A proposito delle difficoltà relative alla transizione – Seconda parte

(segue da 3 marzo – ore 10)

“Non è arduo costruire il socialismo; lo è stato nelle specifiche condizioni della Russia del 1917”

di Mauro Antonio Miglieruolo

Detto questo, occorre ahimé! Passare a una parte dell’intervento che non esito a definire polemica. Contesto sia corretto fare riferimento all’Ottobre come fallimento della “costruzione dal basso” del processo di trasformazione (se mai il fallimento della rivoluzione a determinare il declino del potere dal basso). Contesto anche sia stato facile la “presa del potere”. Nulla di più difficile, invece. Difficoltà che, pur provvisoriamente affrontate e risolte,  si sono poi riverberate sul processo di transizione al socialismo.

 No, non è stato facile prendere il potere; no, non si è finiti nelle paludi dello stalinismo nonostante la “costruzione dal basso”, ma perché la presa del potere, nelle condizioni determinate, hanno chiesto alle masse tali e tanti sacrifici che non ci sono state più forze ed entusiasmi sufficienti a costruire l’effettivo potere dal basso che avrebbe potuto salvare la rivoluzione. In effetti, salvo il primo anno successivo all’Ottobre, un potere “dal basso” in Russia non è mai riuscito a prendere corpo.

Al contrario, prendere il potere in Russia è stato difficilissimo. I Bolscevichi, guidati da Lenin, più volte in minoranza nel suo stesso partito, hanno compiuto un vero e proprio capolavoro, in quelle forme forse irripetibile. Tutto si è consumato nel giro di pochi mesi, essendo ogni mossa decisiva per la riuscita di quella successiva. La Rivoluzione Cinese all’opposto, anch’essa per molti versi un capolavoro irripetibile, ha importato decenni di guerra rivoluzionaria per trionfare. Le difficoltà inerenti la presa del potere, moltiplicata dalla presenza di un feroce invasore, sono state superate nonostante alcuni errori iniziali: il tempo degli avvenimenti ha offerto la “possibilità” di superare le sconfitte. L’intelligenza di Mao e degli altri dirigenti rivoluzionari ha saputo profittarne. La tenacia del popolo cinese ha fatto il resto. Due rivoluzioni, due miracoli, prodotti di due dirigenti eccezionali (dicendo eccezionale non sostengo fossero esenti da errori e responsabilità. Dico eccezionale per dire della loro lungimiranza teorica e politica e della loro capacità come guide d’uomini: non ci sono difficoltà che non possano essere superate con la tenacia, l’intelligenza, l’onestà e la chiarezza delle idee. Viene il dubbio che quando oggi si parla di difficoltà in effetti si stia scaricando la responsabilità in merito per la parte che ci compete, quella soggettiva di noi uomini di oggi; per non dover ammettere che noi, eredi di quel lontano splendido passato, quelle doti non abbiamo. Noi, indegni nipoti, che hanno dilapidato un immenso patrimonio politico accumulato in un secolo di riflessione e lotte da parte di rivoluzionari accorti). E dico miracoli non per richiamarmi all’irrazionale, ma per sottolineare l’eccezionalità dell’impresa (NO, PER NULLA FACILE). Insisto: nelle condizioni di allora, 1917, si è trattato di una vera e propria scalata al cielo. Riuscita ai rivoluzionari russi per i loro meriti e per l’intervento del caso, di ciò che Machiavelli chiamava fortuna (e noi probabilmente dovremmo definire fluttuazioni quantistiche). Tant’è che in tutte le altre che il lavoro si è cimentato nell’impresa di modificare l’esistente (in Germania, in Spagna, in Ungheria, in Finlandia, in Cile) ha patito l’interruzione brusca dell’esperimento all’indomani stesso della “presa del potere”. Per non parlare delle altre esperienze in cui si è avvicinato al successo (l’Italia ad esempio) ma non ha saputo cogliere il vento capace di portarlo al livello del possibile in condensazione.

