Donne: lezioni e insurrezioni

due post (*) di Silvia Federici e di María Landi

La Palestina in Chiapas. Il racconto della partecipazione di una giornalista femminista molto impegnata nella lotta per l’affermazione dei diritti del popolo palestinese allo straordinario incontro internazionale delle Donne che Lottano convocato dalle zapatiste nel Caracol di Morelia, in Chiapas.

di María Landi

Dall’8 al 10 di marzo ho avuto il privilegio di partecipare al Primo Incontro Internazionale Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano, convocato dalle zapatiste nel Caracol “Torbellino de nuestras palabras” (Morelia, Chiapas).
In questi tre giorni, ci siamo riunite in più di 5000 donne provenienti da cinque continenti per celebrare la nostra diversità, condividere le nostre lotte, le nostre resistenze ed anche i nostri dolori e ferite, cercando di guarirli tutte insieme, dialogando tra di noi e con le donne zapatiste che ci hanno accolto.
Nel corso del mese abbiamo condiviso molte parole ed immagini su questo incontro indimenticabile, ma non è questo lo spazio per dilungarmi al riguardo. Voglio condividere in particolare la mia partecipazione avvenuta il giorno 9.
Tra le moltissime attività programmate, mi è capitato di trovarmi al tavolo con compagne messicane e spagnole degli Stati Uniti che lottano per i diritti delle migranti su entrambi i lati della terribile e temuta frontiera tra i due Paesi, ed anche sulla frontiera meridionale del Chiapas, attraverso cui passano i migranti dell’America Centrale per attraversare il territorio messicano sulla rotta verso Nord.
Il titolo del mio intervento era: “Verso un femminismo decoloniale transnazionale: lezioni dalla Palestina”. Ho cominciato ricordando che giustamente a maggio si celebrerà il 70° anniversario dall’inizio della pulizia etnica del popolo e della terra di Palestina da parte delle milizie sioniste che espulsero metà della popolazione araba (750.000 persone) e distrussero più di 500 villaggi e paesi per costruire sulle loro rovine lo Stato di Israele.
Ho ricordato che si tratta dell’occupazione coloniale più datata e più lunga dell’epoca moderna; e che ormai le ultime tre o quattro generazioni di uomini e donne palestinesi vivono senza avere conosciuto un solo giorno di libertà né di normalità:
• nello Stato d’Israele, come cittadine di seconda o terza classe, le donne sono discriminate da più di 60 leggi ed un’infinità di politiche e pratiche, per il semplice fatto di non essere ebree;
• in esilio, nei campi profughi, ammucchiate e senza diritti, costituendo la popolazione rifugiata più antica e numerosa del mondo (cinque o sei milioni di persone);
• nei territori occupati, sotto un regime di occupazione, colonizzazione ed apartheid che reprime e stermina.

Le donne vedono i loro figli, mariti, fratelli, genitori uccisi. Vengono rinchiuse in carcere, sono derubate della loro terra. Le loro coltivazioni, i loro raccolti e le loro proprietà vengono distrutti, le loro case demolite. Viene loro proibito di convivere con chi amano se hanno un documento di identità differente. A Gaza vivono sotto i bombardamenti e sono costrette ad un blocco brutale che ha provocato una gigantesca catastrofe umanitaria: senza energia elettrica, acqua potabile, né medicine né combustibile.
Ho illustrato che quella israeliana, come ogni oppressione coloniale, è razzista e sessista e di conseguenza colpisce le donne in maniera differenziata in tutti gli ambiti quotidiani. Nell’intento del piano sionista di “pulire” la terra di Palestina della sua popolazione araba nativa, le donne rappresentano una minaccia demografica, perché danno la vita, se ne prendono cura e la sostengono. Col risultato che le pratiche di Israele possono essere qualificate come ‘necropolítica’, concetto ideato dal camerunense Achille Mbembe, perché mirano ed attentano a tutte le forme di riproduzione della vita palestinese. Intendiamo riproduzione della vita in una concezione ampia che include non solo la riproduzione biologica e la forza lavoro, ma anche le relazioni sociali e culturali di ogni tipo.
Di seguito alcuni esempi di ‘necropolitica’ verbale sionista:
• “Bisogna uccidere le madri palestinesi affinché non generino piccoli serpenti” – Ayelet Shaked, Ministra della Giustizia di Israele.
• “Nel caso delle giovani, come Ahed Tamimi, dovremmo dar loro la meritata punizione nell’oscurità, senza testimoni né telecamere” – Ben Caspit, famoso giornalista.
• “L’unica maniera di fermare gli attacchi dei terroristi di Hamas è violentando le loro madri e le loro mogli” – Mordechai Kedar, accademico ed ex militare.

