Bond …bond dei miei sogni

di Giorgio Monestarolo

Sembra, a captare il rumore di fondo che ci assedia, che il vertice di oggi sia quello veramente decisivo (mentre i ventiquattro che lo hanno preceduto erano solo decisivi e basta).

Per stabilire successo o insuccesso del vertice i “mercati” via media (che sono poi spesso la stessa cosa) vogliono bonds. Come amava dire la nostrana Marcegaglia, soldi veri presi a prestito e garantiti da tutti noi. Naturalmente eurobonds che la Germania, con la sua forza economica, renderebbe appetibili per tutti (loro).

Dunque o bonds o muerte, ecco il grido degli ultimi rivoluzionari del’ 900 cioè gli agenti finanziari dei gruppi di investimento, delle banche, delle assicurazioni.

Così stando ai commentatori o ai titoli, per cominciare basterebbero i bonds a salvare l’euro, a far sparire la fatina cattiva rappresentata dalla Merkel e a riportare la famigerata crescita nelle valli desolate di eurolandia del sud, del centro, e di qualche nord.

Quando il coro di lupi grida che il prossimo è l’ultimo boccone mi sorge qualche dubbio; a voi no ?

I sogni per essere belli devono essere piacevoli altrimenti sono incubi. La realtà è che nessun bond ci può salvare per il semplice motivo che quando una istituzione come la Ue entra in crisi – e questa è una crisi che non riguarda la facciata dell’edificio ma le sue, ahinoi, fragili fondamenta – non ci sono soluzioni né rapide, né tecniche, né facili che tengano.

Si leggono continue ricette in giro come se un’unione di circa 300 milioni di persone – divisa in Stati, regioni autonome, città Stato e così via – sia un corpo malato che possa guarire con un mix di pasticche.

Il livello di imbarbarimento della ragione determinato dal rincoglionimento al suono della sigla del tg, delle news e dell’esperto ha raggiunto livelli parossistici. Il punto molto semplice, evidente a tutti, è che la crisi è iniziata nel 2008, si è trasferita in Europa nel 2010, continua nel 2012 e non si vede il ben che minimo spiraglio di uscita.

Capire i tempi della crisi è il minimo che si possa fare per non sragionare e magari prepararci a costruire oggi quello che sarà il nostro domani.

Questo è il punto essenziale, che non è economico: non è una semplice risposta meccanica come la intendono i tecnici dell’economia (non i veri economisti che dovrebbero essere come diceva il vecchio Marx i critici dell’economia politica) ma è una questione di prospettiva, di progetto, di scelta lunga.

La fiducia dei “mercati” è una grandissima sciocchezza. La fiducia che oggi chi prende le decisioni dovrebbe ricercare è la fiducia dei propri concittadini. E questa fiducia vacilla per molti buoni motivi.

Un esempio terra terra, ma molto importante. E’ chiaro che per rilanciare l’economia europea bisognerebbe rilanciare l’industria dell’auto. Cioè permettere a tutti o quasi di rinnovare il parco auto. Onestamente chi crede che il futuro sia vendere più auto magari ecologiche? E’ vero che automobili elettriche renderebbero l’aria meno pesante, ma è l’industria dell’auto stessa che non è più compatibile, perché consuma troppo acciaio, troppe gomme, perché ha bisogno di suolo, strade, perché condiziona insomma la stessa costruzione o riqualificazione delle nostre città.

Certamente il bisogno di mobilità rimane, ma nessuno persona ragionevole ritiene che questo bisogno sia oggi soddisfabile con la formula di un’auto di proprietà a testa per tutti. Questo schema è morto e bisognerebbe sostituirlo. Con cosa ?

Qui torniamo all’idea di futuro, che è quella su cui ci si sta scontrando malgrado nessuno ne parli sotto l’arrembante carica della shock economy.

Questa idea di futuro è il terreno privilegiato della politica. Oggi mentre si finge di rincorrere giorno per giorno lo spread, si gioca una grande partita politica su quale futuro ci attende.

Il voto sulla legge “massacro del lavoro” di Fornero e Monti è un tipico esempio di quello che sto sostenendo. Eliminare i diritti acquisiti, mandare sul lastrico le famiglie di esodati, fottersene della vecchiaia senza pensione di milioni di precari, è proprio quel modo di pregiudicare il futuro che è in gioco in questi anni di crisi.

La costruzione europea è iniziata sessant’anni fa e la sua crisi non la si risolve in pochi mesi e neppure in pochi anni. La crisi del capitalismo mondiale esplosa nel 2008 chiude un ciclo di depressione (per le grandi masse dei lavoratori occidentali) che è cominciato alla metà degli anni ’70. Dall’accelerazione in corso del peggioramento delle condizioni di vita, non si esce nel giro di pochi mesi o anni. Neanche Gesù riuscirebbe a far crescere il Pil italiano di 8 o 9 punti l’anno come avvenne fra il 1956-1958.

