Palestina libera: aggiornamenti, lotte e analisi.

In questo dossier, articoli tratti da:

1 – Anbamed – notizie dal sudest del Mediterraneo: aggiornamenti sulla situazione in Palestina;

2  – Radio Onda d’Urto – aggiornamenti e lotte studentesche;

3 – da R/Project una intervista che inquadra la fase politica rivolta a Gilbert Achcar;

4 – l’analisi di Vanessa Bilancetti in tutta la sua attualità a distanza di un mese – Dinamo Press;

5 – la riflessione di Dario Salvetti sul movimento a distanza di un mese dalle grandi mobilitazioni.

tratto da Anbamed – Aps per la multiculturalità

Genocidio a Gaza

Bombardamento con l’artiglieria navale israeliana su Rafah. I droni sorvegliano i cieli della Striscia e lanciano missili contro i palestinesi accampati tra i ruderi di Gaza città. Un soldato israeliano ha postato sui social il video registrato dal drone, che stava comandando a distanza, mente lanciava un missile contro una famiglia di sfollati palestinesi. Il video è accompagnato da commenti razzisti e risate di scherno.

Una donna è stata uccisa a Gaza città da un drone israeliano, mentre stava cucinando un pasto per i figli.

La stampa israeliana riporta dichiarazioni di esponenti governativi che parlano della spartizione permanente di Gaza sulla linea gialla, disegnata sulle cartine del piano Trump. “La linea gialla sarà come il muro di Berlino”. Tradotto: l’occupazione israeliana di più della metà della Striscia sarà di lunga durata.

Il nostro commento quotidiano fisso: Ci sono ancora coloro che obiettano che non si tratti di genocidio, basandosi su congetture storiche e non guardando la realtà delle cifre e delle intenzioni, dicono: “Dire che Israele commette genocidio è una bestemmia”.

Pronunciare una frase simile è la vera bestemmia nei confronti della memoria dei sei milioni di ebrei assassinati dal nazismo tedesco.

Situazione umanitaria a Gaza

La pioggia ha allagato metà dei campi di sfollati. Un milione di persone si sono trovate con i materassi sotto il livello dell’acqua e pentole e piatti galleggianti. Un terzo delle tende a Mawassi è crollato sulla testa degli sfollati. La protezione civile è incapace di intervenire a causa della distruzione dei macchinari da parte dell’esercito israeliano e il divieto di farne entrare dei nuovi. I volontari intervengono con mezzi rudimentali di fortuna, che non risolvono i danni. Scene di panico e di crisi isteriche di mamme e bambini. Un piano scientificamente previsto e studiato dai criminali generali israeliani, quando avevano vietato l’ingresso di tende, casette prefabbricate e persino coperte e vestiti invernali.

Cisgiordania

Due giovani palestinesi sono stati colpiti dalle pallottole dell’esercito di occupazione a Barqeen, vicino a Jenin. Un altro ferito a Beit Foreik, a Nablus. Sono stati registrati nella giornata di ieri 23 attacchi militari israeliani contro città e villaggi palestinesi, con rastrellamenti di attivisti e militanti: 62 arresti, compresi molti minorenni.

Le aggressioni dei coloni ebrei israeliani sono state ieri 17. Non erano opera di gruppi estremisti, ma un piano governativo per la deportazione di massa dei palestinesi dalle loro terre.

Onu

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si accinge a votare lunedì la bozza di risoluzione, proposta dagli Usa, sulla situazione a Gaza. La bozza prevede la creazione di un cosiddetto “Consiglio di pace” della durata di 2 anni. Un mandato di stampo coloniale che riduce i palestinesi a individui senza diritti nazionali e garantisce ad Israele un’occupazione permanente della metà di Gaza. Egitto e Turchia hanno preteso ritocchi alla versione iniziale, che era stata presentata dalla Casa Bianca con la clausola “prendere o lasciare”. Le richieste si sono concentrate soprattutto sulla soluzione dei due stati e sul ritiro israeliano. La propaganda di Washington ha diverse volte minacciato che la mancata approvazione della risoluzione avrebbe significato il crollo dell’accordo di cessate-il-fuoco. Una logica imperialista: o si fa come dico io oppure scateno il mio cane di guardia nella regione, Israele.

Nel Consiglio di sicurezza però ci sono due paesi con il diritto di veto, Russia e Cina. Soprattutto Pechino ha frenato le follie di Trump, annunciando il suo dissenso.

Per dribblare le resistenze al piano, l’inviato speciale Usa, Witkoff, ha fatto trapelare alla stampa Usa un suo possibile incontro con un rappresentante di Hamas, Al-Hayya. Giocare sulle divisioni palestinesi, per dominare il M.O.

Trump ha detto che auspica l’ingresso dell’Arabia Saudita negli accordi di Abramo. “discuteremo la fornitura dei caccia F-35 a Riad durante l’incontro con l’emiro Mohammed Bin Salman, la prossima settimana”.

Ue

L’Unione europea si accinge ad approvare l’addestramento di 3 mila agenti palestinesi per il controllo di Gaza. Senza riconoscere lo Stato di Palestina, si compie un lavoro al servizio della politica israeliana e statunitense. La visita del presidente dell’ANP, Abbas, a Parigi ha avuto il compito di far scegliere gli elementi da addestrare all’autorità di Ramallah. Un passo contrastato da Tel Aviv, che sta già organizzando le sue milizie collaborazioniste a Gaza.

Libertà per Marwan Barghouti

Si è tenuta la prima riunione organizzativa per avviare la campagna italiana in favore della liberazione dei prigionieri politici palestinesi e in particolare mettere fine alle torture e maltrattamenti. Al centro di tale campagna vi è l’obiettivo di salvare il Mandela palestinese, Marwan Barghouti, da 23 anni in carcere.

BDS

L’Italia è il terzo paese esportatore di armi in Israele. Rapporto ONU: clicca

 

tratto da “fuori onda”, newletter di Radio Onda d’Urto

PALESTINA – L’inviato speciale Usa in Medio oriente, Steve Witkoff, incontrerà il capo negoziatore di Hamas, Khalil al-Hayya, per parlare del cessate il fuoco a Gaza. L’incontro dell’inviato di Trump sarebbe il primo di cui si ha notizia tra la Resistenza Palestinese e gli Usa, mentre Israele viola sistematicamente la tregua: oggi altre due vittime palestinesi. In un mese di cosiddetto cessate il fuoco, sono 284 i morti palestinesi, con 700 feriti e gli aiuti umanitari ancora bloccati da Tel Aviv. Durissime le condizioni della popolazione, sferzata anche dall’arrivo della brutta stagione; oggi sott’acqua le esili tende (ne mancano 450mila) in cui devono vivere i palestinesi, invase da pioggia e liquami, dato che Tel Aviv ha distrutto il sistema fognario, unendo la carestia al rischio di epidemie. Oggi abbiamo raccolto la testimonianza, da Gaza, di Sami Abu Omar, nostro storico collaboratore dalla Striscia.

In Cisgiordania 2 bambini palestinesi sono stati uccisi nella città di Beit Ummar, a nord di Hebron, dalle forze di occupazione israeliane, che hanno poi sequestrato i loro corpi e dichiarato l’area una zona militare chiusa. L’esercito israeliano ha dichiarato pure Burin, villaggio nel nord della Cisgiordania, zona militare chiusa, poco prima dell’arrivo di centinaia di attivisti nowar israeliani intenzionati ad aiutare i palestinesi nella raccolta delle olive. Esercito e polizia hanno fermato 7 autobus degli attivisti di Peace Now diretti al villaggio.

Sul fronte della solidarietà al popolo palestinese, stamattina (ieri, n.d.r.) a Brescia si è svolto un incontro tra la delegazione del Coordinamento Palestina e i vertici Coop a seguito della manifestazione di domenica scorsa che denunciava la commercializzazione dei prodotti israeliani anche nel punto vendita di via Sorelle Ambrosetti. Com’è andata? Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto l’ha spiegato Umberto Gobbi, del Coordinamento Palestina di Brescia: se vuoi ascoltare clicca qui.


SCUOLA – Contro l’escalation bellica, per la Palestina e non solo, oggi sciopero studentesco in decine di città italiane, organizzato da Uds, collettivi studenteschi autonomi, Osa, Cambiare Rotta e il movimento Fridays For Future, per denunciare “una situazione drammatica per la scuola, con investimenti a pioggia nell’economia bellica e poco o nulla per formazione, istruzione, cultura”. È stata anche definita come “No Meloni Day” la giornata di oggi, con il blocco non solo di scuole, ma anche di Università, con scioperi, presidi e manifestazioni davanti ai principali atenei italiani.

