L’Invincibile Armata della Nato

articoli, video, immagini di Gregorio Piccin, Anna Polo, CALP, Eliseo Bertolasi, Domenico Gallo, Pepe Escobar, Paolo Desogus, Stefano Orsi, Noam Chomsky, Mauro Biani, Patrick Buchanan, Benigno Moi, Ruslan Kotsaba, Matteo Saudino, Danilo Della Valle, Raniero La Valle

Molti nemici molto onore – Gregorio Piccin

Il nuovo “concetto strategico” della Nato approvato dal vertice di Madrid della scorsa settimana è il punto d’arrivo di una traiettoria tesa come un proiettile che comincia col vertice di Roma del 1991. Allora, subito dopo la prima guerra del Golfo, venne prospettata l’espansione verso est e la professionalizzazione delle forze armate alleate come presupposto per la proiezione della forza oltre i confini dei Paesi membri.
In un trentennio di belligeranza e di allargamento l’Alleanza ha fatto a pezzi il diritto internazionale, rilanciato la sua piattaforma militare globale, avviato una nuova guerra fredda e trainato la corsa agli armamenti.

La Nato del 2022, come un mafioso che pretende di sedersi sullo scranno del giudice, si auto celebra entità morale globale senza dimostrare il minimo pudore rispetto a quell’ immenso cumulo di macerie e disperazione lasciato in eredità ai popoli su cui ha puntato il suo micidiale mirino “democratico”.
In perfetta aderenza con la narrazione mainstream e con recenti documenti europei come quello sulla così detta “Bussola Strategica”, risulterebbe infatti che il blocco euro-atlantico sia assediato da minacce formidabili. Minacce di ogni genere: simmetriche, asimmetriche, ibride, valoriali, statali, non statali, climatiche.
“La nostra visione è chiara: vogliamo vivere in un mondo in cui la sovranità, l’integrità territoriale, diritti umani e il diritto internazionale siano rispettati e in cui ogni Paese possa scegliere il proprio cammino, libero da aggressioni, coercizioni o sovversioni. Lavoriamo con tutti coloro che condividono questi obiettivi. Siamo uniti, come alleati, per difendere la nostra libertà e contribuire a un mondo più pacifico” – si legge tra le tante asserzioni di principio contenute nel documento.
Nel frattempo si accetta l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza in cambio della consegna dei curdi al dittatore Erdogan (così lo ha definito Draghi) mentre gli si consente di invadere Siria, Iraq ed occupare porzioni di Libia; si continuano a fornire le basi tecniche alle petromonarchie del Golfo per il genocidio degli yemeniti e si permette ad Israele di perpetrare il suo apartheid contro il popolo palestinese.
“…La sicurezza umana, compresa la protezione dei civili e la riduzione dei danni ai civili, è al centro del nostro approccio alla prevenzione delle crisi…” – si legge ancora nel documento. Eppure la stessa Nato ha recentemente rivendicato l’immunità presso l’Alta corte di Belgrado per l’epidemia da uranio impoverito scaturita dai “bombardamenti umanitari” del 1999 e ancora in pieno corso.
Ma il problema è che questo documento non è una pagliacciata, anche se potrebbe sembrarlo. La millanteria morale e umanitaria di cui è intriso fa il paio con la drammatica concretezza delle misure che verranno messe in campo.
In piena recessione e crisi sociale il segretario generale dell’Alleanza Stoltemberg ha dichiarato che il 2% del Pil per le spese militari non è un punto d’arrivo per gli alleati ma un punto di partenza e sarà proprio così visto che l’intenzione è quella di portare da 40.000 a 300.000 gli effettivi della Forza di reazione rapida della Nato. Questa decuplicazione epocale richiederà infatti anche un adeguato affiancamento di nuovi mezzi e assetti che i Paesi membri dovranno fornire. Contemporaneamente Biden ha dichiarato che “Gli Usa aumenteranno le difese in Europa e forze aeree aggiuntive in Italia”.
Ma l’Europa, dove la Russia viene considerata “…la minaccia più significativa alla sicurezza degli Alleati…”, non è certo l’unico ambito di interesse della Nato globale. Si passa dal quadrante indo-pacifico dove “…le politiche coercitive della Cina sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori…” al Medio oriente, all’Africa, agli oceani, allo spazio siderale.
In questa accelerazione della guerra fredda contro Russia e Cina l’Europa non sta a guardare, non è inerme, non è sottomessa agli interessi degli Stati Uniti come troppo spesso si sente dire. L’Europa, grazie all’irresponsabile ceto politico che la governa, è parte attiva di questo processo:
secondo il Sipri di Stoccolma l’80,4% nella produzione di armi e sistemi d’arma a livello globale, con annessa internazionalizzazione della filiera bellica, è controllato da multinazionali del blocco euro-atlantico e dai suoi impresentabili alleati (tra cui Turchia, Israele, Emirati Arabi).
I 35 miliardi per la “difesa” messi recentemente a disposizione dall’Italia si sommano ai 100 miliardi stanziati dalla Germania e ai 295 miliardi già messi in campo dal Francia con la Legge di programmazione militare di Macron. Queste cifre non faranno altro che confermare ed accrescere il dato del Sipri.
Senza considerare che già ora, al netto dei futuri aumenti di spesa, i soli budget della “difesa” francese e tedesco sono quasi il doppio di quello russo e che la spesa Nato è 18 volte superiore.
Lo scorso 29 giugno Draghi, da Madrid, lo ha ammesso senza infingimenti: “Si arriva a una corrispondenza tra Unione Europea e Nato, e così le divergenze d’opinione sulla costruzione di una difesa europea – che è quello che noi vogliamo – ma anche di una sua complementarietà con la difesa Nato, vengono superate”.

Con queste evidenze appare chiaro che la responsabilità per la corsa agli armamenti degli ultimi trent’anni e per quella a venire, con la sua scia di milioni di morti, profughi e devastazioni ricade quasi esclusivamente sull’occidente e sulle proprie élite di cui Draghi è senza dubbio uno dei più degni rappresentanti.
Queste élite, un tempo dominanti incontrastate della globalizzazione capitalista sembrano oggi spingere per una nuova divisione del mondo in blocchi (non più ideologici, anche se questa è la narrazione posticcia) e per una militarizzazione della così detta “competizione strategica”. Ma questo processo non lineare e contraddittorio, che comporterà la ridefinizione delle catene di approvvigionamento e della divisione internazionale del lavoro sarà evidentemente doloroso e incerto.
L’interdipendenza che il capitalismo ha creato e ampliato sin dalle sue origini, le recenti votazioni all’Onu sulla questione ucraina, l’affacciarsi di nuovi sistemi di scambio valutario/finanziario nell’area euroasiatica e Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) a cui hanno chiesto di aderire anche Argentina e Iran, dimostrano ancora una volta che il mondo e la così detta comunità internazionale non si risolvono nel blocco euro-atlantico e che il narcisismo suprematista dell’occidente è fuori tempo massimo.
Di certo a pagare il prezzo di questa ristrutturazione saranno le classi lavoratrici intese in senso lato ed anche pezzi importanti del tessuto delle Pmi che verranno spazzate via o assorbite e rimodulate dai processi di concentrazione capitalistica tipici di ogni crisi.
Il riarmo occidentale, apparentemente inutile vista la già straripante e documentabile supremazia euro-atlantica, sta accompagnando una ribalta dei nazionalismi, delle politiche di potenza e parallelamente una tragica chiusura degli spazi multilaterali dove affrontare i grandi problemi dell’umanità: disuguaglianze, fame, cambiamento climatico, disarmo.
Il riarmo europeo in particolare sembra rivolto non tanto alla “difesa” dalla Russia ma all’accompagnamento di una politica di potenza interna alla Nato per sostenere lo scomposto neocolonialismo europeo verso le tradizionali aree di conquista: Africa (messa chiaramente in evidenza anche nel documento sulla “Bussola Strategica” europea), Medio Oriente, America Latina e parte dell’Asia.
E’ una prospettiva che ricorda molto i prodromi della prima guerra mondiale. Ma oggi, con la variante nucleare.
L’opposizione sociale e politica a questo delirio bellicista diventa oggi un imperativo assoluto di r-esistenza.

