Dentro il tunnel della guerra

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articoli, video e immagini di Domenico Starnone, Olivier Turquet, Miguel Martinez, Manlio Dinucci, Stefano Orsi, Giacomo Gabellini, Enrico Tomaselli, Francesco Cappello, Mario Lombardo, Ernesto Screpanti, Branko Milanovic, Fulvio Scaglione, Piero Pagliani, Primo Levi, Lorenzo Cremonesi, Pepe Escobar, Laura Ruggeri, Vittorio Rangeloni, Larry Romanoff, Gianmarco Pisa, Francesco Masala, Franco Astengo, Giorgio Ferrari, Marcia PerugiAssisi, Alfonso Navarra, TIR, Enrico Vigna, Alessandro Marescotti, Vauro, Yanis Varoufakis

La guerra che verrà: messaggio collettivo sui rischi catastrofici dell’escalation militare

Si stanno addestrando 15 mila soldati ucraini in Europa. Altri 10 mila nel Regno Unito per l’uso di nuove armi. La Russia recluta 300 mila soldati. Si profila uno scontro epocale. Zelensky ha chiesto alla Nato di colpire preventivamente la Russia. Rischiamo la terza guerra mondiale.

La guerra che verrà

Messaggio sui rischi catastrofici dell’escalation militare

Abbiamo anticipato ieri le ragioni della nostra scelta di lanciare questo preoccupato messaggio.

Dopo aver analizzato le agenzie stampa sull’Ucraina, comprese informazioni di fonte militare, vi riportiamo le ultime terribili novità che prefigurano le caratteristiche della guerra che verrà.

  1. Si stanno addestrando 15 mila soldati ucraini sul territorio europeo con i fondi per la pace dell’European Peace Facility. Ad essi si aggiungono 10 mila soldati ucraini addestrati dal Regno Unito per l’uso delle nuove armi. Totale 25 mila a cui aggiungere alcune migliaia di contractors finanziati dagli Stati Uniti con elevate competenze militari e pagati dai mille ai duemila dollari al giorno (fonte: Analisi Difesa). Si prepara quindi una potenza di assalto finalizzata a sfondare le difese russe e filorusse riguadagnando i territori persi.
  2. La Russia dal canto suo sta reclutando e addestrando 300 mila soldati per sostenere il colpo. Ci sarà quindi sempre più carne da cannone su entrambi i fronti.
  3. Intanto sono giunte in Ucraina nuove batterie dei micidiali lanciamissili Himars (High Mobility Artillery Rocket System), mentre l’Ucraina ha chiesto al Pentagono l’invio di missili Atacms (Army Tactical Missile System) capaci di colpire nel cuore della Crimea tutte le infrastrutture strategiche della Russia. Il Parlamento Europeo, nella risoluzione del 6 ottobre 2022, ha definito la riconquista della Crimea e del Donbass come obiettivo militare legittimo della guerra.
  4. Tutto questo sta mettendo alle corde Putin? È vero, come si legge sui giornali, che il suo potere vacilla? Assolutamente no. Un’alta fonte diplomatica, nel quartiere generale della Nato, ha riferito (come riporta l’Ansa): “Putin mantiene il controllo totale dell’apparato di sicurezza”. E anche: “Le informazioni raccolte finora indicano che non esiste, purtroppo, una seria minaccia al potere di Putin”.
  5. Si prepara quindi un ulteriore incattivimento del conflitto armato e un suo “allungamento” in stile prima guerra mondiale, una guerra che gli storici non studiano più in base al principio aggressore/aggredito ma in base ad altri criteri interpretativi di geopolitica che possano spiegare in profondità il protrarsi della guerra e la sua durata “infinita”. Se prima la “guerra infinita” era verso territori che non coinvolgevano direttamente le grandi potenze, adesso comincia la “guerra infinita” fra Occidente e Russia. Con India e Cina che rimangono neutrali e che non aderiscono alle sanzioni contro la Russia.
  6. L’inefficacia delle sanzioni è documentata. Sfruttando la rete di rapporti economici con il mondo non allineato alla Nato, la Russia ha quindi potuto reggere l’urto delle sanzioni occidentali. Il PIL russo calerà del 3,4% e non dell’8,5%, dato quest’ultimo che era già decisamente meno catastrofico della previsione di crollo dell’economia russa. Ricordate Biden che prevedeva di ridurre Putin a un “paria della scena internazionale”? Ricordate Mario Draghi che sul Corriere della Sera del 1 giugno scorso aveva definito Sanzioni Russia “un successo completo che non penalizza l’Italia”? Le cose sono andate diversamente. La Russia ha un rublo forte come non mai ed è la moneta più forte del mondo in questo momento. Nell’ultimo semestre Mosca ha incassato 158 miliardi per l’export di fonti fossili, ben più degli ultimi anni e più dei 100 miliardi spesi per la guerra. Ha incassato di più fornendo meno energia all’Europa. I grandi esperti europei che hanno progettato queste sanzioni e questa strategia hanno fallito. E ci stanno consolando sugli ipotetici effetti a lungo terminedelle sanzioni, mentre la gente ne sta già pagando quelli a breve termine. Putin vince quindi questa partita del gas con grande facilità. E il fatto che gli abbiano sabotato i gasdotti Nord Stream sembra quasi una vendetta di chi mastica amaro per gli errori di valutazione sugli effetti delle maldestre sanzioni.
  7. Putin inoltre punta a reagire agli attacchi militari distruggendo (è la prima volta che si verifica dall’inizio della guerra) il 30% della rete elettrica ucraina. Adotta la tattica militare di Israele verso i palestinesi: se mi fate un danno di 10 io rispondo facendovi un danno di 20 perché sono in grado di colpirvi ovunque. Tristissimo, ma è così.
  8. Infine Zelensky chiede alla Nato di colpire preventivamente in caso di rischio di conflitto nucleare. Non ha parlato di “nuclear first strike” ma ha parlato di attacco preventivo. Che si fa con le B61-12 se si vuole penetrare i bunker sotterranei russi. È la prima volta che accade, nella storia del secondo dopoguerra, che venga evocato un “attacco preventivo” contro la Russia da parte di un capo di stato. Poi ha detto che è stato male interpretato, che c’è stato un problema di traduzione distorta. Controllando accuratamente le fonti e le traduzioniabbiamo verificato che Zelensky ha dichiarato esattamente quello che tutte le agenzie stampa del mondo avevano scritto.
  9. Di fronte a questo, a nostro parere, il movimento pacifista dovrebbe esaminare con grande senso critico le richieste di Zelensky al fine di evitare una escalation e un allargamento della guerra. È stato aggredito, è  vero, ha il diritto internazionale dalla sua parte, è fuori di dubbio. Ma passare dalla ragione al torto è un attimo. Zelensky non ha nessun diritto di trascinarci nella terza guerra mondiale per conquistarsi la vittoria militare. Il movimento pacifista deve avere parole chiare per Zelensky, così come le ha avute per Putin.
  10. Le strade che possono portare alla pace esistonoe sono allegate a questo documento. Vanno sostenute con convinzione, prima che sia troppo tardi. Noi parteciperemo alle iniziative per fermare la guerra. Sostenendo papa Francesco.