Tra i cortei più combattivi quello di Bologna; qui cariche di polizia per bloccare il corteo arrivato a metà del ponte di San Vitale, a pochi passi cioè dall’assemblea dei sindaci dell’Anci. Dentro la Fiera “presenti diversi esponenti – spiegano CAS e HubAut Bologna – dell’esecutivo Meloni”: tra loro il ministro degli Esteri Tajani e Piantedosi, ministro dell’Interno. Da Bologna il resoconto della mattinata di Federico, della nostra redazione emilianoromagnola:

Migliaia in marcia a Torino, dove sono stati bloccati alcuni binari delle stazioni di Porta Nuova e Porta Susa. Sempre nel capoluogo piemontese un pezzo di corteo è entrato dentro la sede della Città Metropolitana, fino all’arrivo della polizia, che li ha buttati fuori, fermando 2 giovani, poi rilasciati; altri sono rimasti contusi dalle manganellate. Su questo abbiamo sentito Omar, del Kollettivo Autonomo Studentesco:

A Brescia, città dalla quale trasmettiamo, duecento studenti e studentesse hanno sfilato da piazzale Cesare Battisti alla Prefettura in Piazza Paolo VI percorrendo tutta via San Fustino dietro lo striscione “Riprendiamoci la scuola! Contro l’educazione dei padroni”. Cortei poi anche a Milano, Napoli, Bari, Cagliari, Treviso, Palermo, Firenze, Venezia e Roma. Tutte le corrispondenze e le voci raccolte dalla redazione di Radio Onda d’Urto le trovate qui.

 

LA NUOVA GUERRA FREDDA E I SUOI PERICOLI

 

Introduzione

La nuova guerra fredda e i suoi pericoli

Rodrigo Utrera: Innanzitutto, Gilbert, ti ringraziamo per il tempo che ci hai concesso per queste conversazioni sulla mutazione della guerra nel XXI secolo, in particolare per la tua conoscenza del Medio Oriente e del Nord Africa, nell’ambito del tuo lavoro sulle relazioni internazionali. Per prima cosa, abbiamo alcune brevi domande per introdurre la conversazione.

Gilbert Achcar: Di niente.

RU: Se introduciamo una visione globale del problema, è importante comprendere la strategia imperialista in questo contesto. La guerra tra Russia e Ucraina e la competizione commerciale tra Cina e Stati Uniti hanno generato in molte persone nel mondo l’idea di una crisi terminale dell’imperialismo statunitense. Alcuni più ottimisti hanno sostenuto l’iniziativa BRICS, che si è già allargata a nuovi Paesi. E altri, come ad esempio Michael Roberts (1) , hanno criticato il ritorno del campismo a sinistra. Quindi, la domanda è come definisci il confronto tra Paesi potenti in questo momento. Pensi che si tratti di un confronto inter-imperialista? È una nuova guerra fredda? Questa è la nostra domanda di partenza.

GA: Innanzitutto, è importante sottolineare che non ha molto senso parlare di crisi terminale dell’imperialismo statunitense. L’imperialismo statunitense è purtroppo tutt’altro che morto. Quello che sta accadendo è una mutazione dell’imperialismo statunitense. Sta finendo quello che io chiamo l’ordine liberale atlantista che si è formato dopo la Seconda guerra mondiale. E le sue istituzioni governative come la NATO, i trattati tra Washington e il Giappone, Washington e la Corea del Sud. Questo ordine liberale internazionale era presumibilmente costruito su regole, ma si è sempre trattato di una grande menzogna, perché le potenze occidentali non hanno mai davvero rispettato alcuna regola, se non le proprie, soprattutto gli Stati Uniti. Quindi, quello che abbiamo visto è l’inizio del collasso di questo ordine liberale internazionale, di questo liberalismo atlantista. E questo non inizia con Donald Trump, contrariamente a quanto molti credono. Biden e la guerra a Gaza sono stati un momento chiave, soprattutto per l’enorme contrasto tra l’atteggiamento degli Stati Uniti verso l’Ucraina e quello verso Gaza. Questo ha mostrato nel modo più crudo possibile l’ipocrisia e l’incoerenza del cosiddetto liberalismo atlantico. Si poteva dire che gli Stati Uniti difendevano un governo relativamente liberale in Ucraina contro un regime russo che poteva essere definito neofascista. Ma poi gli stessi Stati Uniti hanno appoggiato pienamente una guerra genocida condotta da una coalizione di neofascisti e neonazisti in Israele. Questo è il vero carattere del governo israeliano. È una coalizione di neofascisti, del Likud e di neonazisti, come Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e altri. Questa enorme contraddizione è stata il chiodo finale del liberalismo atlantista e dell’intero cosiddetto ordine liberale internazionale. Trump sta portando questo processo all’estremo, alla conclusione logica finale, sbarazzandosi di qualsiasi pretesa di liberalismo. Trump non ha alcuna pretesa di essere liberale, a favore dei diritti umani o altro. L’ideologia del “mondo libero” della Guerra Fredda è molto lontana da Donald Trump. Non gli importa nulla della libertà o meno. In realtà, la sua amministrazione sostiene apertamente l’estrema destra internazionale, da Milei, a Bolsonaro, a Narendra Modi, a ovviamente tutti i neofascisti europei.

Si tratta di un’enorme mutazione storica, assolutamente enorme. A mio avviso, è persino più importante della fine della Guerra Fredda. Perché c’è stata la fine della Guerra Fredda, seguita poi da una nuova Guerra Fredda per venticinque anni. Ma ora stiamo entrando in una completa riconfigurazione delle relazioni internazionali. Siamo entrati in quella che ho definito l’era del neofascismo. Come negli anni Trenta c’è stata l’epoca del fascismo, ora siamo in un’epoca di neofascismo, che è peggiore perché oggi la più importante potenza imperialista è alla guida della coalizione neofascista. Negli anni Trenta, gli Stati Uniti erano il baluardo contro l’ascesa del fascismo. Difendevano il liberalismo, se volete, con gli inglesi. Ora questo è morto. È completamente morto come ruolo degli Stati Uniti, e questo ha conseguenze enormi in ogni campo: politico, ideologico ed ecologico, perché queste persone sono molto negazioniste del clima e favorevoli ai combustibili fossili. Questa è la situazione in cui ci troviamo ora.

RU: A proposito di qualcosa che hai menzionato. Abbiamo alcune domande perché  hai scambiato alcune opinioni sulla crisi con un altro marxista britannico, Alex Callinicos. Egli parla di una nuova era di catastrofe. (2) In quest’ottica, sappiamo che il marxismo rivoluzionario ha qualche difficoltà a caratterizzare la fase in cui viviamo nel XXI secolo. Quindi, la domanda è: cosa pensi del concetto di nuova era che Callinicos descrive, e pensi che questa nuova era arrivi dopo la pandemia di Covid-19 o che abbia avuto origine molto tempo fa? Inoltre, pensi che quest’era abbia alcuni punti in comune con l’era della guerra e delle rivoluzioni pronunciata da Lenin nel 1914?

GA: Innanzitutto, l’età della catastrofe è una formula retorica. Non caratterizza politicamente ciò che sta accadendo. Certo, stiamo affrontando molte catastrofi, giusto? Clima, pandemie, ecc. Ci sono molti problemi enormi che il pianeta deve affrontare oggi. Ma chiamarla “nuova era della catastrofe” è una scelta letteraria dell’autore. Quando parlo di età del neofascismo, intendo qualcosa che inizia davvero con la seconda presidenza Trump, come culmine di un processo che si è sviluppato nell’arco di vent’anni. Il punto chiave è l’ascesa delle forze di estrema destra, dei governi di estrema destra, dei regimi di estrema destra e la loro convergenza, la convergenza tra di loro. Come possiamo vedere, anche tra Trump negli Stati Uniti e Putin in Russia. Perché Trump e la sua amministrazione hanno più affinità ideologiche con Vladimir Putin di quante ne abbiano con Zelensky o con i governi liberali europei di Francia, Germania, Gran Bretagna e simili. Questo è il punto chiave che dobbiamo comprendere. E per quanto riguarda la guerra e la rivoluzione, ad essere sinceri, purtroppo non siamo in un’epoca di guerra e rivoluzione. Siamo in un’epoca di guerra senza rivoluzione. Non c’è nessuna rivoluzione all’orizzonte. Dobbiamo essere chiari.

RU: Forse è più simile alla situazione degli anni ’30?

