per una terra senza popolo», tra origine da quello proposto da Anthony Ashley Cooper parlamentare conservatore inglese dal 1826, meglio conosciuto come Lord Shaftesbury che nel 1854 scrisse: «C’è un Paese senza nazione. E ora Dio, nella sua saggezza e nella Sua misericordia, ci indirizza verso una nazione senza Paese».

Ecco queste sono le radici del movimento sionista, che certamente ha espresso correnti di pensiero politico diversi, ma che sin dalle sue origini fu impregnato di una perversa ideologia religiosa, che il Bund, L’Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituania, Polonia e Russia, fondato a Vilnius il 7 ottobre del 1897 due mesi dopo il congresso a Basilea che vide nascere il movimento sionista, provò a contrastare, ma implodendo perché come è noto lacerato dal dilemma identità di classe o identità nazionale.

Per quanto riguarda la persecuzione, indubbiamente i pogrom che si scatenarono in Russia dal 1881 dopo l’uccisione di Alessandro II per mano del movimento rivoluzionario «Volontà del popolo» e anche in seguito all’affare Dreyfus in Francia, Sand evidenzia come circa il 2% scelse di emigrare in Palestina, mentre la stragrande maggioranza optò per gli Usa e altri Paesi. Poi certamente la dichiarazione Balfour del 1917 provocò un flusso migratorio che comunque rimase nell’ordine di alcune migliaia, per crescere gradualmente negli anni successivi soprattutto dopo l’avvento del nazismo.

In ogni caso fu questo flusso, che come afferma lo stesso Della Seta, sin dall’inizio ebbe caratteristiche di stampo colonialista, ad innescare un aspro conflitto con la popolazione locale, vista sempre come una entità inferiore e infida. Una percezione che stava alla base anche di quei padri fondatori che nel 1948 fondarono il nuovo Stato.

Il mio caro zio Giacomo Foà, emigrato in Palestina dopo le leggi fasciste del ’38, il quale nel 1947 fondò da buon socialista quale era. ad Haogen, vicino a Natania, uno dei primi kibbutz, nelle nostre accese discussioni amava ripetere «degli arabi non ci si può fidare». E lui apparteneva a quella generazione di sionisti socialisti e comunisti che per molti anni furono la spina dorsale di Israele e parteciparono alle manifestazioni per la pace degli anni Ottanta, dopo l’invasione del Libano.

Dunque per concludere ciò che accade oggi, il genocidio in atto, trae origine da questa lunga storia che in estrema sintesi ho cercato di ricordare evidenziandone alcuni aspetti salienti.

L’autobiografia della nazione efficacemente evocata da Della Seta, è l’autobiografia della varie generazioni che più di un secolo fa si insediarono in quella terra, dando vita ad una lunga e drammatica striscia di sangue. Poi molto ci sarebbe da dire sui tragici errori della resistenza palestinese, ma questo è un altro discorso. In parte…

(**) sul quotdiano “il manifesto”

 

Lo Slai Cobas per il sindacato di classe-Ravenna raccoglie l’appello dei sindacati palestinesi di Gaza. «Questo messaggio giunto nel mezzo della fame e dell’assedio, da sotto le macerie delle fabbriche e delle case e dal cuore di una guerra di sterminio che va avanti da quasi 22 mesi, accompagnata da una politica sistematica di fame di massa attuata da Israele con il diretto sostegno degli Stati Uniti e dei suoi partner europei.
Oggi ci rivolgiamo di nuovo a voi, non solo come vittime, ma come lavoratori della Palestina: parte integrante delle classi popolari e lavoratrici di questo mondo, in lotta per la giustizia, la liberazione e la dignità. E vi chiediamo di:
Spezzare il silenzio e la complicità, far sentire la vostra voce all’interno dei vostri sindacati e federazioni, e denunciare le politiche di fame, assedio e massacro a Gaza.
Fare pressione sui vostri governi affinché cessino gli accordi sulle armi e la cooperazione militare con l’occupazione, e impongano sanzioni al regime sionista coloniale di apartheid.
Boicottare le aziende che sostengono l’occupazione, e ritirare gli investimenti sindacali da qualsiasi impresa, istituzione o ente che finanzi o tragga profitto dalla guerra.
Organizzare giornate di rabbia e solidarietà globale nelle fabbriche e officine, nei porti e negli aeroporti, nelle strade e nelle piazze pubbliche, in sostegno della Palestina e del suo coraggioso popolo.
Ci rivolgiamo in particolare ai sindacati dei marittimi e dei portuali, esortandoli a rifiutarsi di caricare o scaricare navi “israeliane” o dirette verso porti sionisti, e a fermare ogni forma di cooperazione marittima o commerciale con gli strumenti di guerra e assedio. Le vostre mani forti e le vostre coscienze risvegliate sono capaci di fermare la macchina dello sterminio e bloccare le spedizioni di morte dirette in Palestina. Mostrate all’umanità intera la forza della classe lavoratrice in lotta, quando si unisce in difesa della giustizia e dei valori umani»