Foto HispanTV

In questa quotidianità di violenza strutturale e terrorismo di Stato, però, le donne palestinesi esercitano innumerevoli forme di resistenza, dalle più visibili alle più sottili, dalla resistenza attiva fino alle numerosissime forme di resistenza quotidiana ‘di bassa intensità’. Davanti ad un auditorium dove molte zapatiste sicuramente ritrovavano similitudini con la loro esperienza, la stessa che avevano presentato tramite ricostruzioni messe in scena il giorno precedente, ho raccontato come le donne palestinesi siano state sempre coinvolte nella lotta di liberazione nazionale: dai primi decenni del secolo XX resistendo all’invasione sionista, nelle rivolte del 1929 e del 1936 contro la complicità britannica nel progetto coloniale sionista. Soffrendo la Nakba del 1948 e la Naksa del 1967; partecipando perfino alla lotta armata nel 1970, e massicciamente, in maniere diverse e creative, nell’intifada del 1987 e, attualmente, nel Comitato Nazionale Palestinese del BDS. Ho sottolineato ugualmente la lotta parallela che hanno portato avanti contro la violenza di genere, per l’uguaglianza dei diritti e la riforma della legislazione che le discrimina, in particolare dall’istituzione dell’Autorità Palestinese nel 1990.
Ho condiviso, a partire dalla mia testimonianza, come queste donne mi abbiano insegnato che “esistere è resistere” in ciascuna delle attività della loro vita quotidiana, dal mandare le proprie figlie ed i propri figli a scuola passando attraverso numerosi check-point militari, o piantare e mietere olivi nella loro terra rubata, o visitare i propri cari incarcerati nelle prigioni dell’occupazione, fino a sostenere il tessuto familiare e comunitario distrutto dalla repressione israeliana, preservando l’identità culturale e trasmettendo la memoria alle nuove generazioni, soprattutto nei campi profughi, e nell’esilio.
Nella seconda parte ho spiegato che considero il femminismo, nelle sue molteplici espressioni e correnti, come una teoria politica ed un movimento sociale che non solo difende i diritti delle donne, e non lo fa in maniera isolata dal resto della società, ma cerca la giustizia sociale, di genere, razziale ed ambientale, la libertà e l’uguaglianza, la fine di ogni forma di oppressione, discriminazione e dominazione.
Un movimento che lotta contro qualunque espressione di razzismo, colonialismo, fondamentalismo, supremazia etnica, religiosa, nazionale, così come contro gli abusi, privilegi e le asimmetrie di potere. Il femminismo si oppone al militarismo e alla guerra, ed anche – almeno per molte – al capitalismo predatore e nemico della vita in tutte le sue forme, specialmente nella sua espressione più brutale che è il neoliberalismo. E per tutto ciò, ho affermato l’incompatibilità tra femminismo e sionismo, essendo questo un’ideologia razzista, un progetto coloniale e militarista.
In altre parole, ho parlato di intersezionalità come un concetto chiave per comprendere l’interrelazione e la sovrapposizione tra le distinte oppressioni di genere, di classe, etnica, religiosa, e pertanto la necessità di articolare le diverse lotte, e contemporaneamente di essere coerenti: non possiamo dirci femministe, antimilitariste o anticolonialiste, e contemporaneamente essere indifferenti a ciò che compie Israele in Palestina.
E da ultimo mi sono concentrata sulla necessità di collegare le lotte nel campo femminista e popolare, dal momento che il potere capitalista e militarista globale lo fa già molto bene e da molto tempo.
Israele è una potenza di morte non solo in Palestina: è il principale riferimento per le forze militari e di polizia di tutto il mondo. Nella guerra globale contro il “terrorismo”, Israele è il re della sicurezza, e sta “globalizzando la Palestina”, come dice Jeff Harper: esporta e vende ai nostri Paesi la tecnologia bellica che utilizza nei territori palestinesi, col francobollo “provato sul territorio”, ovvero, sui corpi dei palestinesi. Israele è anche il leader nella sicurezza e nella guerra cibernetica per la vigilanza ed il controllo delle popolazioni.