La guerra che verrà

La guerra che verrà non è la prima.

Prima ci sono state altre guerre.

Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Fra i vinti la povera gente faceva la fame.

Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.

Bertolt Brecht

Questo messaggio è promosso da: Angelo Baracca, Carlo Belli, Antonio Bruno, Antonio Camuso, Giancarlo Canuto, Tiziano Cardosi, Nicoletta Dentico, Donatella Di Cesare, Anna Ferruzzo, Domenico Gallo, Ugo Giannangeli, Antonio Greco, Alessandra Mambelli, Alessandro Marescotti, Daniele Novara, Elio Pagani, Paolo Piccinno, Maurizio Portaluri, Etta Ragusa, Carlo Rovelli, Massimo Wertmüller, Alex Zanotelli.

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Apocalissi quotidiane – Domenico Starnone

Che diavolo è Armageddon? Biden ha pronunciato questa parola lasciando intendere che c’è da preoccuparsi. Putin ha destituito in fretta il suo feroce comandante in capo e lo ha rimpiazzato con un altro ancora più feroce che proprio Armageddon si fa chiamare. Mettiamoci nei panni del cittadino già pieno di problemi, che orecchia e pensa: bisogna preoccuparsi di questi Armageddon? Si era fatto convincere che tutto fosse lineare: Putin aggrediva, Zelenskyj si difendeva e noi occidente gli passavamo giustamente un po’ di armi per dargli una mano in vista della pace. Ma ora? Un giorno Putin fa sfracelli e il cittadino vorrebbe personalmente tagliargli la gola; l’altro giorno Zelenskyj pare il leader ben armato dell’Europa dei patrioti e si mostra più nazionalista del nazionalista aggressore. Il cittadino s’innervosisce, non vuole smontarsi e rimontarsi la testa a seconda delle nuove quotidiane. Trova quindi il tempo di informarsi e capisce che Putin e Biden, tirando in ballo Armageddon, hanno citato non un cartone animato ma l’Apocalisse. Har-magedòn, infatti, è il luogo dove tre spiriti immondi simili a rane chiamano i re al massacro finale. Sicché – si arrabbia il cittadino – sovrani del pianeta, tenetevi lontano da quel postaccio, parlatevi in un bar e poi rivelateci una buona volta cosa avete intenzione di fare con quelle teste e testate di merda che

Portate in giro senza vergogna.