Facciamo nostro questo appello e invitiamo i sindacati confederali Filt-CGIL/Fit-Cisl/Uiltrasporti, che, con il loro comunicato, esprimono “totale contrarietà al transito di armamenti nel Porto di Ravenna e NO alla sperimentazione di sistemi di sicurezza con possibili utilizzi militari” a fare altrettanto.

Dobbiamo fare di più e mobilitare i lavoratori contro il genocidio di Israele, sostenuto dai governi imperialisti, in primis gli USA e con la complicità del governo Italiano. Dobbiamo arrivare allo SCIOPERO GENERALE con fermate, assemblee, blocchi nei luoghi di lavoro.
Lo Slai Cobas per il sindacato di classe-Ravenna dopo il presidio davanti l’Autorità Portuale di Ravenna del 9 agosto per la rottura immediata dei rapporti commerciali tra l’Autorità Portuale e gli israeliani dei droni Rafael coinvolti nel genocidio a Gaza, continua la mobilitazione verso la manifestazione del 16 settembre.
Lo Slai Cobas sottoscrive l’esposto della giornalista Linda Maggiori e dell’avvocato Maestri contro l’illegale invio di armi (senza autorizzazione) attraverso la nave Zim New Zealand il 30 giugno scorso transitate dal Porto di Ravenna verso Israele, violando la Legge 185/90 che vieta l’export e il transito di armi verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i diritti umani che dimostra la complicità del governo italiano in questa vicenda per cui  il ministro dei Trasporti può ben meritarsi il premio Israele-Italia 2025 mentre a Gaza Israele sta perpetuando un genocidio nei confronti del popolo palestinese.

STOP ARMI DAL PORTO DI RAVENNA A ISRAELE
STOP ACCORDI CON L’AZIENDA DI STATO SIONISTA RAFAEL (progetto UNDERSEC)

SI’ ALLO SCIOPERO PER LA PALESTINA
SI’ ALLA CHIAMATA DEI SINDACATI DI GAZA
VERSO LO SCIOPERO GENERALE

ORA PIU’ CHE MAI CON LA RESISTENZA PALESTINESE
STOP GENOCIDIO/DEPORTAZIONE/NEGAZIONE DI AIUTI ALIMENTARI
CONTRO L’IMPERIALISMO CHE ARMA LA MANO DEI SIONISTI ISRAELIANI
CONTRO IL GOVERNO MELONI COMPLICE
PALESTINA AI PALESTINESI

Slai Cobas per il sindacato di classe-Ravenna

 Portuali di Genova di Perla Sardella: in “bottega cf Portuali di Genova: un documentario

 

Palestina: peggio di quanto si possa immaginare. Ascoltiamo la testimonianza del berretto verde Thony Aguilar

di Francesco Cappello

Anthony Aguilar, un berretto verde, tenente colonnello in pensione dell’esercito statunitense, descrive le sue esperienze a Gaza come appaltatore per la Gaza Humanitarian Foundation (GHF). Aguilar sostiene che la GHF, contrariamente alla sua missione dichiarata, sta facilitando pulizia etnica e genocidio, collaborando con le Forze di Difesa Israeliane (IDF). Egli dettaglia come la distribuzione degli aiuti sia insufficiente, priva di beni essenziali come l’acqua, e come i siti di distribuzione siano utilizzati per concentrare la popolazione palestinese in un’area ristretta, che descrive come un campo di sterminio. Aguilar critica inoltre la restrizione dei media imparziali e la disumanizzazione dei palestinesi da parte dell’IDF e della GHF, secondo cui tutti i palestinesi siano Hamas, inclusi donne e bambini. Egli esorta la comunità internazionale a condannare con forza la carestia e lo sfollamento, e a ripristinare il ruolo delle Nazioni Unite nella distribuzione degli aiutiper prevenire l’uccisione e la deportazione di massa del popolo palestinese. «Se non agiamo come mondo, come comunità internazionale, la Palestina e i Palestinesi cesseranno di esistere, siamo sull’orlo di un genocidio che il mondo sta guardando».

