«Le non cose» di Han Byung-chul

Riflessioni di Clelia Farris

Il titolo è subito spiegato: non-cose sono gli oggetti digitali, materiali e immateriali. Lo smartphone è una non-cosa; Alexa è una non-cosa; l’ebook è una non-cosa. Ma anche le informazioni che troviamo sul web, non importa se vere o false, sono non-cose.

L’industria ha promosso la serialità e la facilità di accesso alle cose – dagli indumenti ai libri – riducendo il campo dell’artigianato, e ora la società post-moderna ha relegato le cose, gli oggetti, sullo sfondo del nostro orizzonte di vita. La pervasività delle infosfere ha reso infine noiosi e superflui gli oggetti stessi. O meglio, l’unico oggetto importante è diventato lo smartphone, il tramite fra noi e il mondo immateriale del web. La produzione si è spostata dagli oggetti materiali alle informazioni. Le informazioni, dice l’autore, creano una società post-fattuale che pialla la differenza tra vero e falso. E il capitalismo delle informazioni riesce a trasformare in merce perfino l’immateriale.

Nel momento in cui le cose sono compenetrate dalle informazioni diventano infomi, cioè agenti di elaborazione delle informazioni. L’automobile del futuro, per esempio, non sarà più legata a fantasie di potere e successo ma sarà un semplice “infoma” che comunica con noi.

In passato – forse non più di trent’anni fa, aggiungo io – la relazione con le cose era intensa. Gli oggetti ci appartenevano e ci si opponevano. Oggetto viene da obicere, contrapporre, obiettare. L’oggetto è qualcosa che fa resistenza, è una cosa completamente altra da noi che ci spiazza e ci si oppone. È fatta da noi, deriva dal nostro pensiero progettuale, ma è Altro. Le cose mediano il nostro rapporto con l’alterità, con la diversità. Sono affidabili, concrete, presenti; formano il mondo umano, offrono “appiglio” per dirla con Heidegger. O peso, se vogliamo citare Inception.

Tuttavia, il nostro rapporto attuale con le cose è cambiato. L’uomo moderno, dice l’autore, vive senza crucci; risolve i problemi sfiorando lo schermo del suo smartphone; preferisce il gioco al lavoro e l’esperienza al possesso. Non si sottomette più alla morale delle cose fondata sul lavoro e sulla proprietà. Le cose si affittano o si usano, senza doverle necessariamente possedere. Solo una relazione intensa con le cose le rende proprietà di qualcuno. Secondo Walter Benjamin «il possesso è il rapporto più profondo che si possa avere con le cose».

A questo punto Han Byung-chul esalta la figura del collezionista, colui che toglie le cose dal loro carattere di merce e le eleva a punti fermi del mondo umano.

Il riferimento al collezionismo mi ha richiamato subito alla mente Philip K. Dick. In La svastica sul sole due dei personaggi principali sono un venditore di oggetti antichi e un collezionista giapponese. In Scorrete lacrime, disse il poliziotto i due gemelli Buckman e Alys possiedono scacchiere medievali, antiche tazze di porcellana e i primi francobolli emessi dagli Stati Uniti.

Nelle storie di Dick i protagonisti sono spesso catapultati in una realtà traballante, minacciosa, nella quale la loro stessa identità è messa in dubbio; le uniche certezze, le uniche fondamenta, diventano allora le cose del passato. Solo attraverso il possesso di questi oggetti il mondo si ricostituisce in un tutto armonico ed equilibrato.

Con la sua sensibilità pre-cog Dick sentiva la mutazione in atto, il lento abbandono del vecchio mondo pre-digitale, e ne aveva paura. Anche il saggio di Han Byung-chul è fortemente pessimista. Come nella migliore tradizione dei filosofi paternalisti, si rammarica della trasformazione in atto e nonostante su certi argomenti abbia ragione – lo smartphone che ci isola dalla realtà, la modificazione delle relazioni umane, il controllo telematico delle identità – su molti altri aspetti non coglie e non accoglie i pregi del cambiamento.

Il piagnucolio sulla perdita di interesse per le cose e l’attenzione al gioco e alle esperienze contrasta con l’essere umano auspicato da Marcuse in Eros e civiltà. Marcuse contrappone l’uomo della fatica e del lavoro, Prometeo, a Orfeo e Narciso, figure emblematiche di un’esistenza contemplativa, dedita alla ricerca del bello e dei piaceri immateriali, piuttosto che all’accumulo di ricchezza. Forse ci stiamo arrivando, forse stiamo scoprendo che il lavoro non è più il fulcro della nostra vita – significativi i molti (auto)licenziamenti seguiti alla pandemia – e che si vive bene anche con meno cose.