In questa fase capitalista di accumulo di spazzatura, ci sono territori densamente popolati, che migrano cercando di sopravvivere; e qui interviene la competenza israeliana per blindare le frontiere.
Ho parlato della carta che ha giocato e continua a giocare Israele aiutando i governi del mondo a vigilare e reprimere i gruppi oppressi che lottano per i loro diritti, e di come ha allenato ed armato i regimi più autoritari e criminali della storia. Non è un caso che, subito dopo la rivolta zapatista del 1994, esperti israeliani in contro-insurrezione furono inviati in Chiapas, come lo scomparso gruppo di élite GAFE (Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales) addestrato in Israele e negli Stati Uniti.
Più recentemente, forze di polizia del Chiapas hanno ricevuto addestramento in Israele che, dal 2005, vende agli USA tecnologia di vigilanza per il muro alla frontiera con il Messico.
Per questo motivo attivisti di entrambi i Paesi hanno lanciato la campagna “Per un Mondo senza Muri, dal Messico alla Palestina”, esigendo inoltre dalla multinazionale CEMEX che la sua complicità lucrosa con il Muro israeliano avesse fine.
Infine, ho invitato a dare ascolto alla richiesta delle donne e della società civile palestinese rivolta ai Paesi del mondo in modo che tutti noi aderiamo al Movimento Globale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni nei confronti di Israele (BDS). Ho spiegato che il BDS richiede che si tagli ogni tipo di collegamento con lo Stato di Israele, ponendo l’iniziativa nelle nostre mani affinché, dai differenti ambienti di partecipazione: universitari, sindacali, sportivi, culturali, imprenditoriali, istituzionali, sostenitori, etc., contribuiamo ad isolare il regime di apartheid israeliana, come successe nello stesso modo in Sudafrica.
Poco dopo terminato il nostro tavolo, ho avuto un incontro fortuito, che si è rivelato essere il migliore esempio di ciò che avevo cercato di comunicare.
Mentre mi dirigevo verso una delle sale da pranzo, una giovane con hiyab mi ha avvicinato ed, in inglese, si è complimentata per la mia maglietta, dicendomi con emozione: “Io sono palestinese.” Le ho domandato in arabo di dove fosse, mi rispose: “Di Nablus.” Quando le dissi – sempre in arabo – che mi piace Nablus, scoppiò in lacrime, mi spiegò che non avrei mai potuto farle visita: suo padre e sua madre, espulsi dalla loro città nel 1967, erano andati negli Emirati Arabi Uniti, dove è nata Tala, ed ora vivono in Ohio. La giovane cercò di entrare in Palestina alcuni anni fa, però come di consueto glielo impedirono. Ci abbracciammo con grande emozione, mi disse che era venuta con un gruppo costituito da donne dell’American Indian Movement e del Black Lives Matter. Mi raccontò che l’anno scorso aveva passato varie settimane nell’accampamento di resistenza dei Lakota a Standing Rock, mi accompagnò dove stavano le sue compagne per presentarmele.
Mentre ci facevamo una foto sorridenti, pensai che questa giovane palestinese e musulmana, senza capire la nostra lingua, era venuta in aiuto delle sue sorelle del movimento nero ed indigeno, per incontrarsi con le zapatiste. Stanno già nascendo le connessioni corrette che ci sono necessarie.
Le reti del potere globale capitalista, patriarcale e militare – delle quali avevo parlato poco prima – devono essere combattute per una politica femminista di solidarietà intersezionale, una cosa da fare ancora nel femminismo latinoamericano, ma più urgente che mai.
Ho pensato, inoltre, che quell’incontro casuale era uno dei tanti miracoli che quei giorni le zapatiste furono capaci di rendere possibili nel loro territorio ribelle, amoroso e solidale.