«La mia paura è che entro metà-fine settembre io e altri diremo “Ve l’avevo detto, ve l’avevo detto” e sarà troppo tardi perché non rimarranno Palestinesi». Thony è stato ammanettato durante un’udienza della Commissione Esteri del Senato USA.

https://www.francescocappello.com/2025/09/09/palestina-peggio-di-quanto-si-possa-immaginare-ascoltiamo-la-testimonianza-del-berretto-verde-thony-aguilar/

Israele colpisce il tavolo della pace: i negoziatori assassinati, il diritto internazionale umiliato

di Mario Sommella

 

C’è un momento in cui l’orrore oltrepassa la soglia dell’assuefazione. Un punto di non ritorno in cui il crimine smette di essere solo un fatto e diventa metodo di governo, forma di dominio e dichiarazione di impunità.

L’attacco sferrato da Israele contro un’abitazione a Doha, capitale del Qatar, uccidendo due mediatori di Hamas coinvolti nel negoziato per la liberazione degli ostaggi e per il cessate il fuoco a Gaza, rappresenta esattamente questo: un atto di terrorismo di Stato, come denunciato dallo stesso governo qatariota, ma anche qualcosa di più profondo e spaventoso. Una sfida cinica e arrogante all’intero diritto internazionale, ai governi del mondo, alle organizzazioni multilaterali e alle coscienze collettive.

L’attacco a Doha: l’assassinio della diplomazia

Secondo Al Jazeera, l’attacco ha avuto luogo nella notte tra il 6 e il 7 settembre. Un drone israeliano ha colpito un’abitazione nel distretto diplomatico della capitale qatariota, dove si trovavano due membri dell’ala politica di Hamas, impegnati in colloqui riservati con mediatori internazionali per riaprire il canale negoziale. L’edificio era noto ai servizi di intelligence occidentali, e l’incontro era stato autorizzato e garantito dal governo del Qatar.

La reazione del Ministero degli Esteri di Doha è stata durissima: “Atto di terrorismo in violazione diretta della nostra sovranità”, si legge nel comunicato ufficiale.
Fonti interne, citate da Middle East Eye, riferiscono che il Qatar sta valutando la chiusura degli uffici diplomatici israeliani e la sospensione della cooperazione con Washington sul dossier palestinese.

Eppure la reazione degli Stati Uniti è stata debole, per non dire complice. Donald Trump ha definito l’attacco “non utile alla causa comune” e ha fatto sapere di aver chiesto al consigliere Witkoff di informare il Qatar, ma “troppo tardi”. Un goffo tentativo di lavarsene le mani, che alimenta il sospetto che la Casa Bianca fosse al corrente, se non addirittura complice dell’attacco.

Il doppio standard dell’Occidente

Nel frattempo, l’Europa balbetta. Mentre si valuta il 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia, per la violazione del diritto internazionale in Ucraina, non si trova il coraggio neppure di pronunciare la parola “sanzioni” nei confronti di Israele, nonostante un crescendo di crimini documentati: bombardamenti su ospedali, uso di armi al fosforo, blocchi umanitari, e ora anche l’eliminazione fisica dei negoziatori.

Giorgia Meloni, da parte sua, ha affermato che l’Italia “rimane contraria a ogni forma di escalation”, troppo poco!
Ma chi è che aggrava la tensione? Chi viola la sovranità del Qatar, dopo aver già violato quella di Libano, Siria, Iraq e persino Iran?

In questo gioco delle retoriche malate, anche la parola “proporzionalità” viene svuotata di senso. Come si può parlare di risposta sproporzionata, quando Israele colpisce ospedali, giornalisti, bambini, e persino minaccia volontari umanitari diretti a Gaza?

Il caso della Flottiglia Global Sumud: coraggio sotto minaccia

In contemporanea all’attacco in Qatar, un drone israeliano ha sorvolato una barca civile ancorata al largo della Tunisia, nella rada di Sfax, sganciando un razzo incendiario che ha provocato un incendio all’imbarcazione. A bordo si trovava il comitato direttivo della Global Sumud Flotilla, composto da parlamentari europei, volontari, operatori sanitari e membri della missione umanitaria diretta a Gaza.

Non si registrano vittime, ma il sorvolo con il lancio del razzo incendiario, è stato denunciato da Greta Thunberg stessa, presente sulla nave, come un atto intimidatorio mirato a scoraggiare la partenza della missione.
Tra le prime a correre al porto, Francesca Albanese, relatrice speciale ONU, che da Tunisi ha seguito tutta la preparazione della Flottiglia:

Mi hanno chiamata nel cuore della notte, ho passato ore d’insonnia. Ma su quella nave ci sono esperti, non sprovveduti”.