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Transito di armi a Genova. La ribellione dei portuali continua – Anna Polo

Il CALP (Collettivo autonomo lavoratori portuali) reagisce con sdegno alla risposta, definita “banale e sciocca” del Sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano all’interrogazione presentata dalla parlamentare Yana Ehm del gruppo ManifestA sul transito di armi nel porto di Genova.

Di Stefano ammette che la nave “Bahri Jeddah” battente bandiera dell’Arabia Saudita, attraccata nel porto lo scorso aprile, proveniente da Baltimora (USA) e diretta verso Alessandria (Egitto) con sbarco di destinazione a Jeddah (Arabia) e Jebel Ali (Emirati Arabi Uniti) trasportava “materiale militare, anche pericoloso ed esplosivo, ma non radioattivo”.

Con una giravolta tecnica di rara ipocrisia, Di Stefano afferma poi che questi transiti, contrastati anche in passato da scioperi e blocchi del porto di Genova, non violino la legge 185/90 sull’esportazione di armi, perché queste non vengono scaricate o maneggiate dai portuali, ma rimangono nelle stive o nei container. Dunque “non si ravvede la necessità di assumere specifiche iniziative in proposito.”

Ma possibile, chiedono i portuali, assistiti dallo studio dell’avvocato Andrea Danilo Conte che “la necessità di rispettare le normative internazionali sui trasporti prevalga su quella di rispettare le normative internazionali sui diritti umani?” Merci prima di esseri umani, insomma. Logica economica a discapito della vita umana. Risposta tecnica invece che politica.

Eppure il transito di armi destinate a Paesi in conflitto e per di più colpevoli di gravi violazioni di diritti umani viola l’articolo 9 del Trattato sul commercio delle armi e anche l’articolo 11 della Costituzione. Inoltre, ricorda il CALP, “il 20 dicembre 2020 la Commissione Esteri della Camera ha votato la risoluzione n. 7-00588 di embargo nei confronti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, così come hanno fatto molti Paesi dell’Unione Europea. Il 17 settembre 2020 il Parlamento Europeo ha stabilito che le armi esportate in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti vengono utilizzate nella guerra dello Yemendove 22 milioni di persone hanno bisogno di protezione e aiuti umanitari”.

“Contrastare il traffico delle armi per noi portuali è una cosa che sentiamo dal profondo del cuore. I nostri padri hanno combattuto il traffico delle armi nella guerra del Vietnam, nel colpo di stato in Cile e nel regime dei colonnelli greci. Noi continueremo sempre a combattere questo traffico della morte. Ci troveranno sempre qua, a prescindere dal governo che ci sarà” promettono.

Ugualmente dura la reazione della deputata Yana Ehm: “La risposta del Sottosegretario Di Stefano alla mia interrogazione è stata assurda. Pur riconoscendo il fatto che le navi “Bahri” sono utilizzate per trasferire armamenti dal Nord America verso l’Arabia, Di Stefano ha addotto delle motivazioni improbabili per giustificare l’ingiustificabile. Il nostro Paese non può far transitare armamenti destinati ai territori di guerra e invece questo accade e sarebbe già accaduto anche in passato.

“Tutti i principali porti italiani sono interessati al transito di armamenti destinati ad aree di conflitto” prosegue la nota della parlamentare di ManifestA. “Nel febbraio 2020, a Genova, fu ordinato il sequestro del cargo libanese «Bana», i cui ufficiali sono stati accusati di traffico d’armi dalla Turchia alla Libia.

Nel maggio e giugno 2021 sono transitati dai porti di Genova, Livorno, Napoli, Ravenna mezzi carichi di bombe destinati a Israele per il bombardamento di Gaza, mezzi contenenti armamenti ed esplosivi di fabbricazione francese sono stati trasportati in oltre 200 container dalle navi della compagnia Ignazio Messina da Marsiglia-Fos (passando per Genova) ai porti sauditi nel periodo 2017-2020. Al largo di Dakar in Senegal è stata sequestrata la nave «Eolika» – sotto bandiera guyanese -partita da La Spezia con un carico di munizioni Fiocchi destinato alla Repubblica Dominicana.

I transiti descritti, se provati, contrasterebbero palesemente il valore costituzionale sancito dall’art. 11, i principi sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”

Dal canto suo The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei denuncia “l’assoluta assenza di trasparenza e la negazione concreta dell’accesso alla documentazione di carico delle navi saudite” e ritiene “del tutto legittime e ragionevoli le proteste di lavoratori, abitanti e associazioni, vista una situazione di pericolo oggettivo che si ripete nel porto di Genova in media ogni tre settimane da ben otto anni.”

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Cosa succede in Donbass in questo momento? Reportage di Eliseo Bertolasi

Con la presa di Lisichansk agli inizi di luglio la Repubblica Popolare di Lugansk è arrivata fino ai confini storici della sua oblast’, di fatto, terminando la reintegrazione di quei territori che dal 2014 sono rimasti sotto il controllo dell’Ucraina.Le Forze armate della Federazione Russa e le Forze armate della Repubblica di Lugansk hanno combattuto aspramente per la presa di questi territori, un’avanzata costante e metodica che con la presa del grande centro abitato di Severodonetsk si è poi trasformata in un fiume in piena che ha travolto in poco tempo Lisichansk e le ultime resistenze ucraine fino ai confini previsti.

Ma come appaiono ora questi centri abitati?