GA: No, perché negli anni Trenta o nel 1914, come lei ha ricordato, con la famosa analisi su guerra e rivoluzione, c’era un enorme movimento operaio ancora socialista. C’erano socialdemocratici, persone che in seguito si sono definite comuniste, ma avevano in comune il fatto di essere forze operaie anticapitaliste, ed erano forze molto grandi. Quando c’è stata la guerra, si è assistito all’ascesa di queste forze e soprattutto alla rivoluzione russa, a quella tedesca, a quella ungherese e ad altre rivolte. Negli anni Trenta c’è stata l’ascesa del fascismo, ma di fronte al fascismo c’è stato il movimento comunista, guidato dall’Unione Sovietica, e c’è stato uno scontro tra i due. Certo, c’è stato un breve periodo di tregua tra loro, tra il 1939 e il 1941, ma fondamentalmente erano in feroce opposizione. Il movimento comunista, in tutto il mondo, riuscì a crescere enormemente durante la Seconda guerra mondiale, arrivando a prendere il potere in Cina, Vietnam e Corea, mentre in molti Paesi europei i partiti comunisti divennero enormi e giocarono un ruolo chiave nella politica. Quindi non c’è modo di paragonare la situazione di oggi, purtroppo, a quella. Il movimento operaio è più debole che mai, intendo quello organizzato. Questo si traduce anche in tassi di sindacalizzazione molto bassi nella maggior parte dei Paesi. Non ci sono potenti partiti della classe operaia. La maggior parte della sinistra è entrata completamente in una mutazione neoliberale e questo vale anche per la socialdemocrazia. Altri non sono stati in grado di rinnovarsi, di adattarsi alla nuova era, al nuovo secolo, alle nuove condizioni. Non hanno davvero tratto le lezioni dal crollo dello stalinismo e tutto il resto.

C’è un’apprezzabile crescita dei movimenti giovanili sull’ecologia, sul genere, sulla politica dell’identità, sull’antirazzismo, ma guardate la differenza tra questo e il 1968, quando c’erano ovunque enormi movimenti studenteschi guidati da marxisti. Oggi il movimento giovanile non è marxista. Dobbiamo affrontare la verità. Quindi, da questo punto di vista, ho spiegato che, in qualche modo, l’attuale epoca del neofascismo è ancora più pericolosa di quella precedente. Perché l’equilibrio delle forze è peggiore di quanto non fosse persino negli anni Trenta. L’ho scritto nel mio articolo sull’era del neofascismo. (3) Forse è improbabile che ci sia una nuova guerra mondiale, ma l’impatto del neofascismo sulla crisi climatica globale, che è una delle principali minacce per l’umanità, è enorme. Per non parlare di tutte le altre regressioni che stanno avvenendo. Basta guardare a ciò che gli Stati Uniti stanno facendo in termini di taglio degli aiuti, spingendo milioni di persone nella povertà. Siamo quindi in un’epoca molto pericolosa e dobbiamo esserne consapevoli.

Naturalmente, la speranza è che la nuova generazione, i giovani, siano in grado di costruire movimenti di massa, nuovi movimenti anticapitalisti, che possano affrontare tutte queste lotte in modo intersezionale.  Prendiamo le questioni di razza, genere e clima e le combiniamo con la prospettiva di classe, la prospettiva anticapitalista. Ma la verità è che l’equilibrio delle forze oggi è piuttosto debole. Ci sono alcuni segnali incoraggianti, come la resistenza di massa in Turchia alla svolta neofascista di Erdogan. Dovremo vedere chi vincerà: il movimento di massa o questo regime neofascista? Sono segnali incoraggianti, ma siamo ancora lontani dall’emergere del tipo di movimento necessario per reagire, sconfiggere il neofascismo e portare avanti la lotta contro il capitalismo.

Scontro di barbarie e rivolte arabe nel XXI secolo

Comprendere l’imperialismo e la controrivoluzione in Medio Oriente

RU: Ora che abbiamo un punto di vista globale, vogliamo passare alla questione dell’imperialismo e della controrivoluzione in Medio Oriente. In particolare su un concetto che usi nelle tue opere, perché è molto interessante per noi. Esso descrive il confronto tra due forze: la prima, l’imperialismo, e la seconda, le forze fondamentaliste che, in molti casi, hanno origine dall’imperialismo stesso. Stiamo parlando del concetto di scontro tra barbarie. Può spiegarci questo concetto? Inoltre, un aspetto importante: quando definisce l’elemento del fondamentalismo islamico, stai considerando solo i movimenti jihadisti sunniti o stai parlando anche dei movimenti khomeinisti sostenuti dall’Iran?

GA: Ho scritto il mio libro “Lo scontro tra barbarie” all’indomani dell’11 settembre 2001. Si trattava in un certo senso di una contro-tesi a quella di Huntington sullo scontro di civiltà. (4) Quello che spiegavo nel libro è che non si trattava di uno scontro di civiltà, ma della barbarie che ogni civiltà produce. Ogni civiltà produce un certo tipo di barbarie che in tempo di crisi può prendere il sopravvento. Questo è il modo in cui ho interpretato ciò che stava accadendo all’epoca tra la barbarie degli Stati Uniti (e la loro arroganza dopo il crollo dell’Unione Sovietica) e la contropartita di quella barbarie nella radicalizzazione islamica di forze politicamente e ideologicamente profondamente reazionarie. Naturalmente, nel caso di forze jihadiste come Al Qaeda o lo Stato Islamico (ISIS), penso che questo dovrebbe essere ovvio, ma la questione è più generale. Tutte le forze religiose fondamentaliste sono reazionarie e l’Islam non fa eccezione. Capiamo subito che le forze fondamentaliste cristiane sono reazionarie. Mi chiedo sempre perché alcuni occidentali di sinistra non riescano a capire che lo stesso vale per il fondamentalismo islamico. Tutti i fondamentalismi: ebraico, cristiano, islamico, induista, o altro. Per definizione, il fondamentalismo è un’ideologia reazionaria. Socialmente, culturalmente, ideologicamente, politicamente. Ed è quello che abbiamo.

Dieci anni dopo il 2001, nel 2011 è iniziata quella che è stata chiamata la Primavera araba. È stato il risultato di una profonda crisi socioeconomica strutturale in Medio Oriente e in Nord Africa, nei Paesi di lingua araba. Nella mia analisi, questa profonda crisi ha prodotto fin dall’inizio quello che ho definito un processo rivoluzionario a lungo termine. La regione è entrata in un processo a lungo termine di decenni. Ora, in questo processo si è verificata una particolarità. Non si trattava della solita rivoluzione contro la controrivoluzione. Era qualcosa di specifico: un triangolo di rivoluzione e due contro-rivoluzioni. Una controrivoluzione rappresentata dal vecchio regime, dai regimi esistenti, e un’altra controrivoluzione rappresentata da forze di opposizione di carattere reazionario. E questo ha complicato l’intero quadro. In questa parte del mondo, la sinistra si è storicamente atrofizzata. È piuttosto debole. Ha svolto un ruolo sproporzionato nel 2011. Poi c’è stata la seconda ondata della Primavera araba nel 2019 e anche in questo caso la sinistra ha avuto un ruolo sproporzionato, ma non è stato sufficiente per cambiare. Ecco perché c’è stato un fallimento storico fino ad oggi. Ma questo non significa che il processo rivoluzionario sia morto, perché finché ci sarà la crisi strutturale, la crisi del modo di produzione, il capitalismo specifico che esiste in questa parte del mondo, finché ci sarà questa crisi, produrrà nuove rivolte. Produrrà una nuova crisi. La grande domanda è se le nuove generazioni saranno in grado di costruire un movimento forte, capace di guidare il cambiamento sociale, economico e politico. È una sfida molto grande, ad essere sinceri. Non c’è motivo di essere ottimisti perché i regimi della regione sono feroci e sono sostenuti sia dall’imperialismo statunitense che dalla Russia. Questo rende la situazione molto difficile. Ma vediamo comunque, allora come oggi, l’ascesa di movimenti di massa. Il futuro è un grande punto interrogativo. Ma la crisi non si risolverà se non ci sarà un cambiamento radicale.

RU: Ora che abbiamo questo concetto, lo scontro tra barbarie, vogliamo approfondire una caratteristica delle guerre nel contesto arabo. La stampa occidentale a volte usa il concetto di guerra per procura. Potremmo dire che è di moda nel giornalismo mainstream. Possiamo definirlo, volgarmente, come un confronto in cui uno Stato utilizza una terza forza parastatale contro i suoi nemici. Una forza che il primo Stato ha addestrato e finanziato. Secondo la stampa mainstream occidentale, questa tecnica, questo metodo di confronto, è stato particolarmente diffuso nel mondo arabo negli ultimi decenni. La domanda è: come interpreti questo concetto, dal punto di vista dello scontro tra barbarie?