La sua testimonianza aggiunge un tassello inquietante:

L’organizzazione è molto più complessa del solito, ci sono tante imbarcazioni e il rischio che qualcosa sfugga di mano è reale. Ci sono anche barche che non fanno parte della rete ufficiale della Flottilla e il pericolo di infiltrazioni è concreto”.

Un sospetto confermato anche da un episodio recente:

Ieri a Tunisi ho incontrato un personaggio ambiguo, che ostentava appartenenze politiche e faceva interviste. Nessuno nella Flottilla lo conosceva”.

La missione umanitaria, dunque, non è solo sotto attacco militare, ma anche sotto pressione psicologica e destabilizzante. E la responsabilità, secondo Albanese, è tutta dell’Occidente:

Sono gli Stati europei che dovrebbero rompere l’assedio e portare aiuti con flotte di Stato. Invece lasciano tutto sulle spalle di cittadini comuni che non accettano il genocidio in corso”.

L’impunità che uccide: esecuzioni extragiudiziali e punizioni collettive

Ma c’è di più. L’attacco a Doha è avvenuto a poche ore dalla presunta accettazione, da parte di Hamas, del cosiddetto “piano Trump” per il cessate il fuoco. Una trappola, secondo Albanese, funzionale a colpire i negoziatori nel momento di massima apertura diplomatica.

Israele e Stati Uniti basano le loro azioni sull’uso della forza non regolato dal diritto. Questo è il progetto del Grande Israele: controllo, dominio, sottomissione e sostituzione della popolazione”.

Albanese chiarisce anche un punto cruciale di diritto internazionale:

Non è mai lecito uccidere persone non coinvolte direttamente in combattimenti. Neanche se fanno parte di un’organizzazione considerata nemica”.

E pone una domanda provocatoria e rivelatrice:

Sarebbe giusto colpire i ministri Ben-Gvir o Smotrich, che impongono crimini alla popolazione palestinese? No. Se fossero uccisi mentre non agiscono come combattenti, l’attacco sarebbe da condannare. Le esecuzioni extragiudiziali sono crimini internazionali”.

Anche l’ultima mossa del ministro israeliano Katz — la revoca dei permessi di lavoro a 750 palestinesi solo per abitare nei villaggi di due attentatori, alla fermata del bus di due giorni fa, è per Albanese una punizione collettiva illegale, che andrebbe condannata dalla comunità internazionale.

Crimini senza pudore, senza giustizia

Di fronte a tutto questo, la propaganda israeliana continua a giocare la carta dell’“antisemitismo”. Ma è ormai chiaro che i crimini commessi da Netanyahu e dai suoi alleati non hanno nulla a che vedere con la protezione del popolo ebraico. Al contrario, infangano la memoria dell’Olocausto, del Ghetto di Varsavia, della Brigata Ebraica, dei campi di sterminio.

La verità è che l’ideologia sionista radicale oggi al potere in Israele ha perso ogni contatto con l’umanità e con il diritto. Ha perso il senso del limite, della storia, della decenza.

L’Italia e la società civile: la responsabilità del silenzio

Davanti a questo abisso, l’Italia tace. Non protegge i parlamentari della Flottiglia, non prende posizione sull’attacco al Qatar, non spinge per un’indagine internazionale. L’Europa nel suo complesso si è ridotta a comitato d’affari prono alle lobby israeliane e alle linee di politica estera dettate da Tel Aviv e Washington.

Intanto al festival del cinema di Venezia, una bambina — Hind Rajab, simbolo dell’orrore vissuto dai civili palestinesi — ha commosso una platea con “The Voice of Hind”, premiato col Leone d’Argento.
Ma quel cinema che riesce ancora a raccontare verità indicibili è lontano anni luce dalla politica italiana, cieca, complice, inetta.

Non è troppo tardi

Di fronte a una guerra che ha già assunto i contorni di un genocidio, il silenzio è complicità. La moderazione è vigliaccheria. E il diritto internazionale, se non è difeso, muore nella prassi.

Tutti possiamo fare qualcosa. Anche una voce, una firma, una parola scritta con coscienza può contribuire a far vacillare l’impalcatura del terrore legalizzato.
Perché chi oggi si crede intoccabile, domani — come insegna la storia — sarà giudicato.

 

Redazione
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