Le risposte dunque al quesito posto, possono essere fornite se si opera uno spostamento di problematica rispetto al diffuso pregiudizio corrente. A partire dal binomio “prendere il potere/perdere il potere”; e a patto che lo spostamento includa una presa di distanza dal discorso sulle difficoltà inerenti la costruzione del comunismo. Non perché queste difficoltà siano assenti. Queste difficoltà ci sono, e sono evidenti. Evidenti non da oggi. Da diecimila anni l’umanità lotta per riscoprire l’unità primordiale tra i fratelli, unità che ha superato gli angusti limiti tribali o nazionali, per dare luogo all’unità auspicabile nel XXI secolo, cioè il comunismo, un comunismo fondato sulle condizioni nuove create dall’irruzione nella storia della più dinamica tra le società antagoniste, il capitalismo; da diecimila anni i tentativi si susseguono, sfociati tutti in tragedie. La vendetta delle classi dominante minacciate è sempre stata terribile. Terribile anche lo stesso capitalismo. Ma l’ininterrotto sviluppo delle forze produttive, sua peculiarità storica, pone all’ordine del giorno, ogni giorno, la possibilità di innestare il processo di transizione. Può essere in qualsiasi momento. Basta una scintilla per dare fuoco alla prateria… ce lo ha insegnato Marx e finora non sono emersi elementi che possano farci ricredere, il comunismo contadino è sempre fallito per le caratteristiche specifiche del lavoro agricolo; per la separazione tra un operatore e l’altro; per la relativamente scarsa pratica della cooperazione; per la necessità di abbandonare gli eserciti ribelli e tornare ai campi e al duro lavoro necessario a procurarsi i mezzi per la sopravvivenza… il capitalismo invece avrà a che fare con il formidabile esercito operaio, concentrato nelle Unità Produttive; educato alla solidarietà dalla lunga abitudine alle lotte economiche e politiche; che ha preso fiducia nelle sue capacità dall’esperienza di governo diretto della produzione delle merci e distribuzione all’insieme sociale. Operaio chi dirige, operaio chi progetta, operaio chi produce, operaio chi distribuisce. Operai? Operai oppure piccoli borghesi proletarizzati…

Effettuiamo allora lo spostamento di problematiche preconizzato. Lo possiamo effettuare accennando alle possibilità nuove offerte alla rivoluzione dall’esperienza della Comune di Parigi. Nello stesso tempo La Comune indica la strada da percorrere e fonda la possibilità di completare il percorso. Marx, interpreta i fatti del 1870-71, evidenziando la necessità che non ci si limiti a prendere il potere, ma che la macchina statale, costruita sui bisogni della borghesia venga distrutta e sia sostituita con tutt’altra macchina, corrispondente ai bisogni del proletariato. Che fondamentalmente è di emanciparsi negandosi come classe, attraverso la costruzione di una società senza classi (incluso il proletariato); e perciò stesso una società senza Stato; le funzioni politiche essendo nel frattempo tutte diventate amministrative: semplificate e accessibili a qualsiasi cittadino si presti a svolgerle (niente più politici di professione).

Non dunque limitarsi a prendere il potere, ma distruggere quello esistente e sostituirlo con uno nuovo, inedito, costruito su misura dei bisogni del proletariato. O meglio sui bisogni relativi alla missione del proletariato di far da levatrice alla società nuova senza classi, quindi anche senza proletariato, quindi senza Stato (su questo punto la ripetizione non è solo opportuna, è doverosa). Il proletariato nei suoi sforzi di emancipazione, libera l’intera umanità, se lo deve proporre come obiettivo primario e come tale lo deve praticare. Condizione inderogabile quest’ultima, l’esercizio effettivo di questa pratica di liberazione (che prevede la liberazione dallo stato di classe) affinché possa conseguire i suoi fini.

Ma torniamo un po’ indietro per agganciare la realtà di ciò che è accaduto in Russia, alle difficoltà incontrate dalla masse nel costruire lo Stato di tipo Nuovo, foriera di una Umanità Nova. Difficoltà che riassumo nella seguente affermazione: precocità della crisi di sistema rispetto allo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Tutto si paga nella vita e nella storia. Il vantaggio conseguito, una volta che si siano anticipati gli eventi, può essere mantenuto a patto del succedersi di ulteriori straordinarie congiuntura politiche/sociali alle quali fornire altrettante straordinarie risposte.