GA: Per quanto riguarda le guerre per procura, penso che il concetto sia riduttivo perché nega l’agenda degli attori locali. Rappresenta quindi gli attori locali come marionette, usate da attori stranieri. Ora, se per guerra per procura intendiamo il fatto che quando c’è una guerra in alcuni Paesi, subito dopo intervengono Stati stranieri a sostegno di una o dell’altra fazione, questo esiste sicuramente nella regione. Ad esempio, la guerra in Libia. Da una parte ci sono la Turchia e il Qatar che sostengono le forze di Tripoli, nella parte occidentale della Libia, e dall’altra la Russia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto che sostengono le forze a est, a Bengasi, guidate da Khalifa Haftar. Se prendiamo la guerra in Yemen, c’è stato l’intervento diretto del Regno Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nella guerra e l’Iran ha sostenuto l’altra parte, gli Houthi. Quindi si potrebbe anche dire che si tratta di una guerra per procura, ma ancora una volta è riduttivo. Queste guerre sono usate come una guerra per procura da questi Stati stranieri, ma c’è anche un’agenda locale degli attori che si scontrano. La guerra in Sudan è la stessa cosa. Da una parte ci sono gli Emirati Arabi Uniti e la Russia. Dall’altra parte ci sono l’Egitto e i sauditi. Recentemente sono cambiate le posizioni di questi Stati, soprattutto della Russia. È quindi normale che, ovunque ci sia una guerra civile, ci siano persone che intervengono a sostegno di una delle due fazioni. Se pensiamo alla guerra civile spagnola, c’erano le potenze dell’Asse, Italia e Germania, che sostenevano Franco. E gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna sostenevano il campo repubblicano, oltre naturalmente all’Unione Sovietica. Non si tratta quindi di una novità.

La tesi della guerra per procura è stata invocata soprattutto a proposito dell’Ucraina. Anche in questo caso, si trattava di una negazione delle agende. Se si dice che questa è solo una guerra per procura tra gli Stati Uniti e la NATO e dall’altra parte la Russia, si nega l’autorità degli ucraini perché è il loro Paese. Il loro Paese è stato invaso. Stanno combattendo un’invasione. E in un certo senso la visione russa dell’Ucraina è una visione coloniale. Nega persino il diritto dell’Ucraina di esistere come Stato. Quindi è vero che in parte questa guerra è stata una guerra tra la Russia e il blocco occidentale, ma c’è anche la lotta degli ucraini e qui faccio una distinzione. Penso che sia assolutamente giusto e corretto che si difendano e difendano la loro popolazione dall’aggressione russa. Ma allo stesso tempo, ovviamente, sostengo tutto ciò che può portare a una soluzione pacifica e non sono affatto nella logica del massimalismo nazionalista. Credo che questo tipo di massimalismo sia presente nel nazionalismo ucraino ed è sostenuto da alcuni Paesi europei come la Gran Bretagna. Si traduce nel sostegno al diritto degli ucraini di continuare a combattere fino alla liberazione di tutti i territori invasi dal 2014. Questo non ha senso. Significherebbe una guerra molto, molto lunga, molto costosa. Quindi bisogna trovare un equilibrio nella posizione in quella che è una questione complessa e non risolverla con formule semplicistiche.

RU: Hai citato alcuni punti interessanti, perché possiamo pensare che la guerra per procura sia un concetto riduttivo, in quanto la stampa occidentale dimentica che molto tempo fa, durante la Guerra Fredda, gli Stati imperialisti hanno utilizzato forze mercenarie in molti Paesi, ad esempio per combattere contro la rivoluzione cubana. Abbiamo il caso del Cile, dove gli Stati Uniti hanno finanziato molta stampa conservatrice, gruppi cospiratori e fascisti, ecc. Quindi, dico, non è una novità.

GA: Sì, assolutamente. E l’esempio del Cile che hai citato è molto calzante. Voglio dire, ovviamente gli Stati Uniti hanno sostenuto Pinochet. È risaputo. Ma questo significa che Pinochet era solo un burattino degli Stati Uniti e che non avrebbe agito senza il via libera degli Stati Uniti? No, non credo. Penso che lui e la parte dell’esercito profondamente reazionaria e contraria al governo avrebbero agito comunque, scommettendo sul sostegno degli Stati Uniti in caso di necessità. Quindi, ancora una volta, questa idea di guerra per procura può essere molto riduttiva e semplicistica, mentre dobbiamo comprendere la complessità della politica locale. Gli attori locali hanno i loro interessi e le loro aspirazioni, e lo stesso vale per gli attori stranieri che intervengono in questa situazione a sostegno di una parte o dell’altra.

RU: Esattamente. Vogliamo chiederti di un attore importante in Medio Oriente perché è molto interessante e alcune nuove generazioni di militanti di sinistra non conoscono l’origine del regime di quel Paese. Stiamo parlando della Repubblica Islamica dell’Iran. Qual è l’origine della Rivoluzione iraniana del 1979? Perché quell’evento ha influenzato molto il futuro del Paese? Come possiamo spiegare quella rivoluzione passata alla storia come una Rivoluzione islamica, sebbene abbia avuto un’importante partecipazione di un movimento operaio e anche di alcuni consigli dei lavoratori, noti come Shoras?

GA: Beh, questa è un’altra buona illustrazione di ciò che abbiamo discusso. L’Iran aveva accumulato sotto lo scià molti problemi sociali ed economici. E il Paese ha raggiunto una condizione esplosiva. Lì, in Iran, due forze in competizione parteciparono alla rivoluzione. Una era rivoluzionaria, il movimento operaio e la sinistra. L’altra era una forza controrivoluzionaria, il clero reazionario, guidato da Ruhollah Khomeini. Era un grande partito, perché in Iran c’era qualcosa come un mullah ogni 320 persone. Era un partito enorme. Che cosa è successo? Nel 1981 scrissi un articolo che tracciava un parallelo tra la rivoluzione russa e quella iraniana. In entrambi i casi, c’era un movimento di massa in parte spontaneo, non del tutto, ma in parte spontaneo, di protesta contro un regime che era diventato odiato dalla grande massa del popolo. Nel caso russo, poi, una forza, la più radicale, i bolscevichi, è riuscita a guidare il processo, a prenderne la guida e a trasformarlo in una rivoluzione anticapitalista. In Iran c’è stata una rivolta di massa, una situazione rivoluzionaria, ma la forza che è riuscita a guidare il processo è stato il clero reazionario che l’ha portato in una direzione reazionaria, verso l’istituzione di una teocrazia. Il regime iraniano è stato a lungo l’unico regime teocratico, a parte il Vaticano. Oggi ci sono i Talebani in Afghanistan e gli Houthi nello Yemen, regimi teocratici in cui il potere costituzionale è nelle mani dei religiosi, del clero. Anche in questo caso si tratta di un atteggiamento estremamente reazionario.  Ma ci sono quelli che io chiamo orientalisti al contrario, cioè persone che invertono l’orientalismo occidentale. Laddove l’orientalismo occidentale metteva i segni meno sull’Islam, ci sono persone, anche di sinistra, che invertono la tendenza e mettono i segni più su tutto ciò che è islamico.

Ora, questo regime teocratico è emerso come molto anti-americano perché gli Stati Uniti erano il principale finanziatore dello Scià, il regime precedente. Il regime khomeinista era un regime molto ideologico e settario sulla base dello sciismo, che è il ramo maggioritario dell’Islam in Iran. Prima è stato attaccato dall’Iraq, provocando otto anni di guerra che hanno permesso al clero di accentrare maggiormente il potere a Teheran. In seguito, quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, l’Iran ne ha approfittato per estendere la propria influenza anche in Iraq, dove la maggioranza è sciita, lo stesso ramo dell’Islam. Sono quindi riusciti a diventare più influenti degli Stati Uniti in Iraq: l’invasione statunitense dell’Iraq è stata un fallimento totale da questo punto di vista. E poi, nel 2012, c’è stata la guerra civile siriana. L’Iran è intervenuto, contraddicendo la sua logica ideologica, perché in Siria c’era uno scontro tra un regime che si definiva socialista e laico e forze fondamentaliste islamiche sunnite. Ma l’Iran ha sostenuto il cosiddetto regime socialista e laico sulla base del settarismo, perché il gruppo dirigente del regime siriano apparteneva a un ramo dello sciismo. Hanno agito secondo una logica settaria, non secondo una logica ideologica islamica generale. Si sono impegnati a costruire un corridoio di carattere settario dall’Iran al Mar Mediterraneo, includendo i militanti sciiti in Iraq, il regime di Assad in Siria e Hezbollah in Libano.

RU: Le forze che hai citato sono una sorta di alleanza di difesa che l’Iran chiama Asse della Resistenza.

GA: Sì, è così che lo chiamano, ma se lo si guarda bene, si tratta principalmente di un asse settario. Si basa soprattutto sul settarismo, anche se, naturalmente, l’Iran ha giocato la carta dell’opposizione a Israele nella sua battaglia ideologica contro gli Stati arabi del Golfo e in particolare il Regno saudita. Ad un certo punto l’amministrazione Obama ha voluto placarli e ha avviato con loro un negoziato sulla questione nucleare per impedire loro di sviluppare un’arma nucleare. Ciò ha portato a un accordo tra l’amministrazione Obama, altri Stati europei e il governo iraniano. Tale accordo è stato revocato da Donald Trump durante il suo primo mandato nel 2018. Il regime iraniano ha reagito sviluppando le proprie capacità nucleari e arricchendo l’uranio. Ha inoltre ampliato il proprio Asse della Resistenza, come lo chiamano loro: dall’Iran all’Iraq, alla Siria, al Libano e allo Yemen, oltre a Hamas, che hanno sostenuto, e alla Jihad islamica in Palestina.

