Verona/Dick: vivisezionando androidi dormienti

di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia

L’adrenalina e le emozioni hanno lasciato spazio alla meditazione. Torno dal convegno «Svegliatevi, dormienti! I mondi e le visioni di Philip K. Dick a 40 anni dalla scomparsa», tenutosi a Verona (*) in data 11 marzo 2022.
Cornice di prim’ordine: una bella sala al Polo Santa Marta, nell’omonima ex caserma dove, tra le altre cose, si faceva il pane per le truppe.
Fra i relatori del convegno c’era anche un certo Db (o Dibbì) con la sua aria da nonno anarchico. Il titolo del suo intervento era strampalato: «Se Dick (non annunciato) irrompe all’Università». Una narrazione talmente teatrale da lanciare la palla (fisica: era da tennis ma sono riuscito ad afferrarla meglio di Joe Di Maggio) a un noto Astrofilosofo – laureato in
Star Trek a Venezia (sì, sono io) – per una breve incursione.
Torniamo all’inizio.

Arrivo trafelatissimo (ah, i treni) al convegno moderato dal professor Angelo Botta. Iniziano le danze nientemeno che con Carlo Pagetti (**) di cui ho tutte le prefazioni sul nostro amato PKD più numerosi saggi: un intervento lungo e meditato per collocare – anzi confermare – lo scrittore fra i grandi “mainstream” e/o “avant-pop”… qualunque cosa intendiste con queste etichette. Pagetti espone Dick in un discorso letterario estremamente ampio: da Edgar Allan Poe e Nathaniel Hawthorne, a cui Dick palesemente si ispira. Pagetti tralascia – anche a lui gli orologi mordono i polpacci – il realismo francese e i romanzi realistici e popolari giapponesi, tanto cari al Dick di «Confessioni di un artista di merda», uno dei suoi primi lavori (rifiutato e pubblicato postumo).
Parlando ampiamente del Dick che mette al centro la disgregazione della realtà e dell’identità, sempre in bilico tra essere (biologico) e non essere (letterario), Pagetti torna su uno dei romanzi dickiani immeritatamente meno noti, quell’«Occhio nel cielo» perfetto nelle radici pop-olari e nella costruzione. Tocca poi a «La penultima verità»: cosa accadrebbe all’umanità se, causa guerra, vivesse nel sottosuolo e fosse informata (per modo di dire) della realtà in superficie solo da cinegiornali? Terribilmente attuale come solo la buona fantascienza sa essere.