Nella città di Severdonetsk, dove il mese scorso si è letteralmente combattuto casa per casa, la situazione pare stabilizzata, tuttavia molti quartieri della città, ora deserti, sono stati distrutti. Intere file di alti caseggiati sono state sventrate dalle bombe e annerite dal fumo degli incendi.
I combattimenti si sono svolti a ridosso e nei cortili interni delle abitazioni civili, questo dato è facilmente rilevabile, basa osservare l’ubicazione delle postazioni e delle trincee dell’esercito ucraino abbandonate, distrutte dai colpi dell’artiglieria russa, di fatto adiacenti alle case.
In questa Operazione Speciale l’esercito russo congiuntamente alle Forze militari della DNR e della LNR si trova spesso a dover avanzare combattendo casa per casa quartiere per quartiere..

Non a caso la Federazione Russa continua a definire questo confronto con l’Ucraina – SVO (Spetsial’naya Voennaya Operatsiya) – Operazione Militare Speciale. “Guerra” significherebbe, almeno nel significato che lo stesso occidente attribuisce a questo termine, la distruzione totale e sommaria non solo d’intere città ma d’intere regioni mediante costanti e massicci bombardamenti aerei.

Nelle postazioni ucraine i soldati russi hanno rinvenuto una vasta gamma di armi fornite dall’Occidente all’Ucraina, in particolare missili anticarro, incluso il Milan e il Javelin.

Anche la città di Lisichansk, a causa dei combattimenti, presenta lo stesso livello di distruzione di Severodonetsk.

Ora le Forze armate della Federazione Russa e della LNR forniscono alla popolazione cibo, acqua e mezzi di sussistenza, la gente in fila si accalca intorno ai punti di distribuzione e con parole di commozione ringrazia i soldati russi e della LNR.

Secondo testimonianze prese sul posto, la gente di questi territori da molto tempo aspettava questo momento. Solo ora gli abitanti di Lisichansk, di Severodonetsk e di tutti gli altri insediamenti dove ora sventola la bandiera russa e della LNR realizzano che sta iniziando una nuova era: libertà di poter parlare il russo, la loro lingua madre senza subire discriminazioni e soprusi, libertà di poter ricominciare a vivere come in passato hanno sempre vissuto, onorando la propria storia, libertà di rendere omaggio ai propri eroi della “Grande Guerra Patriottica” e di poter ancora festeggiare il 9 maggio il “Giorno della Vittoria” sul nazifascismo.

La LNR è già stata completamente liberata dalla presenza dell’esercito ucraino, tuttavia una parte significativa dei territori della Repubblica Popolare di Donetsk sono ancora sotto il controllo dell’Ucraina.

La situazione a Donetsk è davvero tragica. La città quasi ogni giorno è sottoposta ai bombardamenti dell’esercito ucraino, vengono colpiti anche quei quartieri centrali e meridionali che di solito, in precedenza, non erano interessati dai bombardamenti. Ora, purtroppo, con l’impiego delle nuove armi che i paesi della NATO continuano a fornire a Kiev, tra cui gli obici da 155 mm, il raggio d’azione di tali ordigni copre abbondantemente tutta l’area metropolitana, anche oltre, fino a Makeevka.

 

L’esercito ucraino colpisce indiscriminatamente obiettivi civili, come: mercati, fermate degli autobus, negozi, ospedali, appartamenti, scuole.. Il bilancio delle vittime, tra cui bambini, e dei feriti si aggrava di giorno in giorno…

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Chi non grida per la pace…- Domenico Gallo

Quattro mesi di guerra e di sofferenze indicibili per i popoli coinvolti nel conflitto e non si vede alcun segnale di stanchezza, nessuna volontà di abbassare le armi da entrambe le parti. Al contrario si punta al rilancio di uno scontro armato, che appare senza limiti di tempo né di pietà per le vittime che produce. Dopo aver perduto il Donbass, quasi completamente occupato dalla Russia a prezzo di combattimenti durissimi, Zelensky ostenta sicurezza e, malgrado le perdite subite, vanta di avere un esercito di un milione di uomini pronto alla riconquista dei territori perduti nei quattro mesi di guerra, e persino quelli perduti nel 2014, grazie al fatto che presto arriveranno le potenti armi dell’Occidente. A sua volta Putin ostenta spavalderia e minaccia di “fare sul serio”, come se finora avesse scherzato. In realtà non ci sono segnali che la Russia voglia porre un limite temporale o spaziale alle proprie attività militari. Del resto le sanzioni che l’Europa ha inflitto alla Russia stanno provocando molti più danni ai sanzionatori che ai sanzionati. Infatti quest’anno da gennaio a giugno il saldo attivo con l’estero della Russia ha raggiunto i 138,5 miliardi di dollari. (Rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso l’attivo della bilancia dei pagamenti è cresciuto del 250%). Tutto questo mentre la Germania, paventa un disastro se non verrà riaperto il gasdotto Nord Stream, ufficialmente chiuso per manutenzione e il resto dell’Europa si trova a fare i conti con i gravi problemi sociali che scaturiscono dalle conseguenze economiche della guerra.

I potenti che hanno in mano le sorti dei popoli non hanno alcuna intenzione di arrestare questo fiume di sangue, non lo vogliono arrestare nè i diretti belligeranti, né i belligeranti indiretti, USA, GB e Paesi NATO, che alimentano il conflitto fornendo il materiale necessario per far continuare il massacro. Come ha osservato Gustavo Zagrebelsky (il Fatto, 8 luglio): “stiamo parlando delle guerre decise da qualcuno che manda qualcun altro a combattere e morire”. Perché le guerre non si fanno, si fanno fare. Osserva ancora Zagrebelsky: “I capi di Stato, i ministri, gli alti comandi, i sobillatori, i fabbricanti di armi, i giornalisti (a parte gli inviati di guerra) e gli opinionisti al seguito, di solito non vanno sul campo, non sparano e non si fanno sparare, non distruggono case altrui e non si fanno distruggere le proprie. Le loro compagne, i loro bambini, i loro vecchi non sono uccisi, non sono buttati in strada tra le macerie. Quelli che fanno fare la guerra giocano con le vite altrui.” Se per qualunque Stato è lecito resistere ad un’aggressione in atto, ciò non toglie che la guerra sia una calamità, una catastrofe provocata dalla politica, che infligge sofferenze indicibili alle popolazioni che ne sono direttamente coinvolte e danni ingiusti agli altri popoli. Il prosieguo della guerra nel teatro ucraino è uno scandalo per la comunità internazionale, che deve intervenire per porre fine al conflitto. La soluzione del conflitto non può essere lasciata al giudizio delle armi, non può essere la violenza il giudice supremo chiamato a dirimere il conflitto fra la Federazione Russa e l’Ucraina. Il nostro Paese, L’unione europea e le Nazioni Unite devono avviare un percorso di pace. Bisogna rendersi conto che la politica fin qui seguita, di affidare alle sanzioni e alla potenza di fuoco delle armi fornite dall’Occidente la soluzione del conflitto, non ha ottenuto altro risultato che aumentare lo spargimento di sangue, senza aprire la strada ad alcuna prospettiva futura di pace. Parafrasando la celebre espressione di Dietrich Bonhoeffer, riferita alla notte dei cristalli (9 novembre 1938): “chi non grida per gli Ebrei non puo’ cantare il gregoriano”, oggi dobbiamo dire: chi non grida per la pace non può salvare l’avvenire nostro e dei nostri figli. Finalmente questo grido si sta sollevando in tutt’Europa, il prossimo 23 luglio è indetta una giornata nazionale di mobilitazione in tutte le città d’Italia e d’Europa per chiedere che tacciano le armi e si avvii una conferenza di pace. Tacciano le armi, Negoziato subito! Verso una conferenza internazionale di pace. Queste le parole d’ordine dell’appello lanciato dalla Rete italiana Pace e Disarmo insieme ad una ampia coalizione di reti, movimenti, associazioni, sindacati, studenti e giovani per la giornata nazionale di mobilitazione per la pace in tutte le città italiane promossa per il 23 luglio. (https://sbilanciamoci.info/tacciano-le-armi-negoziato-subito/) Osserva l’appello: “Questa guerra va fermata subito e va cercata una soluzione negoziale, ma non si vedono sinora iniziative politiche né da parte degli Stati, né da parte delle istituzioni internazionali e multilaterali che dimostrino la volontà di cercare una soluzione politica alla crisi.