RU: Quindi forse un elemento importante per chiarire il carattere dell’Iran e del suo Asse è comprendere non solo le sue azioni geopolitiche, ma anche il carattere di classe del regime, perché questo può chiarire ai compagni di sinistra la posizione e il ruolo che l’Iran svolge in Medio Oriente.

GA: Il regime iraniano è uno Stato capitalista con alcune peculiarità, con l’esistenza di grandi istituzioni controllate dal clero e l’esistenza delle Guardie Rivoluzionarie, che sono un’organizzazione militare parallela che controlla un impero economico. Questo non è eccezionale nella regione. In Egitto, ad esempio, l’esercito controlla un impero economico. Quindi in un certo senso si ha la stessa situazione con le Guardie Rivoluzionarie in Iran. Ma è un regime capitalista e persino neoliberista, con peculiarità legate al suo carattere ideologico e al fatto che è una teocrazia. Questo è molto specifico. Non è uno Stato capitalista ordinario, ovviamente. Ora, l’Iran nel suo confronto con gli Stati Uniti e con Israele ha una causa giusta, perché opporsi all’imperialismo statunitense e opporsi al sionismo è giusto. In questo senso si può sostenere l’Iran contro Washington o Israele. Non dovremmo essere neutrali su questo. Ma questo non significa che l’Iran o Hezbollah siano forze progressiste. Non lo sono. Mescolano l’opposizione a Israele e all’America con un programma sociale ed economico reazionario.

RU: Ed è interessante notare che non c’è una armonia ideologica o politica al 100% all’interno di questo Asse, perché abbiamo alcuni casi, come la recente caduta del regime di Assad, in cui Hamas ha festeggiato la caduta di Assad. Questo può creare confusione in alcune persone.

GA: Beh, quella era una posizione opportunistica. Hamas si è comportato in modo molto opportunistico nel caso della Siria. All’inizio della guerra civile siriana, ha sostenuto l’opposizione a causa del ruolo dei Fratelli Musulmani come forza chiave dell’opposizione. Hamas stesso è un ramo dei Fratelli Musulmani. Successivamente, a causa della necessità di ottenere il sostegno iraniano, ha cambiato posizione e si è riconciliato con il regime di Assad. Ora, dopo il crollo del regime di Assad lo scorso autunno, si è assistito a un’ascesa delle forze islamiche sunnite in Siria. E i Fratelli Musulmani fanno parte di ciò che c’é oggi in Siria. Quindi Hamas ha cambiato posizione a sostegno del nuovo regime. In sintesi, l’Iran sostiene, in primo luogo, le forze che sono organicamente legate all’Iran, allo sciismo, alle forze sciite. In secondo luogo, sostiene le forze fondamentaliste sunnite che sono anti-USA e anti-Israele. Ha sostenuto i Fratelli Musulmani per molti anni prima della guerra civile siriana, poi i rapporti tra Teheran e i Fratelli Musulmani si sono deteriorati. Ha sostenuto Hamas per un certo periodo, poi il rapporto a un certo punto si è deteriorato, ma è stato ripreso in seguito. Sostiene un altro gruppo a Gaza che gli è più vicino, la Jihad Islamica.

RU: Gilbert, ora che abbiamo maggiore chiarezza sulla questione dell’Iran e dell’Asse della Resistenza, vorremmo chiederti qualcosa sulla Primavera Araba prima di passare direttamente al 7 ottobre. A volte, la sinistra parla delle rivolte del 2011 nel mondo arabo come di “rivoluzioni colorate”. Si tratta di un concetto controverso. Alcuni lo usano per riferirsi alle tattiche non violente di mobilitazione popolare, mentre altri lo usano per descrivere il ruolo svolto dall’imperialismo attraverso la CIA, il National Endowment for Democracy (NED) o l’Open Society. È difficile negare che questa strategia di inserimento culturale e mediatico abbia svolto un ruolo importante nell’Europa orientale post-sovietica. Tuttavia, è possibile parlare delle rivolte della Primavera Araba come di “rivoluzioni colorate”? Gli Stati Uniti hanno utilizzato questi metodi?

GA: Gli unici che hanno descritto ciò che è accaduto nel mondo arabo nel 2011 come rivoluzioni colorate sono stati i sostenitori del regime di Assad, i sostenitori dell’Iran, i sostenitori di tutto questo. E non ha alcun senso perché la prima rivolta è stata in Tunisia contro un regime molto filo-occidentale. La seconda è stata in Egitto, contro un regime molto filo-occidentale legato agli Stati Uniti. Poi c’è stata una rivolta in Libia e alcune persone di sinistra credevano che la Libia fosse antimperialista, ma dal 2003 Gheddafi aveva cambiato rotta e instaurato stretti rapporti con le potenze imperialiste degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Italia e degli altri paesi. E poi c’era lo Yemen, dove il regime era ancora una volta strettamente legato agli Stati Uniti. C’è stata una rivolta in Bahrein, che è una monarchia petrolifera, ovviamente legata all’imperialismo statunitense. Quindi definire queste rivolte contro regimi, la maggior parte dei quali erano filo-occidentali o amici dell’imperialismo occidentale, definirle rivoluzioni colorate, nel senso che dietro di esse c’era una sorta di mano invisibile di Washington, era assurdo, completamente assurdo. Questa visione delle cose si è sviluppata a causa dell’intervento degli Stati Uniti e della NATO in Libia nel 2011 e soprattutto a causa della guerra civile in Siria, dove il regime di Assad era sostenuto dall’Iran e successivamente dalla Russia, mentre l’opposizione era sostenuta da varie monarchie petrolifere arabe. Ciò ha portato a una prospettiva neo-campista, come la chiamo io.

Il vecchio campismo consisteva nel sostegno cieco all’Unione Sovietica. Con il neo-campismo, non c’è un unico Stato a cui i neo-campisti si riferiscono, ma il neo-campismo consiste nel sostegno automatico a qualsiasi forza che gli Stati Uniti si oppongono. La logica è “il nemico del mio nemico è mio amico”. Quindi qualsiasi forza che sia nemica di Washington è mia amica. E questo porta a posizioni estremamente negative come il sostegno ad Assad, che era una dittatura terribilmente sanguinaria con un sistema carcerario assolutamente barbaro in cui sono state imprigionate decine di migliaia, centinaia di migliaia di persone, molte delle quali sono morte lì. Un regime che è stato un regime capitalista reazionario. Ma il fatto che Washington si sia opposta a questo regime e che anche alcune monarchie del Golfo si siano opposte, ha portato alcune persone a sostenerlo. L’intera descrizione di ciò che è accaduto nella regione araba come una rivoluzione colorata è completamente fuori dalla realtà. Si potrebbe dire che nell’Europa orientale, in alcuni degli eventi che vi si sono verificati, c’è stata una certa interferenza da parte di organizzazioni statunitensi. Anche in questo caso, non si può negare l’azione della popolazione locale. Questa è una visione molto cospiratoria della storia del mondo che è la replica esatta di quella dei regimi reazionari. Ogni volta che sorge un movimento popolare, i regimi reazionari dicono che è guidato da potenze straniere. Allo stesso modo, alcune persone di sinistra, quando sorge un movimento popolare contro un regime che ritengono anti-imperialista, dicono che è manipolato da potenze straniere.

Verso una guerra regionale?

Dal 7 ottobre all’attacco imperialista contro l’intero Medio Oriente

RU: Gilbert, con tutto quello che sta succedendo ora, è possibile ipotizzare una guerra regionale di fatto. Forse potremmo rivedere alcuni degli eventi più significativi dal 7 ottobre per capire meglio la situazione.

GA: Quando è successo il 7 ottobre 2023, l’Iran si è trovato di fronte a un dilemma perché Hamas non lo aveva consultato su questa operazione. Eppure Hamas gli aveva chiesto apertamente di unirsi alla guerra. Quindi, o entrava in guerra in modo più completo e correva il rischio enorme di essere attaccato dagli Stati Uniti, oppure non faceva nulla e perdeva la faccia, apparendo come un codardo. Quello che ha scelto è stata una via di mezzo. Una guerra limitata attraverso Hezbollah in Libano, uno scontro limitato in un territorio limitato su entrambi i lati del confine tra Libano e Israele, uno scontro a fuoco che è continuato per quasi un anno entro certi limiti. Israele non voleva un’escalation perché era completamente impegnato a Gaza. Poi, dopo un anno, gli israeliani avevano praticamente occupato tutta Gaza. Continuavano il genocidio, ma la parte principale della guerra era ormai alle loro spalle. Così si sono rivolti al Libano. E hanno sferrato un attacco che ha colto di sorpresa Hezbollah. Sono riusciti a decapitare Hezbollah praticamente in pochi giorni.

RU: Sì, hanno usato questa tecnica elettronica su larga scala, facendo saltare in aria i cercapersone e i walkie-talkie dei militanti di Hezbollah.