Nel frattempo però i piccoli mattoni che si pongono ogni giorno stanno costruendo il muro. Quali sono i muri che vogliono ingabbiare il nostro futuro ?

Per rispondere propongo un esempio molto semplice. Immaginiamo che si possa discutere con Merkel (ma anche con il suo omologo Spd), con Obama, con Monti (e dietro i “responsabili”, cioè i partiti filo capitalisti, quelli insomma che vogliono salvare l’Italia perché dicono sempre sì a chi comanda). Facciamo loro una domanda che esiga una risposta chiara: «a chi vendiamo le auto, in futuro?».

Merkel: «Noi non abbiamo problemi, le vendiamo già adesso, mica come Renault o Fiat. Le vendiamo per ricchi e per poveri. Più per i primi, a dire il vero. Le vendiamo in tutto il mondo. Puntiamo sui ricchi cinesi, indiani, sul ceto medio del nord Europa e sui ricchi del sud Europa. Siamo i vincenti della globalizzazione. Fate come noi se ci riuscite».

Obama: «Marchionne è venuto a Detroit, ha ridotto salari e diritti agli operai. Ha licenziato. Ha fatto nuovi modelli. Io ho inondato di soldi le banche e le società che hanno truffato i cittadini con i derivati. Il sistema sta ripartendo. Se la Merkel ci dà una mano, riprendiamo a stampare soldi, a vendere un po’ di auto che i nostri operai comperano indebitandosi, e tutto ricomincia da dove ci eravamo lasciati».

Monti: «Come vendere le auto non è un problema del governo, è un problema delle imprese. Se le vende bene, se non le vende il mercato si autoregola e trova da solo la soluzione. Noi abbiamo solo il compito di tenere i conti a posto. Di creare lo spazio per gli investimenti di capitale».

Le risposte sono un po’ brutali, i nostri amici sono più diplomatici, ma il succo del discorso è proprio questo. Obama intende rilanciare la bolla speculativa, cioè l’economia del debito che ha retto gli Usa nell’era Reagan-Bush-Clinton. La Merkel (o la Spd) ha in mente di approfittare dell’occasione per posizionare la Germania sul piedistallo dei vincitori della globalizzazione. Monti non ha in mente niente, se non accodarsi al più forte fra i due e ha molta difficoltà a scegliere fra la Merkel (cosa che farebbe volentieri) oppure Obama (cosa che fa perché è la ciambella di salvataggio per il sistema finanziario globale).

Nessuno dei tre ovviamente afferma che auto e futuro sono un binomio assai critico, una coppia che fa a cazzotti. E qui auto sta, globalmente, per il “nostro modello di sviluppo”.

Dietro Obama, Merkel, Monti ci stanno destra e “sinistra”, ci sta il pensiero unico, che non ha problemi di coerenza alcuna e che quindi urla più forte che mai, malgrado la sua utopia liberista si sia trasformata in un casino mondiale altamente esplosivo.

La sfilata dei mostri in passerella, mostri di idee e mostri di persone, permette di ricavare qualche accorgimento.

Primo: nel vertice che inizia oggi non succederà un bel niente.

Secondo: la crisi complessiva si svolgerà per molto tempo, in piccole battaglie di tutti i giorni. Quando ne saremo usciti, i brillanti teorici della sinistra (tipo i Veltroni vari che volevano “globalizzare i diritti”) non se ne saranno accorti esattamente come non si sono resi conto che il new labour, che lo zapaterismo, ecc. erano soltanto vasellina per far marciare meglio il treno del capitalismo. Soltanto che il capitalismo tedesco è una locomotiva mentre quello spagnolo e italiano è una carriola; quello statunitense è un vecchio pugile suonato.

Terzo: una politica che restituisca fiducia ai cittadini è quella capace di rispondere alla domanda: «a chi vendiamo le auto in futuro?» facendo i conti con la questione della diseguaglianza sociale e della catastrofe ambientale, pensando che la mobilità possa realizzarsi anche senz’auto o quasi, che insomma si possa essere prosperi senza essere “sviluppisti”.

La via della riconversione ecologica è il mattone per costruire la casa del nostro futuro. Deve però essere gettato giorno per giorno, deve trovare una dimensione internazionale e popolare, deve trovare un radicamento culturale e ideologico. Deve diventare il nuovo movimento politico come il socialismo lo fu all’inizio dell’Ottocento.

Con i “deve” purtroppo non si fa politica. Allora la riconversione ecologica, che adesso sta nel cielo delle idee, troverà la sua strada soltanto nel fiume in piena, si incarnerà nella lotta dei popoli delle periferie europee. Altro che bond…

Redazione
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