(*) Fonte: Desinformemonos. Traduzione: Patrizia Larese

 

Le insurrezioni delle donne

di Silvia Federici (*)

Immagini di donne con le braccia estese a racchiudere case e piazze, o a stringere i propri corpi in reciproci abbracci, o a intrecciare fili intorno a se stesse e alle città, possono evocare una società matriarcale idealizzata. Ma questo mondo femminile e comunitario, alla cui rappresentazione il pittore messicano Rodolfo Morales ha dedicato la sua opera, è meno utopica di quanto si possa immaginare[1].

Se è vero che la città è il nostro più coerente e riuscito tentativo di rimodellare lo spazio nella nostra immaginazione[2], allora il volto della città è oggi quello di una donna, perché sono le donne che di fronte a uno spazio urbano sempre più esanime e atomizzato stanno rinvigorendo la socialità urbana e la sua creatività.

Già nel 1999, riflettendo su come le città siano storicamente dipese dall’entroterra per la loro sopravvivenza, Maria Mies osservava che in tutto il Terzo mondo è cresciuta un’economia urbana di sussistenza praticata nei centri urbani e organizzata principalmente dalle donne. Essa garantisce non solo le necessità materiali della vita ma anche la coesione sociale[3]. Mies scriveva che se aggiungiamo alla produzione alimentare diretta tutte le altre varie forme di lavoro di sussistenza – la preparazione del cibo, gli scambi di alimenti, i servizi, l’aiutare gli altri, l’andare a prendere e portare l’acqua – è evidente che la sopravvivenza della maggioranza della persone in queste città dipende dal lavoro di sussistenza delle donne[4].

L’economia di sussistenza urbana descritta da Mies ha continuato a espandersi in questi anni, alimentata in gran parte dalle continue espulsioni dalla terra delle comunità rurali. Di fronte a una crisi economica permanente, nelle periferie delle mega-città sparse in tutta l’Africa, l’Asia e l’America Latina, in aree occupate con l’azione collettiva, le donne stanno creando una nuova economia politica, basata su forme cooperative di riproduzione sociale e, nel corso di questo processo, affermano il loro “diritto alla città”[5] creando nuove basi per resistere e per avanzare le proprie rivendicazioni. Grazie ai loro comedores populares, aimerenderos, ai giardini urbani e alle assemblee di quartiere (barriales), le periferie urbane che hanno portato Mike Davis a parlare di un “pianeta degli slum” si possono ri-immaginare come un pianeta di iniziative e strutture comunitarie, in cui emerge un “contro-potere” che consente ai residenti non solo di sopravvivere ma di sviluppare forme embrionali di autogoverno.

In base a queste esperienze, credo che al “punto zero della ri-produzione”[6], dove svanisce l’illusione che lo Stato e il capitale possano sostenere le nostre vite, la lotta per la sopravvivenza diventi una forza trasformatrice. Riecheggiando un argomento sostenuto dall’attivista e teorico uruguaiano Raúl Zibechiesistono oggi migliaia di quartieri, ai margini del sistema statale, dove le donne assicurano la continuità della vita quotidiana. In essi si istituiscono nuove relazioni sociali, che procurano servizi essenziali e cambiano il modo in cui la riproduzione è organizzata – e sono le donne le protagoniste di questo processo[7].