GA: Sì, ma soprattutto Israele ha ucciso direttamente Nasrallah e altri poco dopo. In pochi giorni hanno decapitato Hezbollah. E Hezbollah ha dovuto accettare di ritirarsi dal confine e andare a nord, e persino accettare un accordo che prevedeva il proprio disarmo. Quindi Hezbollah è stato molto indebolito. E quando questo è successo, c’è stata l’offensiva delle forze fondamentaliste islamiche in Siria contro il regime siriano, che hanno colto l’occasione dell’indebolimento di Hezbollah, che non poteva più sostenere Assad come in passato. E la Russia, essendo coinvolta in Ucraina, aveva ritirato la maggior parte dei suoi aerei dalla Siria. Il regime di Assad poggiava su due gambe, l’Iran e la Russia. Queste due gambe sono crollate e così l’intero regime è crollato molto rapidamente. Ciò ha ulteriormente indebolito, e molto, Hezbollah e l’intero asse iraniano; il corridoio è stato chiuso. L’Iran non ha i mezzi per inviare armi a Hezbollah come ha fatto dopo il 2006, la precedente guerra di Israele contro Hezbollah, che era già stata molto distruttiva. Tuttavia, molto rapidamente dopo quella guerra, Hezbollah ha ricostruito la sua forza militare ed è diventato persino più forte di prima del 2006.

Questa volta ciò non sarà possibile a causa della caduta di Assad in Siria, che era il principale ponte attraverso il quale Hezbollah riceveva le armi. La Siria ora è dalla parte opposta, se vogliamo. Quindi, l’Iran è stato notevolmente indebolito e poi c’è stato questo scambio di attacchi tra Iran e Israele. Ora Netanyahu sta aspettando l’occasione giusta per convincere l’amministrazione Trump a unirsi a lui in un attacco alle strutture nucleari dell’Iran. Questo è ciò che vuole Netanyahu. Trump ha cercato di offrire alla leadership iraniana un accordo negoziato, ma lo ha fatto in un modo che sembrava in realtà chiedere loro di capitolare. L’Iran ha rifiutato quella che poteva sembrare una capitolazione sotto minaccia, e quindi la probabilità di una guerra e di un attacco di Israele e degli Stati Uniti agli impianti nucleari dell’Iran è piuttosto alta.

RU: E Trump ha anche attaccato gli Houthi nello Yemen, uno dei principali alleati dell’Iran.

GA: Sì, anche se è una storia diversa. Trump e la sua amministrazione sono molto anti-iraniani, questo è molto evidente, molto più dell’amministrazione Biden, e dicono che il governo Biden non ha reagito con sufficiente forza contro gli Houthi quando hanno iniziato a lanciare missili contro le navi statunitensi nel Mar Rosso. Trump vuole dimostrare di essere molto più forte nell’imporre la volontà imperialista degli Stati Uniti. Ecco perché sta attaccando lo Yemen e ci si può aspettare altro, insieme alla possibilità, come ho detto, di un attacco diretto da parte degli Stati Uniti e di Israele contro l’Iran.

RU: Sì. Penso che sia interessante perché in questo momento Hezbollah è indebolito, il regime siriano è caduto e Trump ha attaccato gli Houthi prima che Netanyahu tornasse all’offensiva contro Gaza, rompendo in modo aggressivo il cessate il fuoco. Mi riferisco a una strategia elaborata per logorare tutti gli alleati regionali dell’Iran, continuando l’offensiva genocida che è stata dispiegata dall’ottobre 2023.

GA: Gli Houthi hanno continuato ad attaccare le navi statunitensi nel Mar Rosso. E naturalmente l’imperialismo statunitense non può tollerare che le sue navi vengano attaccate in acque internazionali. Il Mar Rosso è una via navigabile internazionale. Ed è per questo che Trump sta reagendo in questo modo. Ora, gli Houthi non rappresentano una grande minaccia. Dal punto di vista militare, non sono certamente una grande forza. Non sono come l’Iran. Quindi l’amministrazione Trump continuerà ad attaccare gli Houthi fino a quando non capitoleranno e smetteranno di lanciare missili, e sta valutando seriamente la possibilità di attaccare l’Iran.

RU: Infine, Gilbert, un’ultima domanda. Come ho detto prima, penso che Israele, dall’ottobre 2023 ad oggi, abbia praticato una guerra regionale di fatto. Perché con intensità diverse in momenti diversi, hanno avanzato in modo aggressivo, poi si sono ritirati per attaccare un’altra posizione. Quindi possiamo parlare di questa guerra regionale? È importante concludere sottolineando l’obiettivo di questa battaglia e come, nella sinistra rivoluzionaria, dobbiamo interpretare correttamente questa offensiva per poter combattere a lungo termine contro l’obiettivo principale dello Stato sionista.

GA: Lo Stato israeliano sta conducendo due guerre simultanee. Una guerra, che è in parte una guerra genocida a Gaza, e più in generale una guerra che mira alla pulizia etnica, cioè all’espulsione dei palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania. Queste guerre sono state intraprese dallo Stato israeliano che ha colto l’occasione del 7 ottobre 2023, proprio come l’amministrazione di George W. Bush ha colto l’occasione dell’11 settembre 2001. Hanno sfruttato questa opportunità per intraprendere guerre che sono andate ben oltre la reazione all’evento. L’obiettivo di Israele è espellere i palestinesi e, se ciò si rivelasse impossibile a causa delle condizioni internazionali, almeno costringerli in territori molto limitati, prigioni a cielo aperto sotto la sorveglianza israeliana. Quella grande guerra è l’essenza del sionismo. Dal 1948, lo Stato israeliano è stato costruito sulla pulizia etnica della parte della Palestina che ha conquistato, il 78% del territorio tra il fiume e il mare. Da quella terra hanno espulso l’80% della popolazione. Si è trattato quindi di un grave atto di pulizia etnica. E ora questo è ciò che l’estrema destra israeliana vorrebbe ripetere, e l’unico ostacolo è la situazione internazionale, gli Stati arabi e gli Stati Uniti.

E poi c’è una seconda guerra, quella contro l’Iran. Israele considera l’Iran una minaccia esistenziale e ritiene intollerabile la possibilità che l’Iran acquisisca armi nucleari. Quindi sta conducendo la sua guerra contro l’Iran. Ha inferto un colpo molto duro a Hezbollah, causandogli molte perdite. Ha approfittato del crollo del regime siriano per distruggere il potenziale militare siriano e occupare ulteriori territori nel Golan. La loro vera preoccupazione ora, come ho detto prima, è attaccare l’Iran. Vogliono convincere l’amministrazione Trump a lanciare un attacco su larga scala contro gli impianti nucleari iraniani. Ecco a che punto sono.

RU: Bene, con tutte queste domande, abbiamo un’intervista molto interessante e incisiva. Quindi, possiamo dire di aver concluso la conversazione di oggi. A nome di Actuel Marx, vogliamo ringraziarti per la conversazione e per la generosità con cui avete concesso questa intervista.

GA: Muchas gracias, un gran abrazo a ambos.

Note

1. Michael Roberts, “FMI y BRICS: no volver a Bretton Woods,” Viento Sur, 23 ottobre 2024.

2. Alex Callinicos, “Into a New Era of War and Revolution,” Socialist Worker, 7 novembre 2023.

3. G. Achcar, “The Age of Neofascism and Its Distinctive Features”, 4 febbraio 2025.

4. Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996).

Tratto da: www.newpol.org

Traduzione a cura della Redazione di Rproject


OPINIONI

Una marea in marcia per la Palestina

Le settimane appena passate hanno aperto uno spazio di mobilitazione inedito nel nostro paese. Una marea variegata, massiva e determinata. Di questa nuova voglia di partecipazione bisogna avere cura

La settimana appena passata in Italia, è stata inedita e sorprendente. È saltato un  tappo e la partecipazione è esplosa: una partecipazione larga, massiva, variegata. La mobilitazione per la Palestina, nel nostro paese, non è certo cominciata la settimana scorsa, le realtà palestinesi, come alcuni sindacati di base, centri sociali e collettivi studenteschi si mobilitiano da almeno due anni sul genocidio in corso. E tante realtà si mobilitano sull’occupazione, sul sistema di appartheid e la colonizzazione di Israele da decenni e più. Eppure se nei due anni passati abbiamo visto mobilitazioni di massa per la Palestina in tutto il mondo, dai campus americani alle piazze dei paesi arabi, dalle manifestazioni in rosso in Olanda ai paesi latino-americani, in Italia le piazze non erano mai fuoriuscite dai margini delle organizzazioni che le chiamavano. Un lavoro continuo, ma anche difficile e non sempre in grado di parlare oltre sé.

di Luca Mangiacotti

Obiettivi comuni: senza essere d’accordo su tutto

Ma dall’inizio di settembre, mentre la Global Sumud Flotilla che organizzava la spedizione, qualcosa è iniziato a cambiare. Gli argini sono saltati. «Se loro possono salire su un nave, solcare il Mediterraneo, sfidare Israele e rischiare il carcere, allora anche noi qua possiamo fare qualcosa» – hanno commentato le e gli studenti in piazza. La Global Sumud Flotilla è stata un’azione che ha rotto l’immobilismo e si è mossa con pochi e chiari obiettivi comuni – rompere l’assedio a Gaza – sapendo che non si era d’accordo su molto altro. Muoversi per abbandonare lo schermo di fronte al quale abbiamo visto scorrore le immagini del genocidio per due anni, sentendoci sempre piu isolatə.