Vediamole queste difficoltà che hanno portato la classe operaia mondiale al fallimento, sotto la specie del fallimento russo e cinese (in realtà un concerto di ostacoli soggettivi e oggettivi non superati che mi limito a elencare):

a) la resistenza accanita e straordinaria opposta dalle classi dominanti, con il conseguente prolungamento della guerra civile, il mantenimento dello stato straordinario e l’estinzione della classe operaia sui campi di battaglia;
b) il peso delle abitudini e delle tradizioni, di particolare rilievo quelle che hanno condizionato la Transizione in Russia e Cina;
c) la relativa arretratezza della formazione economico-sociale Russa (e Cinese); da cui la relativa scarsa socializzazione delle forze produttive, nonché scarso sviluppo della coscienza collettiva;
d) lo scarso peso numerico della classe operaia. Il fiume della classe operaia che si sperdeva nel gran mare dei contadini. In Cina i lavoratori produttivi operai non hanno svolto alcun ruolo importante dal 1927 in poi, anno in cui gli operai rivoluzionari, dopo aver rovesciato il feudalesimo, fondando la Comune di Canton, avevano poi consegnato il potere al generale Chiang Kai-shek. Ottenendo come ringraziamento di essere sparati legati alle bocche dei cannoni.
e) la straordinaria ed eccezionale combinazione tra distruzioni frutto della guerra imperialista e le successive conseguenti alla guerra civile;
f) gli errori dei bolscevichi, tra i quali è da sottolineare il riflesso conservatore che ha ispirato le misure autoritarie assunte di fronte ai rovesci militari prima e le difficoltà economiche poi;
g) i ritardi teorici dei bolscevichi; i quali, sommati a quelli umano personali, hanno prodotto effetti devastanti sull’effettivo funzionamento della Dittatura Proletaria (definitamente crollata, lo dico in prima approssimazione, tra i fatti di Kronstadt, 1921 e il 1927); la formazione ideologico-politica bolscevica non si è mai del tutto staccata dai limiti propri ai paradigmi scientifici della Seconda Internazionale;
h) l’insufficiente sviluppo del marxismo di Marx, presente nel Movimento Operaio Russo (e altrove) in una “variante” che riconduceva al passato, a prima delle rottura epistemologica di Marx, alcuni aspetti del marxismo;
i) l’influenza dell’ideologia borghese (dominante a livello mondiale), presente massicciamente, anche dopo la rivoluzione, nella coscienza medesima dei comunisti. I quali in particolare sui problemi dei metodi di lavoro e dell’organizzazione del lavoro non hanno pensato e praticato alcun sistema alternativo. Dominio del produttivismo e del fordismo;
j) la terribile ideologia del “sostitutismo”, dominante da un certo momento in poi nel Partito Comunista, che è alla base del processo di spoliazione del potere proletario. Tale ideologia permette, senza grandi sussulti, che la gestione della società e quelle delle Unità produttive, sia affidata al Partito e non direttamente ai lavoratori;
k) la rottura dell’alleanza operai-contadini, alle origini della restaurazione della Dittatura Borghese, a partire almeno dalla fine degli anni venti, realizzata attraverso la pianificazione e l’assegnazione ai contadini del costo della “accumulazione primitiva”;
l) l’ideologia dei Piani Quinquennali centralizzati, in contraddizione con una pianificazione effettiva “dal basso”, il cui carattere saliente è la funzione di sintesi e coordinamento del centro; e non, come concepito e realizzato, una programmazione nella quale la volontà del Comitato Centrale (leggasi Stalin) imponeva scopi e obiettivi a tutto il paese.

Come si vede c’è molto su cui riflettere (e forse non è tutto); molto su cui lavorare. Rispetto a questo molto è quantomeno insignificante richiamarsi alle “difficoltà” di costruzione del socialismo; difficoltà che, lo affermo sicuro che susciterò molte proteste, non differiscono da quelle di costruire un Movimento Operaio organizzato sufficientemente forte per lottare per una più equa distribuzione delle risorse. Difficoltà, che non cesserò mai di ribadire, sono le stesse inerenti la “presa del potere”; che diventa effettivo solo nel momento in cui (questo potere) produce atti consistenti di trasformazione della società.

Ora, tornando allo spostamento di problematiche, pongo una ultima domanda: i bolscevichi hanno effettivamente voluto e saputo costruire, come dicevano loro, uno stato che poteva essere gestito “anche da una cuoca”? Si sono effettivamente posti, non come ideale, ma come pratica effettiva, come spinta fondamentale delle scelte quotidiane, la costruzione di uno stato che aveva in sé la caratteristiche di essere uno stato in via di estinzione?