Occorre invece che il nostro paese, l’Europa, le Nazioni Unite operino attivamente per favorire il negoziato e avviino un percorso per una conferenza internazionale di pace che, basandosi sul concetto di sicurezza condivisa, metta al sicuro la pace anche per il futuro. (..) Bisogna fermare l’escalation militare. Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione. Non c ‘è nessuna guerra da vincere: noi invece vogliamo vincere la pace, facendo tacere le armi e portando al tavolo del negoziato i rappresentanti del governo ucraino, di quello russo, delle istituzioni internazionali. La popolazione italiana, nonostante sia sottoposta a una massiccia propaganda, continua ad essere contraria al coinvolgimento italiano nella guerra e a chiedere che si facciano passi concreti da parte del nostro governo e dell’Unione Europea perché sia ripresa con urgenza la strada dei negoziati. Questo sentimento maggioritario nel paese è offuscato dai media mainstream ed è non rappresentato nel Parlamento. Occorre dargli voce perché possa aiutare il Governo a cambiare politica ed imboccare una strada diversa da quella attuale.”

Che la voce dei popoli possa sovrastare il fragore delle armi!

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In Eurasia, la guerra dei corridoi economici è in pieno svolgimento – Pepe Escobar

Le mega organizzazioni eurasiatiche e i loro rispettivi progetti stanno ora convergendo a velocità record, con un polo globale davanti all’altro.

La guerra dei corridoi economici sta ora procedendo a tutta velocità, con il primo flusso di merci rivoluzionario dalla Russia all’India attraverso l’International North South Transportation Corridor (INSTC) già in vigore .

Pochissimi, sia nell’est che nell’ovest, sono consapevoli di come ciò sia effettivamente in atto da tempo: l’accordo Russia-Iran-India per l’attuazione di una rotta commerciale eurasiatica più breve ed economica attraverso il Mar Caspio (rispetto al Canale di Suez), è stato firmato per la prima volta nel 2000, nell’era precedente all’11 settembre.

L’INSTC in piena modalità operativa segnala un potente segno distintivo dell’integrazione eurasiatica, insieme alla Belt and Road Initiative (BRI), all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), all’Unione economica eurasiatica (EAEU) e, ultimo ma non meno importante, ciò che ho descritto come “Pipelineistan” due decenni fa.

Il Caspio è la chiave

Diamo una prima occhiata a come interagiscono questi vettori.

La genesi dell’attuale accelerazione risiede nella recente visita del presidente russo Vladimir Putin ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan, per il sesto Vertice del Caspio. Questo evento non solo ha portato l’evoluzione del partenariato strategico Russia-Iran a un livello più profondo, ma, soprattutto, tutti e cinque gli stati costieri del Mar Caspio hanno convenuto che nessuna nave da guerra o base della NATO sarà autorizzata in loco.

Ciò essenzialmente configura il Caspio come un lago russo virtuale e, in un senso minore, iraniano, senza compromettere gli interessi dei tre “stans”, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan. A tutti gli effetti, Mosca ha rafforzato la sua presa sull’Asia centrale.

Poiché il Mar Caspio è collegato al Mar Nero da canali al largo del Volga costruiti dall’ex Unione Sovietica, Mosca può sempre contare su una flotta di riserva di piccole navi – immancabilmente dotate di potenti missili – che possono essere trasferite nel Mar Nero in pochissimo tempo se necessario.

I legami commerciali e finanziari più forti con l’Iran ora procedono di pari passo con il legame dei tre “stans” alla matrice russa. La repubblica ricca di gas Turkmenistan da parte sua è stata storicamente idiosincratica, oltre a impegnare la maggior parte delle sue esportazioni in Cina.

Sotto un giovane leader probabilmente più pragmatico, il presidente Serdar Berdimuhamedow, Ashgabat potrebbe eventualmente scegliere di diventare un membro della SCO e/o dell’EAEU.

Lo stato litorale del Caspio, l’Azerbaigian, presenta invece un caso complesso: un produttore di petrolio e gas considerato dall’Unione Europea (UE) per diventare un fornitore di energia alternativa alla Russia, anche se questo non accadrà presto.

Il collegamento con l’Asia occidentale

La politica estera dell’Iran sotto il presidente Ebrahim Raisi è chiaramente su una traiettoria eurasiatica e globale del sud. Teheran sarà formalmente incorporata nella SCO come membro a pieno titolo nel prossimo vertice di Samarcanda a settembre, mentre è stata depositata la sua domanda formale per entrare a far parte dei BRICS .

Purnima Anand, capo del BRICS International Forum, ha affermato che anche Turchia, Arabia Saudita ed Egitto sono molto desiderosi di unirsi ai BRICS. Se ciò dovesse accadere, entro il 2024 potremmo essere in viaggio verso un potente hub dell’Asia occidentale e del Nord Africa saldamente installato all’interno di una delle istituzioni chiave del mondo multipolare.

Mentre Putin si dirigerà a Teheran la prossima settimana per la trilaterale Russia, Iran, Turchia per parlare, apparentemente della Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è destinato a sollevare l’argomento dei BRICS.

Teheran opera su due vettori paralleli. Nel caso in cui il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) venisse riproposto – una possibilità piuttosto debole così com’è, considerando gli ultimi imbrogli a Vienna e Doha – ciò rappresenterebbe una vittoria tattica. Eppure il movimento verso l’Eurasia è a un livello strategico completamente nuovo.

Nel quadro dell’INSTC, l’Iran farà il massimo uso del porto geo strategicamente cruciale di Bandar Abbas, a cavallo tra il Golfo Persico e il Golfo di Oman, all’incrocio tra Asia, Africa e subcontinente indiano.