L’essere umano del futuro non si identifica più con gli oggetti che possiede ma cerca una nuova relazione con il mondo e con se stesso. In modo vago stiamo tutti cercando di capire che tipo di persona vogliamo essere ora, dopo lo scossone della pandemia e l’ingresso in una realtà differente dal punto di vista climatico ed energetico.

Han Byung-chul confonde la perdita di corporeità, di contatto materiale della nostra società, con la perdita delle cose. Il vero problema della società digitale è l’assenza del corpo. La conoscenza del mondo mediata dalle non-cose si dimentica delle emozioni e le emozioni sono insite nella carne.

Braidotti in Il postumano porta avanti una filosofia monista in cui materia, mondo e umanità sono un tutt’uno, non formano coppie di opposti. In questa prospettiva ciò che alimenta il pensiero critico è l’analisi delle relazioni. La nostra relazione con le non-cose è dinamica o prevaricante? Siamo noi a usare le non-cose o sono le non-cose a dominarci?

Usare le non-cose, nel sistema teorico di Braidotti, significa ripensare gli oggetti tecnologici, diventati intimi dell’essere umano, e inglobarli nel mondo postumano.

Nell’ultimo capitolo Han Byung-chul descrive il suo rapporto erotico con un juke-box originale degli anni Cinquanta da lui acquistato a Berlino. Le forme sinuose dell’oggetto, i colori, i suoni, le luci emesse, lo inducono a comprarlo e a portarselo a casa per vivere un’intensa relazione cosale-corporea con l’oggetto.

Un colpo di fulmine e una storia d’amore che mi hanno fatto venire i brividi. Oh, Ballard, dove sei? E perché i filosofi non leggono la fantascienza?

La geremiade sullo smartphone mi ha ricordato lo sdegno degli antichi durante quel lungo momento di passaggio dalla cultura orale a quella scritta. La scrittura, quella deleteria tecnologia che distruggeva la memorizzazione dell’Iliade e dell’Odissea, avrebbe finito per far perdere all’essere umano l’essenza della sua umanità!

Han Byung-Chul ha ragione, lo smartphone non è Altro, è un nuovo organo umano, una parte del nostro corpo con cui, al pari della mano con il pollice opponibile, risolviamo i problemi quotidiani. Non per niente digitale si rifà alle dita e all’uso delle dita sullo schermo dello strumento. Ipotizzo che fra cento anni la non-cosa smartphone sarà stata inglobata nelle nostre dita e non ci sarà più bisogno neppure dell’oggetto esterno. E sono sicura che ci sarà qualcuno che rimpiangerà il buon vecchio smartphone che potevi tenere in mano, riporre in tasca o frugare all’insaputa del partner per vedere chi gli/le manda messaggi.

Dunque Le non-cose è una sintesi perfetta delle ossessioni della nostra epoca; cita Heidegger, Nietzsche, Arendt e analizza con molto acume il comportamento dell’essere umano attuale. Le parti sull’intelligenza artificiale, gli algoritmi e l’organizzazione della conoscenza aprono scenari che richiederebbero una trattazione a parte, tuttavia l’autore non coglie appieno ciò verso cui sfrecciamo rapidi: la mutazione. Anzi, guarda indietro e rimpiange l’epoca delle cose. Non è aggrappandoci a vecchi juke-boxe che ci trasformeremo nell’Uomo Nuovo, e la modificazione è intrinseca a tutto ciò che è vivo. L’essere umano non può restare fermo nella sua condizione. Siamo partiti da un pesce che camminò sulla spiaggia e siamo arrivati a un bipede cosciente che plasma il proprio mondo; in nessun momento era lecito dire: stavamo meglio prima.

Penso che la difficoltà dell’epoca attuale sia legata a un “parto difficile”. Siamo incastrati fra ciò che c’era prima – le cose, il pensiero del Novecento, il capitalismo, la proprietà – e ciò che ancora deve arrivare, il nuovo pensiero che produrrà il nuovo mondo. Le non-cose sono un falso problema, un modo sbagliato di porre il problema della transizione fra il vecchio e il nuovo mondo. Con il feticismo degli oggetti Han Byung-chul mantiene il pensiero sul limite, ci tiene sulla soglia. Dovremmo sforzarci di fare un passo e superarla.

 

Redazione
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2 commenti

  • Andrea ET Bernagozzi

    Grazie per questo commento assai interessante, apprezzo l’invito a uscire dalla dicotomia “acritico entusiasmo” vs “geremiade” per andare oltre, sperando di farlo in maniera responsabile, consapevole e condivisa.

  • Franco Ricciardiello

    Considerazioni davvero interessanti, danno da pensare. E dunque ci penserò…

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