Calcio e antifascismo: contro razzismo e discriminazioni

Intervista a Massimo Cervelli, responsabile dei progetti “Cultura della Memoria” della Regione Toscana

di David Lifodi

In occasione della Giornata della Memoria dello scorso 27 gennaio, presso le Stanze della Memoria di Siena, si è svolto l’incontro dibattito “Il pallone va alla guerra. Il calcio in camicia nera” con Massimo Cervelli, responsabile dei progetti “Cultura della Memoria” della Regione Toscana.

A seguito di quella iniziativa ho avuto il piacere di intervistarlo sul ruolo dello sport, e del calcio in particolare, come strumenti di memoria e antifascismo in contesti in cui razzismo e discriminazione sono pratiche purtroppo in continua crescita.

 

Lo sport, e in particolare il calcio, hanno da sempre rappresentato uno strumento per ottenere il consenso delle masse. Qual era, nel ventennio, nel dopoguerra e negli anni Settanta il ruolo dei calciatori socialmente impegnati, e cosa possono rappresentare oggi in un contesto in cui un giocatore spesso ha la consegna del  silenzio da parte della società di appartenenza, che impone loro, è il caso del Milan berlusconiano, ma non solo, di non parlare di politica e più in generale di tutto ciò che accade nel mondo?

Ritengo che il calcio oggi sia lo spettacolo globale per eccellenza, il nocciolo duro del business dell’entertainment, come dimostra la recente cessione dei dritti televisivi della Premier League: per il triennio 2016-2019 circa 7 miliardi di euro (5,136 miliardi di sterline). In questa dimensione il calciatore è un personaggio pubblico di grandissima influenza: lo può esercitare come Beckham in chiave di calciattore (gossip, moda e spy girl), ma può scegliere di utilizzare il ruolo per far crescere la coscienza su grandi temi, a partire dal razzismo che si presenta quasi sempre negli stadi. In questo caso il ricordo va a Socrates ed al suo impegno, anche attraverso le maglie del Corinthias, per far crollare la dittatura in Brasile.

 

La Resistenza è piena di episodi che raccontano atti eroici di calciatori. Il più celebre di tutti è il ribelle Bruno Neri che rifiuta di fare il saluto romano in occasione dell’amichevole che la Fiorentina disputa per l’inaugurazione del nuovo stadio intitolato a un gerarca fascista. Neri trova la morte come partigiano azionista sotto il nome di “Berni”, Rino Della Negra, a Parigi, partecipa a sabotaggi antifascisti come quello contro la sezione francese del Partito Nazionale Fascista e sarà giustiziato, e ancora le storie drammatiche di Armando Frigo e Carlo Castellani, oppure quella di Michele Moretti, conosciuto come il comandante Pietro Gatti, il cui mitra servì per giustiziare Mussolini. Eppure ancora oggi, nella storiografia calcistica e nella storia sportiva viene idolatrato Meazza, a cui è intitolato anche lo stadio milanese di San Siro, nonostante sia stato dichiaratamente fascista, in un paese come il nostro dove non è raro trovare monumenti, vie e piazze dedicate a esponenti del regime mussoliniano.

A Bruno Neri dobbiamo un ricordo indelebile: quella foto allo stadio di Firenze, all’epoca intitolato a Giovanni Berta martire del fascismo, dove è l’unico che non alza la mano nel saluto romano. Al di là della sua successiva attività partigiana, fu ucciso il 10 luglio del 1944 sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove era vice-comandante di una formazione che operava a ridosso della Linea Gotica, quella foto ha un potere testimoniale enorme. Anche dentro una dittatura, mentre la vita civile viene piegata ai riti celebrativi di un regime, si può avere il coraggio di dire no. Personalmente utilizzo la foto di Bruno Neri in contrapposizione alla fotografia infame che ritrae i giocatori dell’Inghilterra omaggiare la Germania con il saluto nazista a Londra, il 15 maggio 1938. Nel marzo c’era stato l’Anschluss, l’occupazione e l’annessione dell’Austria. Per quanto riguarda la storiografia, i monumenti e la memorialistica bisogna prendere atto di una triste realtà: la Repubblica ha scelto di non agire in discontinuità con il fascismo in ambienti molto più importanti del calcio. Prefetti, questori, presidenti dei tribunali avevano già ricoperto quei ruoli durante il fascismo. Ne cito uno per rendere l’idea di quanto sia stata drammatica questa scelta: Gaetano Azzariti, secondo presidente, dopo De Nicola, della Corte Costituzionale, dal 1957 al 1961, fu presidente, dal 1938, del Tribunale della razza,  istituito dalle leggi razziali del fascismo.

 

È in atto, ormai da anni, un tentativo da parte dell’estrema destra di egemonizzare le curve degli stadi e il movimento ultras. Sono ormai poche le tifoserie rimaste fedeli agli ideali dell’antifascismo e dell’antirazzismo, mentre aumentano anche i casi di calciatori dichiaratamente legati alla destra radicale, da De Rossi ad Abbiati. Come mai la sinistra sociale ha finito per rimanere ai margini della cultura ultras, che pure è una cultura di strada, ed esperienze come quelle dell’Asd Ardita (recentemente aggredita dai fascisti), delle squadre costituite da migranti richiedenti asilo, rifugiati e centri sociali finiscono per rimanere esperienze di nicchia?