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Premio Sacharov: la distanza tra i mondi – Olivier Turquet

L’inizio del discorso della Presidente Metsola annunciando il premio Sacharov assegnato al popolo ucraino e, nello specifico, ad alcune associazioni umanitarie, suona francamente un po’ bellicoso:

Questo premio è per gli ucraini che combattono sul campo. Per coloro che sono stati costretti a fuggire. Per coloro che hanno perso parenti e amici. Per tutti coloro che si alzano e combattono per ciò in cui credono. So che il coraggioso popolo ucraino non si arrenderà e non lo faremo nemmeno noi.

Per fortuna pochi minuti dopo, su Twitter, risponde con una eleganza impagabile Stella Assange:

Congratulazioni al popolo ucraino per aver ricevuto il #PremioSakharov.

Grazie a tutti coloro che hanno sostenuto la candidatura di #Assange. Con la nomina di Julian tra i tre finalisti (insieme alla Commissione per la Verità della Colombia), il Parlamento europeo ha inviato un messaggio importante: #freeAssangeNOW

Noi che abbiamo fatto il tifo esplicitamente perché il premio fosse assegnato a Julian siamo francamente delusi ma dobbiamo prendere la lezione di Stella e farne tesoro: il bicchiere mezzo pieno è che Assange sia stato finalista, un mattoncino in più nella grande costruzione che dice a chiare lettere FREEASSANGENOW.

Certo con tutto il rispetto e l’empatia per la gente ucraina martoriata da una guerra insensata non pare che sia lì dove si possa parlare di libertà di pensiero, quando più volte gli oppositori dell’attuale governo sono stati messi in galera, dove gli obiettori nonviolenti alla guerra vengono perseguitati, dove non è più possibile dissentire dalla vulgata guerrafondaia senza essere tacciati di filorussi.

Ci sono due mondi che si stanno sempre più allontanando e che le due frasi di Metsola e di Stella evidenziano bene: un mondo di certezze, violenza e imposizione e quel mondo di possibilità, di empatia, di critica e di collaborazione che la 24hAssange ha evidenziato sabato scorso e che continua nelle azioni di ognuno di noi.

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L’11 settembre dell’Europa, una promessa mantenuta – Miguel Martinez

L’11 settembre del 2001, un gruppo di sabotatori buttò giù il “Centro Mondiale del Commercio”, simbolo dell’economia statunitense.

Lo scorso 26 settembre, ignoti sabotatori, dotati di altissima professionalità militare, hanno distrutto le tubature del Nordstream – la principale infrastruttura su cui si regge l’economia tedesca e di riflesso quella europea.

Certo, non ci sono state vittime dirette, ma chi ha distrutto il Nordstream aveva a disposizione mezzi per colpire l’Europa ben diversi da un taglierino da puntare alla gola di un’hostess, e avevano come bersaglio un tubo subacqueo e non un palazzo pieno di donne delle pulizie messicane clandestine.

L’attentato del 26 settembre contro l’Europa è stato mille volte più efficace di quello dell’11 settembre contro gli Stati Uniti.

Quali sono state le reazioni, rispettivamente, all’11 e al 26 settembre?

Appena nove giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il Presidente degli Stati Uniti, davanti al Congresso e al Senato riuniti insieme, fece uno storico discorso.

Esordì dicendo di aver identificato i responsabili dell’attacco:

“Chi ha attaccato il nostro Paese?

Le prove che abbiamo raccolto indicano un insieme di organizzazioni terroristiche, note come Al Qaeda.”

Al-Qaeda, disse Bush, era protetta dal governo di uno specifico stato estero, l’Afghanistan.

A quello stato estero, Bush impose le seguenti “demands“:

— Consegnate alle autorità degli Stati Uniti tutti i leader di Al Qaeda che si nascondono nel vostro Paese.