Nella strabordante manifestazione del 4 ottobre la complessità e varietà della partecipazione era evidente: c’erano collettivi studenteschi, gruppi territoriali, grandi associazioni, gruppi scout, gruppi religiosi cattolici e islamici, passando per qualsiasi sigla del sindacalismo di base e tutti i gruppuscoli comunisti. Una manifestazione che teneva insieme dalle bandiere della pace alle bandiere di Hamas.

Questo milione di persone non è d’accordo su molte cose: ad esempio sul ruolo di Hamas, su cosa sia o non sia il 7 ottobre, ma si è riunita sotto uno striscione che era dedicato alla resistenza palestinese e riconosce obiettivi comuni: la fine di ogni accordo diplomatico e commerciale con Israele, e l’imposizioni di sanzioni per porre fine al genocidio il prima possibile, la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid in Palestina.

Probabilmente continuare a lavorare all’individuazioni di obiettivi e pratiche comuni e condivisi può essere un modo per continuare a costruire spazio per l’allargamento della mobilitazione. Al contrario, aprire lotte per imporre la propria visione e strategia politica rischia di rompere questo fragile equilibrio. Bisogna avere cura di questa nuova voglia di partecipazione politica, creare spazi di condivisione di pratiche e saperi, spazi di decisione comune e pubblica, espandere la socializzazione alla politica, e non con il solo fine di portare gente verso la propria singola organizzazione o collettivo.

di Luca Mangiacotti

Bloccare tutto: pratiche comuni 

La partecipazione non è stata solo massiva, ma anche determinata e strategicamente mirata. «Se bloccano la Sumud Flotilla, noi blocchiamo tutto» – ha urlato il portuale nella manifestazione a Genova, che accompagnava la partenza della Flotilla. Cioè blocchiamo i flussi dell’economia di guerra, che continuano a scorrere dall’Europa e dagli Usa – ma non solo – verso Israele e rendono i nostri paesi complici del genocidio. In questo il blocco dei porti è stato un elemento centrale, una pratica comune, condivisa e da praticare in massa, che dal porto di Genova si è estesa a macchia d’olio in tutta Italia dal 22 settembre in poi. Questa non è una pratica che nasce dal nulla, chiaramente, nei mesi e anni scorsi, i portuali hanno costruito reti e già attuato la pratica del blocco, astenendosi dal carico o scarico di navi con materiale per l’industria bellica. Il blocco dei porti si è praticato, non solo nelle due giornate di sciopero del 22 e del 3 ottobre, ma tutte le volte che sono arrivate informazioni di carichi di morte, con passaparola che hanno portato nei porti centinaia di persone in pochissimo tempo, come a Taranto e a Livorno, riuscendo effettivamente a bloccare le navi.

Dal blocco dei porti, si è passati velocemente, nelle città senza porti, al blocco delle stazioni, dei poli della logistica, degli aeroporti, delle tangenziali e autostrade. Per bloccare i flussi dell’economia di guerra, che alimenta il genocidio in Palestina e i conflitti in molti altri luoghi del mondo, dal Congo all’Ucraina.

«Per scoprire infine che quello che stiamo bloccando è quella economia che ci impoverisce, licenzia, taglia, riarma», come scrivono i lavoratori della ex-GKN.

Un’economia che dall’altra parte del Mediterraneo è violenza coloniale e genocida e sulla nostra sponda è l’economia che ci rende precariə, ci impoverisce, ci impedisce di avere un casa, ci isola, ci rende sempre più vulnerabilə, inquina i nostri territori, distrugge le politiche sociali, la scuola, la sanità, approva leggi razziste, lascia morire le persone ai nostri confini e umilia la classe lavoratrice. Per questo lottare e bloccare l’economia di guerra è già lottare per i nostri diritti, le nostre condizioni di lavoro e le nostre vita.

di Luca Mangiacotti

Scioperare

E qui arriviamo a una altra questione centrale e inedita delle scorse settimana: lo sciopero. In due settimane sono stati organizzati due scioperi, prima il 22 settembre, uno sciopero indetto dai sindacati di base, che ha strabordato qualsiasi previsione, macchiando di ridicolo l’operazione della Cgil di lanciare una data di mobilitazione il 19 settembre, aspramente criticata dalle stesse iscritte e iscritti. E solo due settimane dopo, il 3 ottobre, uno sciopero generale indetto dalla Cgil, questa volta, insieme al sindacalismo di base, non rispettando il preavviso e invocando l’articolo 2 della legge 146/1990 «in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori». E aprendo un conflitto con le istituzioni sulle norme che regolano lo sciopero nei settori pubblici essenziali.

Uno sciopero che ha riportato al centro del dibattito pubblico l’astensione dal lavoro come arma in mano alle lavoratrici e ai lavoratori.

Due giorni di sciopero a distanza di dieci giorni pesano sulle tasche di chi lavora, di chi ha la partita iva, o una piccola attività, ma le adesioni hanno superato ogni aspettativa. Anche qui, non ci si arriva spontaneamente, ma dopo anni di lavoro del movimento transfemminista sullo sciopero dell’8 marzo e sulla sua risignificazione per farlo uscire dalle strette maglie economiciste delle indizioni sindacali. Anni di lotte dei e delle precarie in vari settori tra il pubblico e il privato che hanno cercato di organizzarsi superando le divisioni sindacali tra confederali e sindacati di base con grandi difficoltà. Anni in cui l’unità sindacale era stata trovata a destra con UIL e CISL, e non a sinistra con le sigle del sindacato di base. Queste giornate ci hanno fatto respirare l’idea che lo sciopero può tornare ad essere una leva nelle mani di chi lavora per sottrarsi ai ricatti e guadagnare spazi di vita.

Lo sciopero ha anche reso chiaro quanto l’economia del genocidio si basi sulla nostra complicità: non parlare di Palestina in classe, accettare che i PCTO nelle scuole vengano svolti dalle forze dell’ordine e dall’esercito, accettare le leggi razziste e la loro propaganda, far finta di non vedere il carico di merci che stiamo caricando, non dire nulla di fronte al villaggio dell’esercito nella piazza principale della nostra città, non protestare contro i software che la nostra azienda continua a comprare o sviluppare, continuare a comprare certi marchi. Alzare le voci da sole è difficile, soprattutto nei luoghi di lavoro, dove subiamo il ricatto continuo della busta paga, delle sanzioni, dei capi, per questo è necessario costruire spazi pubblici, reti di solidarietà, e spazi di supporto tra colleghe e colleghi.

di Luca Mangiacotti

Scuole e università: un nuova socializzazione al conflitto 

Insieme ai luoghi di lavoro, le scuole e le università sono l’altro grimaldello di queste mobilitazioni. L’anno scolastico è cominciato male, se non malissimo, la scuola sotto il Ministro Valditara sta subendo una vera e propria torsione autoritaria. Dal voto in condotta per lə studenti al codice di condotta per le insegnanti, dalle nuove regole per gli esami di stato alla legge in discussione sul consenso informato. Fino ad arrivare alle nuove indicazioni nazionali per la scuola d’infanzia e primaria che segnano la fine della scuola “multiculturale”, “inclusiva” (e molto neoliberale), per dare l’inizio alla scuola dove si insegna che «solo l’occidente conosce la storia».

La partecipazione ai due scioperi tra il corpo insegnante è stata molto buona, con intere plessi chiusi, e studenti e docenti in corteo spontaneo insieme, liberi dai ricatti dei dirigenti scolastici e degli uffici scolastici regionali. In questi giorni si moltiplicano le occupazioni di scuole e facoltà in tutta Italia, mentre le questure di Brescia e Milano hanno iniziato a reprimere proprio giovani e giovanissimi con misure restrittive della libertà personale, daspo, denunce e perquisizioni.

Per molte persone giovani questa è la prima socializzazione alla politica e al conflitto con manifestazioni larghe e determinate, che se continua con questa intensità, potrebbe costruire nuove ondate di partecipazione politica e nuove forme di organizzazione politica negli anni a venire.