Il più noto esempio di questa “rivoluzione silenziosa”[8] è la diffusione dell’agricoltura urbana, un fenomeno globale emerso negli anni Settanta per iniziativa delle donne in Africa. Espulse dalle aree rurali e costrette a urbanizzarsi, esse hanno cominciato a coltivare terreni pubblici inutilizzati, trasformando il paesaggio delle città, e rendendo sempre più sfocata la divisione tra rurale e urbano. Con la diffusione dei giardini urbani è nata anche una microeconomia perché con le pannocchie di granturco e le zucchine coltivate le donne hanno creato nuove forme di micro-commercio, rivendendo i prodotti coltivati e preparando snack a basso costo per i lavoratori. Allo stesso tempo hanno così occupato le strade, affrontando la polizia che costantemente cercava di cacciarle e criminalizzare la loro attività di venditrici ambulanti.

Altrettanto importante è che le donne, per contrastare gli effetti dei programmi di austerità imposti alle loro comunità dalla liberalizzazione economica, a partire dalla metà degli anni Settanta, abbiano messo in comune molte attività riproduttive come fare la spesa, cucinare e seminare.

Un esempio particolare è il caso del Cile dopo il colpo di Stato militare del 1973, quando negli insediamenti proletari urbani paralizzati dalla paura e contemporaneamente sottoposti a un brutale programma di austerità, le donne si sono fatte avanti, e unendo le loro risorse e il loro lavoro hanno iniziato a fare la spesa insieme e poi a cucinare insieme, in gruppi di venti o più nei quartieri. Queste iniziative, nate per pura necessità, hanno tuttavia prodotto molto di più che il mero aumento delle risorse economiche. L’atto stesso di riunirsi e rifiutare l’isolamento a cui il regime di Pinochet costringeva la popolazione, ha cambiato la vita delle donne, dando loro maggiore fiducia in se stesse, e ha rotto la paralisi indotta dalla strategia governativa del terrore. Ha anche riattivato la circolazione di informazioni e conoscenze necessarie per sopravvivere e resistere, e ha trasformato il concetto stesso di cosa sia una buona madre e una buona moglie che, sempre di più, ha voluto dire uscire da casa e lottare[9]. Di conseguenza, il lavoro riproduttivo ha smesso di essere un’attività puramente domestica. Con le grandi pentole per cucinare è sceso in strada anche il lavoro domestico, che è entrato nello spazio pubblico acquistando una dimensione politica anche agli occhi delle autorità, che dopo qualche tempo hanno cominciato a vedere nell’organizzazione delle cucine popolari un’attività sovversiva e una minaccia per il potere.

Prinzessinnengärten, orto urbano di Berlino (Ph Vanessa Scarpa)

Simili lotte ci sono state anche in Perù, Venezuela, Argentina, Bolivia. Per quanto riguarda l’Argentina, Natalia Quiroga Díaz e Verónica Gago hanno scritto che durante la crisi economica del 2002, quando crollò l’economia ufficiale e si chiusero molte aziende e le banche, lasciando le persone senza la possibilità di recuperare i propri soldi, è emersa un’altra economia, organizzata principalmente dalle donne, che ha reso visibile quello che di solito è nascosto e considerato privo di valore economico. Nella misura in cui le donne hanno occupato le strade, portando pentole e tegami nei “picchetti” e nelle assemblee di quartiere, è emersa una nuova economia politica di sussistenza che non separava il momento della protesta dalla riproduzione della vita quotidiana e i cui ritmi e necessità hanno riformato lo spazio e il tempo della città[10].

Anche in Bolivia, di fronte all’impoverimento delle loro comunità, le donne hanno portato il lavoro riproduttivo fuori dalle case. Di conseguenza, come afferma Maria Galindo dell’organizzazione Mujeres Creando[11], l’isolamento tipico del lavoro domestico è stato spezzato e si è formata una cultura di resistenza. Galindo parla della lotta delle donne per la sopravvivenza come di una rottura con la sfera della casa e della famiglia. E sottolinea come l’immagine della donna chiusa in casa appartenga ormai al passato, perché in risposta alla precarizzazione del lavoro e alla crisi dei salari maschi le donne si sono appropriate delle strade e le hanno trasformate in mezzi di sussistenza, in veri e propri commons dove trascorrono la maggior parte del tempo, e dove i figli possono fare i compiti mentre aiutano le madri con il loro lavoro[12].