Eppure, per quanto possa essere descritta come una grande vittoria diplomatica, è chiaro che Teheran non sarà in grado di sfruttare appieno l’appartenenza ai BRICS se le sanzioni occidentali, soprattutto statunitensi, non saranno completamente revocate…

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Nazionalizzato il colosso francese Électricité de France (EDF). E in Italia? – Paolo Desogus

Il colosso francese Électricité de France (EDF) ritorna sotto il controllo esclusivo dello stato. La quota a suo tempo privatizzata da Sarkozy è stata nuovamente nazionalizzata. Secondo il governo, infatti, solo lo stato può gestire la grave crisi che sta colpendo il continente.

Che dire, qualsiasi paragone con l’Italia non può che produrre un giudizio impietoso sullo stato in cui versa la cultura industriale italiana, tutta orientata verso il privato, verso il mito dell’imprenditore e della libera iniziativa risolutrice di ogni problema. L’Italia è in realtà un caso esemplare di fallimento della classe imprenditoriale e della filosofia del privato.

Manco a farlo apposta proprio ora a Palazzo Chigi risiede uno dei principali artefici delle disastrose privatizzazioni degli anni Novanta.

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“La razionalità non è ammessa”: Chomsky su Russia, Ucraina e il prezzo della censura dei media

…Subito dopo la guerra, “il Dipartimento degli Stati Uniti ha riconosciuto di non aver preso in considerazione le preoccupazioni per la sicurezza russa nelle discussioni con la Russia. La questione della NATO non è stata discussa. Ebbene, tutto questo è una provocazione. Non una giustificazione, ma una provocazione ed è interessante che nel discorso americano sia quasi obbligatorio riferirsi all’invasione come “invasione non provocata dell’Ucraina”. Cercatelo su Google, troverete centinaia di migliaia di risultati”.

Chomsky ha continuato: “Certo, è stata provocata. Altrimenti non si parlerebbe sempre di invasione non provocata. Ormai la censura negli Stati Uniti ha raggiunto un livello che va oltre quello della mia vita. Un livello tale che non è consentito leggere la posizione russa. Letteralmente. Agli americani non è permesso sapere cosa dicono i russi. Tranne che per alcune cose. Quindi, se Putin fa un discorso ai russi con affermazioni stravaganti su Pietro il Grande e così via, lo si vede sulle prime pagine. Se i russi fanno un’offerta per un negoziato, non la si trova. È soppresso. Non è permesso sapere cosa dicono. Non ho mai visto un livello di censura come questo”.

Per quanto riguarda il suo punto di vista sui possibili scenari futuri, Chomsky ha detto che “la guerra finirà, sia con la diplomazia sia senza. Questa è solo logica. Se la diplomazia ha un significato, significa che entrambe le parti possono tollerarla. Non gli piace, ma può essere tollerata. Non ottengono quello che vogliono, ma ottengono qualcosa. Questa è la diplomazia. Se si rifiuta la diplomazia, si dice: “Lasciamo che la guerra continui con tutti i suoi orrori, con tutta la distruzione dell’Ucraina, e lasciamola continuare finché non otterremo ciò che vogliamo””.

Con “noi”, Chomsky si riferiva a Washington, che vuole semplicemente “danneggiare la Russia così gravemente che non sarà mai più in grado di intraprendere azioni come questa”. E cosa significa? È impossibile da raggiungere. Quindi, significa: continuiamo la guerra finché l’Ucraina non sarà devastata. Questa è la politica degli Stati Uniti”.

La maggior parte di tutto questo non è evidente al pubblico occidentale semplicemente perché alle voci razionali “non è permesso parlare” e perché “la razionalità non è permessa. Questo è un livello di isteria che non ho mai visto, nemmeno durante la Seconda guerra mondiale, che sono abbastanza vecchio da ricordare molto bene”.

Mentre viene negata una comprensione alternativa della devastante guerra in Ucraina, l’Occidente continua a non offrire risposte serie o obiettivi raggiungibili, lasciando l’Ucraina devastata e le cause del problema al loro posto. “Questa è la politica degli Stati Uniti”.

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Una guerra tra Stati Uniti e Russia sta diventando inevitabile? – Patrick Buchanan

Al vertice NATO di Madrid, la Finlandia è stata invitata ad aderire all’Alleanza. Cosa significa questo per la Finlandia?

Se il presidente russo Vladimir Putin dovesse violare il confine finlandese, lungo 830 miglia, gli Stati Uniti si schiereranno in difesa di Helsinki e combatteranno la Russia al fianco della Finlandia.

Cosa significa per l’America l’appartenenza della Finlandia alla NATO?

Se Putin dovesse entrare militarmente in Finlandia, gli Stati Uniti entrerebbero in guerra contro la nazione più grande del mondo, con un arsenale di 4.500-6.000 armi nucleari strategiche e da battaglia.

Nessun presidente della Guerra Fredda si sarebbe sognato di prendere un impegno del genere: rischiare la sopravvivenza della nostra nazione per difendere il territorio di un Paese lontano migliaia di chilometri che non ha mai rappresentato un interesse vitale per gli Stati Uniti.

Entrare in guerra con l’Unione Sovietica per la salvaguardia del territorio finlandese sarebbe stato considerato una follia durante la Guerra Fredda.

Ricordiamo: Harry Truman si rifiutò di usare la forza per rompere il blocco di Berlino di Joseph Stalin. Dwight Eisenhower si rifiutò di inviare truppe statunitensi per salvare i combattenti per la libertà ungheresi che venivano investiti dai carri armati sovietici a Budapest nel 1956.

Lyndon B. Johnson non fece nulla per aiutare i patrioti cechi schiacciati dagli eserciti del Patto di Varsavia nel 1968. Quando Solidarność di Lech Walesa fu distrutta per ordine di Mosca in Polonia nel 1981, Ronald Reagan fece dichiarazioni coraggiose e inviò macchine Xerox.

Mentre durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti rilasciavano dichiarazioni annuali di sostegno alle “nazioni prigioniere” dell’Europa centrale e orientale, la liberazione di queste nazioni dal controllo sovietico non è mai stata considerata così vitale per l’Occidente da giustificare una guerra con l’URSS.

In effetti, nei 40 anni di guerra fredda, la NATO, iniziata nel 1949 con 12 Paesi membri, ne ha aggiunti solo altri quattro: Grecia, Turchia, Spagna e Germania Ovest.