La società italiana ha grosse difficoltà a costruire una propria contemporaneità, per cui rifugge in identità costituite in epoche precedenti, apparentemente rassicuranti, ma non idonee a comprendere ed intervenire sul mondo dell’oggi. Destra e sinistra, in origine ben diverse, da una parte la reazione e la difesa di poteri e privilegi, dall’altra l’ambizione ad una società più giusta, vivono entrambe prigioniere del Novecento, secolo che ha dissolto ideologie e scorciatoie del pensiero politico. Anche gli ultras sono un fenomeno sociale storicamente datato, vissuto oggi come insieme di segni e riti difficilmente decifrabili, su cui la rivendicazione identitaria (“chi noi siamo”) apre e chiude le comunicazioni. Se i contenuti dei cori che partono dalle curve sono oggi spesso razzisti credo lo si debba non alle operazioni dell’estrema destra – quelle ci sono sempre state e sempre ci saranno, la storia insegna, pensiamo al British Party in Inghilterra, che la massa dei tifosi non è trasformabile in una massa di “soldati politici” – ma alla crisi profonda dei valori della società italiana. Il razzismo è prima negli autobus, nei banchi di scuola e poi trova la curva come amplificatore. Se le nostre città fossero migliori lo sarebbero anche gli stadi.

 

Ernest Erbstein e Arpad Weisz sono stati due grandi allenatori che in prima persona hanno vissuto il dramma delle leggi razziali. Weisz troverà la morte ad Auschwitz. Conosci altre storie di calciatori o allenatori perseguitati dal fascismo e dal nazismo, ma che riuscirono a mettere in ridicolo gli ideali di machismo e purezza della razza propugnati da entrambi i regimi, i quali cercarono in tutti i modi di utilizzare il calcio come strumento di consenso?

 L’icona è Jessie Owens, quattro medaglie d’oro nelle Olimpiadi di Hitler, ma di quell’edizione nessuno ricorda la vittoria di Kee Chung Sohn, coreano – la Corea era stata occupata dal Giappone che trattava come schiavi i coreani – nella maratona, la prova conclusiva dell’evento olimpico. Sono state fatte, a partire dal Memoriale della Shoah di Parigi, una serie di mostre sullo sport sotto il nazismo e si continua a scoprire casi di atleti che sono stati perseguitati e/o si sono battuti contro il nazifascismo. Vorrei ricordare Julius Hirsch, calciatore del Karlshrue e nazionale tedesco, forse il primo ebreo ad indossare la maglia della Germania: venne espulso dal Karlshrue, con cui aveva vinto due campionati, e fu ucciso ad Auschwitz nel 1943. In compenso, Sepp Herberger, mito fondativo del calcio tedesco per la vittoria di Berna nella finale dei mondiali del 1954, fu allenatore della Germania hitleriana dal 1936 e, dopo la guerra, della Germania Ovest fino al 1964 – aveva aderito al nazionalsocialismo fin dal 1933… .

 

Oggi i quotidiani sportivi, ma anche quelli generalisti, si limitano a parlare di sport e di calcio solamente in merito alle partite, ai moduli tattici o al calcio mercato, mentre all’epoca del fascismo e anche negli anni successivi le vittorie delle squadre italiane o della Nazionale erano celebrate soltanto in chiave nazionalistica, come del resto è successo, in parte, in occasione dei campionati mondiali vinti dagli azzurri del 2006. Lo stesso accade ad altre latitudini, in Europa e negli altri continenti. È ancora possibile una narrazione diversa, sociale, dello sport, a partire da esempi come quelli della giornalista di Repubblica Emanuela Audisio o le buone pagine dedicate allo sport da Alias, il supplemento del manifesto?

Lo sport è narrazione sociale per definizione. Le regole e le tecniche sono le stesse, ma il gioco, i giochi, si interpretano a seconda del contesto sociale, delle relazioni sociali in essere. E’ per questo che esisteva un calcio danubiano ed un kick and run inglese o il motivo della somiglianza del calcio del Rio de La Plata al tango, “si gioca in spazi stretti”. Ancora oggi le modalità con cui si sta in campo dipendono da come si  vive in questo o quel continente: il melting della Germania campione del mondo, come già quello della Francia del 1998, fa vedere che nella contaminazione sta il progresso. Da Mesut Özil a Kevin-Pince Boateng: spazi enormi per la narrazione sociale!

 

NOTA: A Siena le Stanze della Memoria hanno un ruolo particolare perché si trovano nei locali della cosiddetta “Casermetta”, che fu la sede dei fascisti della Repubblica Sociale, dove si interrogavano e torturavano gli antifascisti arrestati e da dove partivano le squadracce nere per i rastrellamenti e le fucilazioni dei partigiani. All’interno delle Stanze della Memoria è allestito un piccolo museo della Liberazione dedicato alla lotta delle brigate partigiane che hanno combattuto nel senese.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

2 commenti

  • Cazzo, articolo interessante e, per me, istruttivo, viene in mente la finale dei 200metri di Città del Messico del ’68 con i neri Smith e Carlos sul podio che protendono il pugno guantato di nero e Norman, bianco, che solidarizza con loro, insieme per protestare contro per i gravi fatti di sangue e repressione di regime accaduti nella capitale messicana poco tempo prima, nonchè all’ assassinio di M.L.King avvenuto quello stesso anno. Tra l’altro tutti e 3 scontarono pesamente quella presa di posizione e le loro carriere sportive si estinsero precocemente.

  • Ciao Massimo,
    ancora più interessante è stata la relazione di Cervelli in occasione dell’incontro “Il pallone va alla guerra”: ho scoperto moltissime cose che non sapevo. Purtroppo su questi temi non c’è ancora grande storiografia, però ti consiglio, se già non lo conosci, il sito http://www.calcioromantico.com/

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