La risposta che fornisco e che alla base della loro sconfitta (anche personale: questo handicap li ha portati tutti alla morte) ci sia stata proprio l’assenza di questo concetto; o, al massimo, la percezione confusa dell’esigenza che descrive.

Non dubito, sia chiaro, della loro fedeltà e dedizione alla causa del proletariato; quel che dubito è che essi fossero sufficientemente consapevoli delle implicazioni degli ostacoli che la realtà gettava davanti ai loro piedi. Tolto Lenin, che disperatamente nel fuoco dello scontro ha dovuto più volte ingaggiare lunghe battaglie politiche per indirizzare sul giusto cammino l’intero partito, la risposta è che pochissimi, forse solo lui, nutrisse un qualche dubbio su alcune delle scelte che andavano facendo. Lo stesso Lenin pativa oscillazioni che, senza con questo volerne sminuire il ruolo, lo inducevano ad avallare scelte (sotto la spinta di potenti circostanze oggettive), sulle quali alla fine della vita ha operato più di un ripensamento. L’opera Stato e Rivoluzione, testimonia chiaramente che altra avrebbe dovuto essere per la lui la direzione di marcia. Non a caso ebbe una sorta di collasso da furore quando gli fu riferito dei metodi utilizzati da Stalin per normalizzare il partito georgiano. Non a caso, prima di morire, consigliò due volte il Comitato Centrale di non rinnovargli la carica di Segretario. Osservando crescere le discrasie tra intenzioni e risultati ebbe a dire che provava la terrificante sensazione di colui che alla guida di un’auto capitata su una lastra di ghiaccio, avverte che la stessa non rispondeva più ai suoi comandi.

Ma Lenin non era un supereroe del tipo che siamo ormai abituato a trovare nei fumetti e in certi romanzi di oggi. Era un uomo che doveva combattere con gli strumenti messi a disposizione, incluso un partito recalcitrante; doveva farlo per di più nel corso di un momento altissimo dello scontro di classe. Né lui, né altri potevano raddrizzare quell’auto in folle corsa verso la distruzione. Le masse erano esauste. I problemi economici gravissimi. Bisogni e richieste molte, scarsi i mezzi per soddisfarli. La Quinta Colonna staliniana già in funzione (burocratizzazione dell’apparato statale e del Partito). La morte di Lenin interviene a chiudere ogni possibile raddrizzamento della situazione.

Sia chiaro: l’analisi dello stalinismo non appartiene allo studio della storia del Comunismo. Riguarda piuttosto l’incontro di questa storia con un nemico tra i più feroci, secondo solo al nazifascismo. Riguarda anche le singole modalità attraverso cui il punto di vista dominante è penetrato nel movimento operaio, egemonizzandolo. A questo proposito è un errore attribuire l’involuzione (condensata nel fenomeno stalinismo) alla presenza di uomini in armi negli apparati statali. Dittatura del Proletariato può esserci esclusivamente dove il Proletariato è in armi. Per imporsi alla propria borghesia, per difendersi dalla reazione borghese.

 

Nella situazione data, esposta nelle linee essenziali, ancora una volta il compito era (ed è) di individuare i processi concreti attraverso i quali la tragedia si è consumata. Nessuna semplificazione è ammessa. O soffermarsi sull’equazione armi=reazione. Perché le formule, se servono alla propaganda, e non sono sicuro che servano, ostacolano il processo di elaborazione teorica. Ostacolano il processo di analisi, l’individuazione degli errori e delle cose da fare rispetto alle cose fatte. Sono essi, i processi concreti, guardandoli in profondità, che possono indirizzarci alla scoperta delle nostre diverse vie di oggi, di noi disastrati eredi di un glorioso passato.

  

D’altronde non è che i Lenin e i suoi fossero completamente ciechi sui perché dei vicoli ciechi in cui si stavano cacciando. La loro consapevolezza (senz’altro quella di Lenin) andava oltre la consapevolezza generica che la rivoluzione fosse in pericolo. Alcune cause le avevano ben chiare. Cause che per noi sembrano dimenticate. Il risorgere dello sciovinismo grande russo, l’arrivismo, il burocratismo, l’aggressione ideologica, politica ed economica del Capitalismo mondiale… Lenin tenta di ovviare attraverso grandi ed ampi dibattiti pubblici atti a individuare profittatori e arrivisti. A mobilitare le masse, a svilupparne le energie e metterle in campo. Fallisce. Non falliamo noi con lui perdendo di vista ciò che ci porta avanti e la zavorra da lasciarsi dietro. La strada lunga, le soluzioni probabilmente già sperimentate (vedi la Rivoluzione Culturale). Lenin non ha avuto il tempo di percorrerle fino in fondo. Non arriva alla Rivoluzione Culturale, sbocco inevitabile delle campagne di correzione e rettifica. Sopravviene la morte. La storia successiva alla sua morte quasi più non ci appartiene, essendo la storia della ritorno al potere della borghesia.