Eppure, con l’invito alla Svezia e alla Finlandia ad aderire come 31esima e 32esima nazione a ricevere una garanzia di guerra ai sensi dell’articolo 5, la NATO avrà raddoppiato il numero dei suoi membri da quando si pensava – certamente da parte dei russi – che la guerra fredda fosse finita…

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Comunicato stampa IFOR, WRI, EBCO e Connection sul caso del giornalista pacifista ucraino Ruslan Kotsaba

In Ucraina, martedì 19 luglio 2022 si terrà un processo contro il giornalista ucraino, pacifista e obiettore di coscienza Ruslan Kostaba, solo perché ha espresso pubblicamente le sue opinioni pacifiste.
L’International Fellowship of Reconciliation (IFOR), War Resisters’ International (WRI), l’European Bureau for Conscientious Objection (EBCO) e Connection e.V. (Germania) considerano il caso di Ruslan Kostaba una chiara persecuzione motivata politicamente, in violazione dei suoi diritti alla libertà di espressione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione, garantiti dagli articoli 18 e 19 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dagli articoli 9 e 10 della Convenzione Europea sui Diritti Umani.
Le organizzazioni esprimono la loro solidarietà a Ruslan Kotsaba e sollecitano le autorità ucraine a garantire che tutti i pacifisti in Ucraina, compresi gli attivisti del Movimento Pacifista Ucraino, possano esprimere liberamente le proprie opinioni e continuare le proprie attività nonviolente.
Le organizzazioni ricordano inoltre la loro ferma condanna dell’invasione russa dell’Ucraina e chiedono ai soldati di non partecipare alle ostilità e a tutte le reclute di rifiutare il servizio militare.
Il governo ucraino dovrebbe salvaguardare il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, rispettando pienamente gli standard europei e internazionali, tra cui quelli stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti Umani…

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La power troika batte Biden in Asia occidentale – Pepe Escobar

The Cradle

I presidenti di Russia, Iran e Turchia si sono riuniti per discutere le questioni critiche relative all’Asia occidentale, con l’occupazione illegale della Siria da parte degli Stati Uniti un punto di discussione chiave.

Il vertice di Teheran che ha unito Iran-Russia-Turchia è stato un evento affascinante sotto più di un aspetto. Apparentemente sul processo di pace di Astana in Siria, avviato nel 2017, la dichiarazione congiunta del vertice ha debitamente notato che Iran, Russia e (recentemente ribattezzato) Turkiye continueranno a “cooperare per eliminare i terroristi” in Siria e “non accetteranno nuovi fatti in Siria in nome della sconfitta del terrorismo”.

Questo è un rifiuto totale dell’unipolarità eccezionalista della “guerra al terrore” che un tempo governava l’Asia occidentale.

Resistere allo sceriffo globale

Il presidente russo Vladimir Putin, nel suo stesso discorso , è stato ancora più esplicito. Ha sottolineato “passi specifici per promuovere il dialogo politico inclusivo intra-siriano”: “Gli stati occidentali guidati dagli Stati Uniti stanno incoraggiando fortemente il sentimento separatista in alcune aree del paese e saccheggiando le sue risorse naturali con un alla fine di separare lo stato siriano”.

Quindi ci saranno “passi aggiuntivi nel nostro formato trilaterale” volti a “stabilizzare la situazione in quelle aree” e, soprattutto, a “restituire il controllo al governo legittimo della Siria”. Nel bene e nel male, i giorni del saccheggio imperiale saranno finiti.

Ancora più intriganti gli incontri bilaterali a margine del vertice – Putin/Raisi e Putin/Erdogan. Qui il contesto è fondamentale: il raduno di Teheran si è svolto dopo la visita di Putin in Turkmenistan a fine giugno per il sesto vertice del Caspio, a cui erano presenti tutte le nazioni costiere, compreso l’Iran, e dopo i viaggi del ministro degli Esteri Sergei Lavrov in Algeria, Bahrain, Oman , e l’Arabia Saudita, dove ha incontrato tutti i suoi omologhi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC).

Il momento di Mosca

Quindi vediamo la diplomazia russa intrecciare con cura il suo arazzo geopolitico dall’Asia occidentale all’Asia centrale, con tutti e il suo vicino desiderosi di parlare e ascoltare Mosca. Allo stato attuale, l’intesa cordiale Russia-Turchia tende a propendere per la gestione dei conflitti ed è forte nelle relazioni commerciali. Iran-Russia è un gioco completamente diverso: molto più di una partnership strategica.

Non è quindi una coincidenza che la National Oil Company of Iran (NIOC), in programma per il vertice di Teheran, abbia annunciato la firma di un accordo di cooperazione strategica da 40 miliardi di dollari con la russa Gazprom. Questo è il più grande investimento estero nella storia dell’industria energetica iraniana, estremamente necessario dall’inizio degli anni 2000. Sette accordi del valore di quattro miliardi di dollari si applicano allo sviluppo dei giacimenti petroliferi; altri si concentrano sulla costruzione di nuovi gasdotti di esportazione e progetti di GNL.

Il consigliere del Cremlino Yury Ushakov ha deliziosamente fatto trapelare che Putin e il leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, nel loro incontro privato, “hanno discusso di questioni concettuali”. Traduzione: significa grande strategia, come nel complesso e in evoluzione del processo di integrazione dell’Eurasia, in cui i tre nodi chiave sono Russia, Iran e Cina, che ora intensificano la loro interconnessione. Il partenariato strategico Russia-Iran rispecchia ampiamente i punti chiave del partenariato strategico Cina-Iran…

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Russia-Ucraina. La guerra potrebbe durare anni tra obiettivi russi, muro ucraino e interessi Usa – Danilo Della Valle

Sono ormai trascorsi più di 4 mesi dal 24 Febbraio 2022, data di inizio della guerra “russo-ucraina” e, di pari passo, del confronto sul campo tra Mosca e l’Occidente. Dopo un primo periodo di smarrimento delle opinioni pubbliche mondiali e degli analisti sulle mire della Russia, pian piano il quadro si fa più chiaro. Nel frattempo a Mosca e Kiev le rispettive propagande fanno il proprio lavoro, “egregiamente”, da un lato raccontando l’imminente avanzata russa, senza alcun tipo di difficoltà, per difendere il “russkii mir” (il mondo russo), dalla parte di Kiev si racconta di un quasi collasso russo, a corto di provviste e armi, di una quasi pronta controffensiva ucraina per riprendersi tutti i territori conquistati dalla Russia, Crimea compresa, e varie altre storie più o meno “fantasiose”, riprese anche dalla stampa occidentale.

A proposito della stampa occidentale, dall’inizio del conflitto gran parte dei media hanno scelto più che di raccontare la guerra di propagandare le veline di Kiev, di fatto comportandosi come informazione di Paese in guerra. Eppure se nelle prime fasi della guerra, a prescindere dalle posizioni politiche, la narrazione era tutta concentrata su assunti di dubbia provenienza, tipo quelli secondo cui la Russia avesse scorte per soli tre giorni o che l’Ucraina sarebbe potuta arrivare fino in Russia infliggendo sconfitte su sconfitte a Mosca, oggi, pian piano, si sta scoprendo che al contrario la guerra di logoramento russa, fatta per lo più di artiglieria, una delle più potenti al mondo, rosicchia giornalmente pezzetti di territorio ucraino, soprattutto nella parte del sud est e nel Donbass, obiettivo minimo, secondo molti, dichiarato da Putin.

Per capire meglio il conflitto in atto sono almeno due gli scenari da analizzare: Il primo è sicuramente quello geopolitico.