Una socializzazione al conflitto liberatoria, dopo anni di repressione, di continua chiusura dello spazio pubblico, della pandemia, della paura della guerra. Un’esplosione di vita in classi scolastiche che sono piene di solitudine, di sofferenza, di disagio e isolamento. E che per questo le questure e le autorità vogliono chiudere al più presto: è questa ondata disordinata di partecipazione giovanile e dal basso che fa più paura.

di Luca Mangiacotti

Gaza sta funzionando da specchio 

La bandiera per la Palestina sta diventando il simbolo e catalizzatore di tutte le altre battaglie che oggi esistono nel nostro paese: lotte sindacali per delle degne condizioni di lavoro, lotte ecologiste, femministe e transfemministe, antirazziste, e per il diritto alla casa. Scendere in piazza per la Palestina e contro il genocidio a Gaza, sta diventando un modo per guardare il nostro lato di mondo, il sistema economico che si arricchisce con il commercio di armi, i governi pronti a tagliare la spesa sanitaria e sociale per comprare armamenti, il sistema razzista che discrimina sulla base della cittadinanza, religione e colore della pelle, le discriminazioni sistemiche contro donne e persone trans. Gaza funziona da specchio. Perché non distogliere lo sguardo dagli orrori commessi da Israele significa iniziare a comprendere quanto i nostri stati siano coinvolti in questo genocidio, e di quanto la guerra sia già nelle nostre società. Sono i gangli del sistema di potere che dobbiamo bloccare, avendo cura del processo di mobilitazione largo e plurale che si è aperto, senza smanie di conquista e di leadership della piazza.

E bisogna fare questo tenendo saldi i tre punti strategici che centrano i lavoratori ex-GKN: «1. Urgenza perché Gaza e la Palestina muoiono ogni secondo 2. Efficacia: ribaltare i rapporti di forza 3. Permanenza: perché i rapporti di forza non si cambiano in un giorno».

La copertina è di Luca Mangiacotti

 

Dario Salvetti (Collettivo di fabbrica ex Gkn) pubblicato da Attac Italia

La Palestina come bandiera universale contro i soprusi sulle nostre vite

Firenze 18/10/2025 Il Futuro IrRompe (foto di Andrea Sawyerr sulla pagina facebook del Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze)

Cosa c’entra la lotta che da quattro anni e mezzo portiamo avanti all’ex Gkn con le mobilitazioni contro il genocidio a Gaza?

A dire la verità, la Palestina è presente in tutte le lotte: è diventata di fatto la bandiera universale contro tutto ciò che è intollerabile e arbitrario nelle nostre vite.

Dall’altro lato, il legame con la Palestina non è stato solo con la nostra lotta, ma con tutto il movimento sindacale: centrale è stato il blocco dei porti e gli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre (2025).

Sin dall’inizio, queste mobilitazioni ci hanno posto di fronte a tre questioni: l’urgenza (la Palestina muore e brucia ogni giorno, da anni), l’efficacia (occorre cambiare i rapporti di forza, rompere l’assedio) e la permanenza (i rapporti di forza non si modificano in un giorno, e un genocidio non si ferma con un singolo atto).

Il tema della permanenza è oggi il più pressante. Il rallentamento delle mobilitazioni di fine settembre e inizio ottobre era forse inevitabile, ma ha prodotto un doppio effetto: la stanchezza e la narrazione tossica attorno alla “tregua” (che quasi certamente non è una tregua, e certamente non è pace).

Nessun soggetto sociale può restare mobilitato in modo permanente, senza articolare la lotta nel tempo e collegare il generale al proprio particolare.

Penso che questo possa avvenire su due piani: da un lato rivendicando la rottura di ogni rapporto con Israele, a tutti i livelli – dalle commesse alle consegne nella logistica, alle vendite – rendendo permanente il blocco messo in atto dagli equipaggi di terra; dall’altro, rilanciando nei luoghi di lavoro la battaglia contro il riarmo, come ha fatto anche la Cgil con la manifestazione del 25 ottobre 2025, e rompendo il ricatto che ogni lavoratore affronta quotidianamente, quando è costretto a lavorare in fabbriche inquinanti, belliche o legate all’economia genocidaria.

Il blocco dei porti rimane un elemento centrale e prioritario del Movimento contro il riarmo e contro il genocidio. Ma ogni soggetto sociale in mobilitazione tende inevitabilmente a “trovare il proprio porto”.

Per questo l’idea del blocco va estesa e articolata dentro ogni luogo: perché ognuno di noi ha il proprio porto, che può essere la rivendicazione della rottura dei legami in un’università, la richiesta alle farmacie di un Comune di smettere di commerciare farmaci israeliani, o l’adesione alla campagna di boicottaggio economico.

Visto che le giornate straordinarie di fine settembre e inizio ottobre 2025 hanno rimesso al centro lo sciopero come strumento di lotta politica, occorre ora articolare questi scioperi in due direzioni possibili.

La prima consiste nel chiedersi quali legami con il genocidio possano essere concretamente spezzati nei luoghi di lavoro.

La seconda è nel passare dalla lotta “per la Palestina” alla lotta “con la Palestina”: a scioperi che tengano insieme salario, contratto, scuola, casa, la lotta contro l’autoritarismo e l’insopportabilità del presente nel nostro Paese con quella contro l’arroganza di un “diritto internazionale che vale solo fino a un certo punto”.

Né il genocidio né il riarmo hanno un appoggio di massa. Il rischio, però, è che la lotta contro il riarmo, per la classe operaia, si fermi di fronte a un senso di ineluttabilità: posso contestare il riarmo, ma non posso farci nulla se per produrre il mio salario devo lavorare in un’azienda bellica o inquinante.

Il riarmo è innanzitutto una gigantesca speculazione finanziaria: le industrie belliche crescono in Borsa molto più di quanto crescano produttivamente. È nuovo debito pubblico, che comporterà tagli ulteriori allo stato sociale. È ulteriore autoritarismo, soprattutto nel mondo della ricerca, dove tutto verrà piegato – attraverso il meccanismo del cosiddetto dual use – agli obiettivi militari, sottraendo risorse alla ricerca utile alle nostre vite.

Contrastare il riarmo opponendovi la conversione ecologica significa accorciare le filiere produttive, riappropriarsi della produzione di energia rinnovabile e solidale, proteggere i territori, rendere sostenibile la mobilità e creare milioni di nuovi posti di lavoro.

Da qui la centralità della nostra lotta all’ex Gkn che, dopo quattro anni e mezzo di presidio operaio permanente e dodici cortei, porta ancora in piazza oltre 10.000 persone, ma continua a non ricevere risposte sul proprio futuro, rendendo evidente il sospetto che l’obiettivo sia far morire un progetto di reindustrializzazione ecologica costruito dal basso, con la partecipazione del territorio. Un progetto che potrebbe diventare un esempio pericolosamente contagioso per tutte le crisi industriali che attraversano il Paese.

Vogliono far vincere le delocalizzazioni, vogliono dimostrare che l’obbedienza paga e che la disobbedienza non ha prospettiva. Vogliono mostrare che quattro anni e mezzo di lotta non portano ad alcun risultato, dunque sono inutili.

Per il sistema, questa nostra lotta non deve vincere non solo come battaglia sindacale – contro le delocalizzazioni e per la riconversione ecologica – ma nemmeno come esempio di modello cooperativo mutualistico.

Di fronte a questo muro di gomma non possiamo che rilanciare, convocando un tavolo permanente per la reindustrializzazione e moltiplicando l’azionariato popolare, che verrà rilanciato a dicembre.

È il metodo Global Sumud Flotilla: non chiediamo il permesso, vediamo quante navi riusciamo a mettere in mare. Ci saranno molti motori da riparare, molte navi che non partiranno come vorremmo, ci sarà confusione e caos, ma proveremo a dare la massima autonomia a questo piano industriale, indipendentemente dall’intervento pubblico.

Continueremo ad attraversare le lotte di movimento e gli scioperi contro il riarmo e contro la Legge di bilancio del governo Meloni, sottolineando però che l’enorme successo delle mobilitazioni tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 2025 è dipeso da alcuni elementi che non possiamo dimenticare né considerare accessori.

Il primo è la pratica del mutualismo conflittuale: la pratica della Flotilla ha dato a tutti la possibilità di vedere un rapporto di forza praticabile “qui e ora”, il tentativo concreto di rompere il blocco. Questo non possiamo dimenticarlo, e non abbiamo intenzione di tornare a manifestazioni e scioperi tradizionali che non convergono verso una generalizzazione della lotta attraverso pratiche conflittuali.

Il secondo è il ruolo dell’immaginario, che ha avuto un peso enorme in quelle giornate, in particolare nella frase del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp): “Se perdiamo il contatto con la Flotilla, blocchiamo il Paese”.

Anche il Collettivo di fabbrica, come tutte le altre lotte, ha il compito di sviluppare l’immaginario collettivo di questo Paese.

E dobbiamo praticare con efficacia i rapporti di forza: non accontentarci di generici proclami di lotta, ma dire con chiarezza che cosa vogliamo cambiare, qui e ora.

 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 55 di Ottobre – Novembre 2025: “Europa chiusa, piazze aperte


Enrico Semprini

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