Il lavoro domestico a pagamento ha contribuito alla ridefinizione dello spazio urbano. Visto in un primo momento come luogo pericoloso, dove le lavoratrici domestiche, in gran parte emigranti, potevano essere fermate dalla polizia, esser trovate senza documenti e subire abusi, lo spazio pubblico è diventato un luogo di autonomia e di incontri, un luogo dove rompere l’isolamento del lavoro e guadagnare visibilità per le proprie rivendicazioni, e raggiungere un pubblico più ampio. Le lavoratrici filippine hanno aperto la strada, cercando spazi sociali – parchi, chiese, centri commerciali – in cui riunirsi nei giorni di riposo o di domenica. In alcune città (per esempio Hong Kong) sono scese in piazza con spettacoli pubblici settimanali, con canti e balli focalizzati sui problemi inerenti alla loro vita e alle loro esperienze lavorative. Avere una presenza sul territorio, occupare il territorio – la strada, il marciapiede, il parco – è una pratica che è stata dettata non solo dalla necessità di rompere l’isolamento, ma dalla realizzazione che per combattere le restrizioni poste dalle politiche sull’immigrazione è essenziale diventare visibili e far conoscere la propria storia. Secondo Priscilla Gonzalez, per molti anni coordinatrice di Domestic Workers United – una delle principali organizzazioni di lavoratrici domestiche negli Stati Uniti – questo si è rivelato una forma di lotta molto efficace[13]. Facendo conoscere le loro storie, le lavoratrici domestiche immigrate non solo hanno condiviso le loro esperienze, ma hanno anche sviluppato una maggiore consapevolezza della propria condizione come donne e una comprensione più ampia delle conseguenze della globalizzazione per le loro comunità.

L’arte è stata un elemento chiave nella lotta. L’arte abbellisce gli spazi urbani in cui le persone vivono e lavorano dando valore e dignità alla nostra vita. Mostra i successi della comunità, mantiene viva la memoria di coloro che sono morti o imprigionati. I murales, il teatro di strada, la produzione di manifesti, spillette, volantini, magliette illustrate, adesivi con immagini e slogan sono diventati una componente indispensabile non solo del discorso politico ma di una vita in cui ogni momento è una lotta. Di conseguenza, la stessa arte si è trasformata. Sulla spinta dei movimenti popolari, l’arte si è sempre più sviluppata nelle strade e, come in genere i movimenti sociali, si è femminilizzata.

Un esempio potente della rivoluzione che si è operata nell’arte di strada sono i graffiti dipinti sulle pareti di La Paz dalle componenti di Mujeres Creando, che ridefiniscono l’immaginario collettivo della città trasformando i suoi muri in un vasto tazebao, che critica le politiche del governo, sfida i codici morali consolidati, e mantiene in vita il senso di un’alternativa alla politica istituzionale[14].

In questo contesto, anche oggi è importante la presenza nei movimenti di artisti politicizzati, così come la collaborazione con attivisti ed educatori esterni, che possono, per esempio, fornire informazioni e approfondimenti sulle politiche governative che penalizzano la comunità. Ci sono tuttavia pericoli, in un contesto in cui la mercificazione di ogni aspetto della vita sta modificando anche le lotte sociali. Oggi si guarda anche alle lotte come a delle merci, con gli artisti in funzione di strumenti di gentrificazione. Ormai gli spazi in cui artisti ed educatori contribuiscono ai movimenti popolari sono costantemente minacciati da interessi commerciali, nonché dalle autorità e dalla polizia che temono qualsiasi forma di potere che viene dal basso.