Questo è un punto da cui si deve partire per capire bene quel che accade oggi. Alla caduta dell’Unione Sovietica e con la fine del bipolarismo si aprì inevitabilmente una nuova fase sia per la Federazione Russa che per il mondo intero. Dal punto di vista della politica interna la Russia, e tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico, si trovarono a transitare verso una economia di mercato (con tutti i pro, per pochi, e contro, per tanti) e una transizione molto più veloce del solito al sistema “democratico”, senza alcun passaggio intermedio. Fu una fase difficilissima per la Russia anche dal punto di vista geopolitico che di fatto perse il suo ruolo storico di “potenza”. Mentre in un primo momento diversi analisti statunitensi si chiedevano se fosse necessario pensare a favorire uno sfaldamento della Federazione Russa in tante repubbliche, facendo leva sulle spinte separatiste di alcune regioni del Caucaso e di alcune minoranze etniche(tesi ripresa a Varsavia nel Maggio 2022 durante il forum delle libere nazioni di Russia), alla fine si optò per cercare di integrare la Russia nel mondo Occidentale con un ruolo molto più marginale. Tuttavia la Russia non fu mai integrata a pieno regime nell’Occidente liberale e fu relegata sempre ad un ruolo secondario, trattata con una visibile diffidenza. Eppure con la vicina Europa la Federazione russa ha cercato, tra alti e bassi, punti di incontro politico ed economico, con l’Accordo per la partnership e la cooperazione (PCA), entrato in vigore già nel 1997, che prevedeva due vertici all’anno e un Comitato per la cooperazione. Dal 2003 poi anche con un Consiglio permanente per la partnership, di carattere prevalentemente politico.

Con la Russia degli anni novanta e inizio duemila relegata senza troppe possibilità di reagire ad un ruolo secondario nello scacchiere internazionale, l’espansione della Nato è stato sicuramente un fattore importante, non l’unico, nel mantenere alta la tensione nella zona. Già nel 1993 l’allora Presidente russo Boris Eltsin, grande amico degli Stati Uniti, aveva ammonito il suo omologo statunitense, Bill Clinton, di come dalle parti del Cremlino si stessero preoccupando per le intenzioni di Polonia e Repubblica Ceca di aderire alla Nato. Proprio a proposito della Nato Il 20 Giugno 1997 l’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, all’epoca senatore, dichiarava[1]

“Se mai esistesse qualcosa in grado di stravolgere i rapporti fra NATO e Russia, provocando una reazione vigorosa e ostile, non intendo per forza militare, questo sarebbe l’ammissione dei Paesi Baltici nella NATO”. Dalla dichiarazione dell’attuale Presidente all’effettività della stessa passò poco tempo. Il 24 Febbraio 2022 il quotidiano tedesco Der Spiegel in un articolo “ha ragione Putin?” [2] poneva l’accento sul fatto che vi fossero accordi tra Usa e Urss affinché la Nato non avesse cercato l’espansione ad est. A tal proposito, come riporta Sergio Romano nel suo “atlante delle crisi mondiali”, è utile la testimonianza dell’ex ambasciatore Usa in Urss Jack Matloch, che in un’intervista rilasciata nel 2007 al Corriere della Sera si espresse così sulle famose “promesse” mai trascritte dell’Occidente all’allora Unione Sovietica: “Quando ebbe luogo la riunificazione tedesca, noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – io ero presente – che se la nuova Germania fosse entrata nella Nato non avremmo allargato l’Alleanza agli ex Stati satelliti dell’Urss nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la parola. Peggio: promettemmo anche che la Nato sarebbe intervenuta solo in difesa di uno Stato membro, e invece bombardammo la Serbia per liberare il Kosovo che non faceva parte dell’Alleanza”. [3]

La situazione poi è pian piano cambiata negli anni 2000. Il primo Putin aveva sempre puntato ad una Russia “parte della famiglia europea”, ispirandosi pur tra tante difficoltà interne al tipo di sviluppo classico del capitalismo liberista, con tutti i pro, per pochi, e contro per tanti, e cercando di prendere un “posto al sole” per la Russia nello scacchiere internazionale occidentale. Significava quindi accettare il nuovo ordine venuto fuori dalla fine della Guerra Fredda. Tutto cambiò repentinamente nel 2008 dopo che per diverso tempo le richieste russe furono quasi del tutto ignorante.

L’avvertimento finale all’Occidente il presidente russo Putin lo lanciò nel febbraio 2008, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, ammonendo la visione del mondo “unipolare” e l’allargamento della Nato e criticando l’approccio “unilaterale” degli Usa sulle maggiori questioni dell’agenda mondiale. Putin di fatto avvertì che la Russia aveva delle linee rosse (Ucraina, Bielorussia e Georgia). Ecco, da Monaco in poi la Russia ha ripreso attivamente ad avere una politica estera volta a prendersi un posto da superpotenza nel mondo multipolare che si andava costituendo, di tanto in tanto intervenendo anche nei conflitti regionali come in Africa, Siria e/o nelle sue zone di influenza più vicine come Georgia e Donbass, probabilmente tornando a sognare “un ritorno al grande Impero o alla superpotenza di un tempo”. Inoltre dopo un certo periodo di avvicinamento della Russia all’Europa, con la guerra in atto, il Cremlino sta via via dirottando tutte le sue partnership a Oriente e verso i Brics, che nonostante non abbiano obiettivi politici e strategici totalmente comuni, se non quello della de-dollarizzazione dei mercati finanziari, continuano ad essere attrattivi per altri Paesi che chiedono di entrare a far parte del gruppo, come ultimamente hanno fatto Argentina e Iran…

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RIBELLARSI È GIUSTO – Raniero La Valle