Per concludere. Non sono generiche difficoltà insite nel processo stesso di transizione a aver arrestato quello che verso la fine del ’17 le masse avevano iniziato in Russia; ma le specifiche difficoltà, nelle specifiche condizioni di quel processo. Condizioni che occorre studiare e sviscerare, tramite un dibattito tra comunisti che l’articolo di Zibechi offre l’occasione di innestare. Rendiamoci conto che non si tratta di navigare tra Scilla e Cariddi del possibile e dell’arduo, di battersi il petto o colpevolizzarsi per eventi dei quali noi comunisti siamo le prime vittime, la vittima prima essendo l’occasione di realizzare le aspirazioni all’uguaglianza, alla pace, al benessere diffuso. Il comunismo non è responsabile dei Gulag, se non nel senso indiretto di responsabilità per inefficace opposizione alla formazione degli stessi, nei quali hanno pagato lo scotto per tale inefficacia. Responsabilità che possiamo riassumere nella inefficace opposizione allo stalinismo. Ma chi è al mondo che può vantare di aver fatto meglio e più dei comunisti per la pace, la libertà e l’uguaglianza? Per il comunismo medesimo? Chi più dei comunisti ha lottato contro lo stalinismo? L’inadeguata opposizione di Trotsky, conseguenza alla sua inadeguata analisi della formazione che aveva contribuito a creare, non può farci dimenticare che per quella opposizione è stato assassinato. Che decine di migliaia di comunisti, per le medesime ragioni sono stati assassinati. Piangiamo pure le vittime di Stalin. Non dimentichiamo però che in prima fila tra le quelle vittime c’erano propri i comunisti, trattati nei campi di concentramento come i peggiori nemici, quelli sui quali ogni altro detenuto poteva sfogare i propri malumori. Anche i più volgari delinquenti venivano prima dei comunisti, gli ultimi (e tra questi, ultimissimi i trotskysti).

Abbandoniamo dunque lo schema:

1) la costruzione di una società rivoluzionaria è fallita, il dubbio è che fallirà di nuovo (forse sempre). Il dubbio, sono certo, non è dell’estensore dell’articolo, ad esso ci espone l’argomento scelto; da cui:

2) non attardiamoci nel tentare nuovi processi rivoluzionari. Forse riusciremo a prendere il potere; è quasi sicuro che, dopo aver tanto penato, e tanto patito, è probabile falliremo di nuovo.

Questo lo schema borghese, che sia inevitabile il fallimento. Non perché contino di convincerci, ma per instillare il veleno del dubbio nella nostra determinazione a organizzarci per lottare.

Comprendo che nessuno vuole arrivare a questo. Nemmeno i bolscevichi intendevano arrivare a Stalin. A Stalin sono arrivati. Nessuno è integralmente padrone del proprio destino. Della capacità di discernimento sì. Coltivata e curata può salvarci da molte trappole e molte delle menzogne in circolazione. Sappiamo tutti quanto possa il canto delle sirene borghesi!

Sono fiducioso comunque. So che troverò orecchie attenti. Lettori attentissimi che faranno le bucce a ciò che ho scritto, mettendo bene in evidenza gli inevitabili errori. Finché procederemo in questo modo, forti, perseveranti, aiutandoci l’un l’altro a crescere, a sottrarci all’influenza dell’ideologia borghese, non c’è arroganza masmediologica che ci possa sconfiggere. Che ci possa deviare.

Siamo stati sconfitti, lo saremo ancora. Non sconfitta la determinazione a essere presenti nello scontro di classe, a tentare di capire. A riflettere. A guardare avanti. Ma anzitutto a lottare, avendo bene compreso come lottare.

Una lotta che è appena cominciata e non finirà mai.

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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