Pagetti lascia la palla – metaforica stavolta – a un bel gruppo di relatori e relatrici che non delude e a tratti entusiasma.
Serena Demichelis ci piomba nella biografia su Dick «Io sono vivo e voi siete morti» inventata dal sapiente quanto gigione Emmanuel Carrere, mettendo in luce quanto sia difficile ri-costruire una vita senza finire (o volendo finire?) in una delle innumerevoli realtà in cui si disgrega l’universo dickiano. Un bell’esempio è quando Dick ricorda un “banale” incidente domestico. Il nostro si sente male, cerca di aggrapparsi al tavolo del suo studio ma non riesce, tenta di accendere la luce tirando una cordicella, chiama aiuto ma nessuno lo sente. Alla fine si riprende. Ma a casa sua non ha interruttori a cordicella, sua moglie era nell’altra stanza e lui non era nel suo studio. In quale (ir)realtà si era spostato?
La dottoressa Beatrice Melodia Festa (nessuna parentela con l’Astrofilosofo qui presente) porta un paragone assai interessante fra Dick e lo scrittore Jonathan Lethem di cui consiglio anch’io la lettura. Molti aspetti lo accomunano a Dick; non è un imitatore, semmai un continuatore che trova una sua originalissima (eppur dickiana) voce.
Eccellente l’analisi comparativa della dottoressa Valentina Romanzi fra «Ubik» e il racconto «Pane non autorizzato» di Cory Doctorow (***): dalla sapiente e amara satira dickiana dove tutto è merce si passa alla coraggiosa e feroce critica di Doctorow con i servizi smaterializzati, gli hacker sapienti, le major ormai intoccabili e la dittatura del «sì logo». Un giorno Apple e Amazon sogneranno pecore ribelli?
La dottoressa Chiara Battisti introduce alla tematica del post umano, con esempi della narrativa e cinematografia dickiana. Cos’è l’umano, cosa non è? All’eterna e irrisolta domanda si affianca la disgregazione stessa del senso di porla. L’umano si riforma (nel doppio significato) in post umano: la macchina stessa diventa senziente e umana. Gli impianti diventeranno – o sono già? – tutt’uno con la persona, come PKD anticipò in «Le tre stimmate di Palmer Eldrich».
Dopo le dotte e utili analisi della mattina (****) nel pomeriggio si scende (o si sale? chissà) sul divulgativo. Apre le danze Dibbì, che sveglia i dormienti (se c’erano) sceneggiando e commentando – pedagogia selvaggia inclusa – alcuni racconti dickiani mentre il sottoscritto, abusivamente raccogliendo la palla (pallina) tiratagli accenna a un racconto poco noto «Spero di arrivar presto».
A seguire Domenico Gallo in un intervento da fuoriclasse rivendica la radice popolare della narrativa dickiana: lì risiede la forza creativa e restano le infinite potenzialità di un genere; egli stesso ne criticava severamente alcune limitazioni – l’incapacità di approfondire i sentimenti, la psicologia e i rapporti interpersonali – ma seppe poi indagare da maestro le relazioni non solo sociali fra persone, intelligenze artificiali e “illuminazioni”. Gallo ricorda come PKD abbia collegato l’artificiale e gli strumenti di potere ben noti, compresa la religione, mistificatrice e fasulla.
Il critico e giornalista cinematografico Gabriele Ferrari, in un frizzante intervento, ci fa capire come mai i romanzi di Dick siano tanto odiati (o travisati) ad Hollywood: mancano fra l’altro di una trama ripartibile nei tre atti di Aristotele e di personaggi eroici cioè gli elementi fondamentali perchè a Hollywood si goda. Si da il caso poi che i libri vadano letti e questo non succede quasi mai nel preparare la versione filmica: «Blade Runner» fu un caso fortunato, dove gli sceneggiatori mantennero gli aspetti fondamentali (quasi tutti) del romanzo e il regista seppe trasporli bene – qualcuno dice benissimo – a livello visivo. Ferrari propone di abbandonare i maldestri tentativi di adattare Dick per pescare invece nell’enorme calderone di idee espresse in romanzi e racconti, creando qualcosa. Una strada intrapresa con il film «Looper», scritto e diretto da Rian Johnson.
La giornata si conclude con «Phil K. – Una vita da Philip Dick», la graphic novel biografica disegnata da Mauro Marchesi e scritta dal francese Laurent Queyssi: convince e restituisce uno spaccato veritiero, senza nascondere le ombre di una vita travagliata, comprese le furibonde liti con le 5 mogli (e le molte fidanzate) o le ossessioni paranoiche dello scrittore. Un ritratto tenero e impietoso, in una cornice surrealista e mai banale. Anche il fumetto, in questi ultimi anni in Italia, finalmente ha un pieno riconoscimento dalla cultura ufficiale con l’inesorabile passaggio dalla vendita in edicola a quella in libreria, dove le graphic novel e i manga la fanno da padrone (in volumi cartonati e costosi). Bene? Sì e no. Una volta fumetto era sinonimo di letteratura popolare, ovvero a poco prezzo, e di massa ma oggi il costo è alle stelle e questo allontana molte persone. Un semplice cambiamento dei tempi o una piccola apocalisse? Forse tutt’e due ma è un discorso da riprendere con calma in altra sede magari chiamando in causa non il Daniele Barbieri (alias Dibbì) ma il suo più serio omonimo, semiologo, professore all’università e soprattutto super-fumettofilo. Forse Dick aveva previsto la fine del “popolare” e scelse di avere un infarto prima che il personal computer colonizzasse gli umani: un nuovo universo che probabilmente non andrà a pezzi dopo due giorni.

Uscendo dall’Extra Sci Fi Festival, mi rimane la piacevole sensazione di essere ancora dentro PKD e idee meno rassicuranti tipo che Dio mi inganni e che Verona non esista ma anche la stramba allucinazione che ogni giorno tg e social costruiscano un mondo fasullo… e questo o-v-v-i-a-m-e-n-t-e non è possibile.

(*) cfr Dick, Dick, sempre Dick

(**) Mentre scrivo scopro che è arrivato in libreria un agile saggio di Pagetti: «Il mondo secondo Philip K. Dick» è edito da Oscar Mondadori, 396 pagine per la modica (?) cifra di 15 euro. La quarta di copertina recita: «Pagetti dipinge Dick nientemeno che come lo Shakespeare della fantascienza, anche se ammette che lo stesso Phil in persona avrebbe assai deplorato qualsivoglia accostamento, soprattutto per quanto riguarda la sua fantascienza. In modo chiaro ed esaustivo, Pagetti fa emergere proprio come lo “Shakespeare della fantascienza” abbia saputo costruire, libro dopo libro, un convincente discorso estetico che non riguarda solo la narrativa fantascientifica, ma l’arte del romanzo nell’epoca della postmodernità». Ne riparleremo in “bottega”.

(***) Di questo racconto si è scritto più volte in “bottega”: a esempio qui Cory Doctorow: «Radicalized» e qui Ancora su «Radicalized» di Doctorow

(****) Il nodo è irrisolto: db in coppia con Riccardo Mancini più volte si arrabbiò perchè quando iniziò la “glorificazione” di PKD molti fra quelli che lodavano la sua capacità di costruire mondi complessi in narrazioni semplici, comprensibili, popolari erano invece inutilmente complicati.

Nell’immagine: un’intensa vignetta di Mauro Marchesi tratta dalla graphic novel «Phil K. – Una vita da Philip Dick» edita da MagicPress.

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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