Draghi è stato avvertito: Zelensky non gradisce che una crisi di governo in Italia disturbi l’incessante flusso di armi all’Ucraina né, come dice il suo consigliere Podolyak, “la tradizionale lotta politica interna nei Paesi occidentali” (cioè la democrazia) “deve intaccare l’unità nelle questioni fondamentali della lotta tra il bene e il male”, ovvero mettere in dubbio la  suddetta “fornitura d’armi all’Ucraina”. E anche Johnson lascia a desiderare.  Perciò dobbiamo aspettare che domani la sorte del governo Draghi sia decisa non sui nostri colli fatali ma là dove si giocano le sorti delle nostre Costituzioni democratiche e della stessa pace del mondo, dal momento che le abbiamo messe nelle mani delle attuali tragiche star della guerra e del potere.
Aspettare non vuol dire tuttavia obbedire. È bene perciò accorgersi di un altro avvertimento “molto molto importante”, come scrive Enrico Peyretti. “Per la prima volta un papa invita a rifiutare di fare la guerra per ragioni morali, di coscienza. Non solo condanna la guerra (‘inutile strage’), ma chiede – non ai governanti, ma ai soldati – di non farla, di disobbedire! Rivoluzione di Francesco contro la politica, anche democratica, che ha l’omicidio di massa tra i suoi mezzi regolari. Chiede ai giovani di boicottare, di disobbedire, di far fallire i governi di guerra”.
È davvero una novità? Se lo è, lo è tuttavia in quanto detta da un papa, non in quanto iscritta nel Vangelo da secoli, ed adempiuta anche oggi. E appunto in questo messaggio rivolto il 6 luglio alla Conferenza Europea dei Giovani riunitasi a Praga, papa Francesco ha portato ad esempio l’obiezione di coscienza fatta nel 1943 da un giovane austriaco, di cui è ancora molto vivo il ricordo in Alto Adige,  a cui il nostro Francesco Comina ha dedicato un libro molto bello pubblicato dalla EMI. “Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter. Il primato della coscienza”. Ha scritto il Papa: “Vorrei invitarvi a conoscere una figura straordinaria di giovane obiettore, un giovane europeo dagli ‘occhi grandi’, che si è battuto contro il nazismo durante la seconda guerra mondiale, Franz Jägerstätter, proclamato ‘beato’ dal papa Benedetto XVI. Franz era un giovane contadino austriaco che, a motivo della sua fede cattolica, fece obiezione di coscienza di fronte all’ingiunzione di giurare fedeltà a Hitler e di andare in guerra. Franz era un ragazzo allegro, simpatico, spensierato, che crescendo, grazie anche alla moglie Francesca, con la quale ebbe tre figli, cambiò la sua vita e maturò convinzioni profonde. Quando venne chiamato alle armi si rifiutò, perché riteneva ingiusto uccidere vite innocenti. Questa sua decisione scatenò reazioni dure nei suoi confronti da parte della sua comunità, del sindaco, anche di familiari. Un sacerdote tentò di dissuaderlo per il bene della sua famiglia. Tutti erano contro di lui, tranne sua moglie Francesca, la quale, pur conoscendo i tremendi pericoli, stette sempre dalla parte del marito e lo sostenne fino alla fine. Nonostante le lusinghe e le torture, Franz preferì farsi uccidere che uccidere. Riteneva la guerra totalmente ingiustificata. Se tutti i giovani chiamati alle armi avessero fatto come lui, Hitler non avrebbe potuto realizzare i suoi piani diabolici. Il male per vincere ha bisogno di complici. Franz Jägerstätter venne ucciso nella prigione dove era rinchiuso anche il suo coetaneo Dietrich Bonhoeffer, giovane teologo luterano tedesco, antinazista, che fece anch’egli la stessa tragica fine”.
Non a caso papa Francesco ha innestato questo ricordo nella serie delle guerre mondiali combattute in Europa, compresa quella presente  che si aggiunge “ai numerosi conflitti in atto in diverse regioni del mondo”. Cari giovani – ha scritto –  “mentre voi state svolgendo la vostra Conferenza, in Ucraina – che non è UE, ma è Europa – si combatte una guerra assurda… L’idea di un’Europa unita è sorta da un forte anelito di pace dopo tante guerre combattute nel Continente, e ha portato a un periodo di pace durato settant’anni. Ora dobbiamo impegnarci tutti a mettere fine a questo scempio della guerra, dove, come al solito, pochi potenti decidono e mandano migliaia di giovani a combattere e morire. In casi come questo è legittimo ribellarsi!”
Ribellarsi, ma con la forza di quale cultura? Nel rivolgere ai giovani questo invito a ribellarsi e a resistere, papa Francesco ha fatto riferimento al “Patto educativo” che, come ha detto,  è “un’alleanza lanciata nel settembre 2019 tra gli educatori di tutto il mondo per educare le giovani generazioni alla fraternità”. Dinanzi all’attuale corso degli eventi Francesco, come se fosse in crisi di speranza storica (non certo di quella teologale) ha fatto dunque appello all’educazione, alla costruzione di un pensiero; egli sembra dire ai giovani: se voi non cambiate cultura, se non rimettete in gioco le categorie politiche, antropologiche, sociali che ci hanno portato fin qui, se non rifondate il diritto, se non cambiate le visioni del mondo che lo  pensano come frammentato, diviso e nemico, se non rovesciate l’egemonia della guerra, se non andate a scuola di giustizia e fraternità, sarete in balia di menzogna e violenza, sarete preda di regimi spietati, di pulsioni di guerra e di dominio, non potrete costruirvi il futuro che sognate, non avrete futuro. Ed aggiunge che bisogna educare tutti a una vita più fraterna, basata non sulla competitività ma sulla solidarietà, cambiare sistema: ”La vostra aspirazione maggiore, cari giovani, non sia quella di entrare negli ambienti formativi d’élite, dove può accedere solo chi ha molto denaro. Questi istituti hanno spesso interesse a mantenere lo status quo, a formare persone che garantiscano il funzionamento del sistema così com’è. Vanno apprezzate piuttosto quelle realtà che uniscono la qualità formativa con il servizio al prossimo, sapendo che il fine dell’educazione è la crescita della persona orientata al bene comune. Saranno queste esperienze solidali che cambieranno il mondo, non quelle “esclusive” (ed escludenti) delle scuole d’élite. Eccellenza sì, ma per tutti, non solo per qualcuno”.
Questo è il lascito di papa Francesco. Obiettare, ribellarsi, resistere. Ma non per una trasgressione, bensì per una più alta obbedienza. L’Italia è andata più avanti degli altri su questa strada, e se il Costarica, in America Latina, è il primo Paese che ha abolito l’esercito, l’Italia è il primo Paese in tutto l’Occidente con tutte le sue Costituzioni che l’obiezione di coscienza l’ha chiamata “obbedienza alla coscienza”. Così essa è definita infatti nella legge dell’8 luglio 1998 sulla riforma dell’obiezione di coscienza che dice, al suo primo articolo: “I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, (…), opponendosi all’uso delle armi, non accettano l’arruolamento nelle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato, possono adempiere gli obblighi di leva prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria e ordinato ai fini enunciati nei Principi fondamentali della Costituzione”. Quando nel gennaio 1992 riuscimmo a introdurre nella nuova legge sull’obiezione di coscienza questa formulazione, la cosa apparve tanto scandalosa che il presidente della Repubblica Cossiga si rifiutò di firmarla e la rinviò alle Camere, che sciolse subito dopo; fu solo tre legislature più tardi, nella XIII, che in quella identica formulazione la legge fu di nuovo approvata e promulgata; e fu per esorcizzare quel primato della coscienza sulla obbedienza pronta ad uccidere che nel 2005 il potere militare e il governo Berlusconi abolirono l’obbligo stesso al servizio militare, non per licenziare la guerra, ma per metterla al riparo da rifiuti e critiche, per renderla insindacabile.   Il che vuol dire che la cultura funziona, l’educazione può rompere il conformismo, la forza delle idee può cambiare la politica.
È per questo che, pur nella guerra e nell’osanna alle armi e ai loro officianti, Costituente Terra continua a lottare per un altro sistema, un altro diritto.
Nel sito pubblichiamo il testo completo del messaggio ai giovani di papa Francesco.

 

TUTTE LE VIGNETTE DEL DOSSIER sono del “nostro” Benigno Moi  (tranne la prima che è di Mauro Biani).

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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