È importante ribadire dunque che artisti ed educatori non sono attori neutri, né possono immaginare di essere i vettori di una particolare creatività e conoscenza relativa alle lotte. Come suggeriscono gli esempi indicati, le donne hanno dimostrato una grande capacità di autonomia e di auto-organizzazione. Hanno anche dimostrato che è dalla necessità che nasce l’invenzione di nuove attività e nuove relazioni. È quindi più opportuno pensare alla lotta che le donne e i movimenti popolari stanno facendo nei quartieri poveri in tutto il mondo come a una escuelita[15], dove gli artisti, gli attivisti, gli educatori possono imparare non solo a “de-professionalizzasi” ma a coltivare un diverso tipo di creatività rispetto a quella solitamente associata all’espressione artistica. Questa è la creatività che si genera quando modifichiamo i nostri rapporti con gli altri, scoprendo nel potere della cooperazione il coraggio di resistere alle forze che opprimono la nostra vita.

(*) Articolo tratto da Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons (ombre corte, con prefazione a cura di Anna Curcio), dove è apparso con il titolo “Produrre il comune nella città”.

 

Note

[1] *Commoning the City. From Survival to Resistance and Reclamation, in “The Journal of Design Strategies”, 9, 1, 2017.

Rodolfo Morales (8 maggio 1925 – 30 gennaio 2001) è un rinomato pittore messicano che ha rappresentato le donne come fondamento della vita sociale in Messico.

[2] Come ha scritto David Harvey citando il sociologo urbano Robert Park. Si veda David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013, pp. 21-22.

[3] Maria Mies e Veronika Bennhold-Thomsen, The Subsistence Perspective. Beyond The Globalized Economy, Zed Books, Londra 1999, p. 125-126.

[4] Mies e Bennhold-Thomsen, The Subsistence Perspective, cit., p. 127.

[5] Si veda Harvey, Città ribelli, cit., pp. 21-45.

[6] Si veda Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, ombre corte, Verona 2014.

[7] Raúl Zibechi, Territories in Resistance. A Cartography of Latin American Social Movements, AK Press, Oakland CA 2012, pp. 236-237, 241, 261; Raúl Zibechi, Descolonizar el pensamiento crítico y las praticás emancipatorias, Ediciones desde abajo, Bogotá 2015.

[8] Si veda Fantu Cheru, The silent revolution and the weapons of the weak. Transformation and innovation from below, in Louise Amoore (a cura di), The Global Resistance Reader, Routledge, New York 2005, pp. 74-85.

[9]Jo Fisher, “The Kitchen Never Stopped”. Women’s self-help groups in Chile’s shanty towns, in Jo Fisher, Out of the Shadow. Women, Resistance and Politics in South America, Latin American Bureau, Londra 1993, pp. 16 ss.

[10] Natalia Quiroga Díaz e Verónica Gago, Los comunes en femenino. Cuerpo y poder ante la expropriación de las economías para la vida, in “Economía y Sociedad”, 19, 45, 30 giugno 2014.

[11] Mujeres Creando, Mujeres Grafiteando, Compaz, La Paz 2009.

[12] Maria Galindo, No Se Puede Descolonizar Sin Despatriarcalizar, in www.mujerescreando.org, 2013, http://www.mujerescreando.org/pag/prensa/2013/libro-nosepuededescolonizar.htm.

[13] Silvia Federici e R.J. Maccani, Interview with Pricilla Gonzalez, in Camille Barbagallo e Silvia Federici (a cura di), “Care Work” and the Commons, Phoneme Books, Nuova Delhi 2012.

[14] Mujeres Creando, Mujeres Grafiteando, cit.

[15] Zibechi, Descolonizar el pensamiento crítico, cit., pp. 161-170.

(*) articoli ripresi – con le immagini – da “Comune-info”. Invece il manifesto NI SUMISAS, NI DEVOTAS è stato scelto dalla redazione della bottega.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • susanna sinigaglia

    ciao. su “le monde diplomatique” di novembre è uscito un articolo sulle donne israeliane, il machismo della società ecc. purtroppo online non ho trovato la versione italiana ma solo quella in francese https://www.monde-diplomatique.fr/2017/11/RAIM/58057. spero che almeno una parte di voi possa comprenderla. credo che sia molto importante parlare anche delle donne nella società israeliana, la loro composizione culturale e di classe perché israele non è un monolito e le sue dinamiche vanno conosciute per combattere chi fa le scelte e non chi le subisce.

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