[…] Date agli Stati Uniti pieno accesso ai campi di addestramento dei terroristi, in modo da assicurarsi che non siano più operativi.

Queste richieste non sono aperte a negoziati o discussioni.

[…]

Da oggi in poi, qualsiasi nazione che continui a ospitare o a sostenere il terrorismo sarà considerata dagli Stati Uniti come un regime ostile.”

Successivamente, una delle prove della tesi di Bush sarebbe diventato un video del 27 dicembre del 2001, in cui Osama bin Laden, senza apertamente rivendicare l’attentato alle Torri Gemelle, disse:

“È importante colpire l’economia, che è la base del loro potere militare…”

Esiste un altro video in cui l’attuale presidente degli Stati Uniti, Joseph Biden, rivendica, anzi promette, in anticipo, l’attacco al polmone dell’economia tedesca, in manera assai meno vaga di quanto abbia fatto Osama bin Laden parlando del Centro del Commercio Mondiale:

“Se la Russia invade, il che significa carri armati o truppe che attraversano di nuovo il… confine dell’Ucraina, allora non ci sarà… più un Nord Stream 2. Noi, noi porremo fine a questo progetto”.

Alla domanda su come, visto che il progetto è sotto il controllo tedesco, Biden ha risposto: “Vi prometto che saremo in grado di farlo.”

Ma c’è un tocco buffo, di cui mi sembra nessuno si sia ancora accorto.

Ascoltate attentamente il video:

Al minuto 1.23, Biden esordisce dicendo, If Germany… if Russia invades...”

Ovviamente è un innocente lapsus di un malato di Alzheimer che scambia il pulsantino dei like su Facebook con quello della bomba atomica, un lapsus provocato dalle domande precedenti che riguardavano la Germania; però fa sorridere.

Ora, non penso che nessuno abbia il minimo dubbio su chi abbia compiuto l’attentato per distruggere l’economia tedesca.

Un attentato avvenuto in una zona pattugliata esclusivamente dalla Sesta Flotta degli Stati Uniti, dove anzi alcuni mesi prima si erano svolte le manovre “Baltops”, focalizzate sull’utilizzo di droni subacquei.

Abbiamo visto come gli Stati Uniti hanno reagito all’11 settembre.

E gli europei, come hanno reagito al 26 settembre?

La deputata tedesca di sinistra, Sahra Wagenknecht, ha posto una semplice domanda al proprio governo: cosa ne sanno dell’attentato che ha distrutto l’infrastruttura vitale da cui dipende l’economia (e quindi il lavoro, le case, gli investimenti, la salute, per non parlare del riscaldamento) di 84 milioni di tedeschi?

Il governo tedesco, ha risposto

“Finora non è stato possibile effettuare indagini sul posto, per cui il governo federale non dispone di informazioni affidabili sulle possibili cause dell’attacco”, scrive il ministero nella sua risposta, disponibile per la Berliner Zeitung.

Il ministero Habeck ha risposto in modo evasivo, se non addirittura negativo, alla domanda su quali fossero gli avvertimenti del governo su possibili attacchi agli oleodotti e quali misure fossero state eventualmente adottate.

Il Segretario di Stato per gli Affari economici Patrick Graichen ha scritto che le infrastrutture critiche come i gasdotti Nord Stream sono fondamentalmente soggette a una minaccia astratta. Diverse migliaia di chilometri di oleodotti non possono essere “completamente protetti” contro ogni rischio. Non ci sono altre informazioni per il Parlamento.”

Buon inverno a tutti!

In fondo, che problema c’é?

Invece di chiedere che gli Stati Uniti ci consegnino i sabotatori, possiamo comprare da loro a quattro volte il prezzo, il gas estratto con la devastante pratica del fracking.

Ma quattro volte il prezzo (cifra, lo so, molto a caso) per l’elemento fondante di qualunque economia, l’energia, significa semplicemente la fine dell’economia europea, come fattore significativo nel mondo.

E’ un bene o un male, non lo so, magari il collasso di cinque secoli di arroganza non mi dispiacerebbe nemmeno, però poi ci sono di mezzo io e tutte le persone che mi sono care.

Ma mi sembra una questione di una gigantesca importanza.

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I virus delle guerre – Francesco Masala

Negli anni ‘20-’30 del secolo scorso gli Usa erano dentro una (grande) depressione, la via d’uscita fu la seconda guerra mondiale (in Europa); già da una trentina d’anni l’Impero del Male, gli Usa, soffrono periodicamente di gravi crisi economiche e finanziarie, da allora, sarà una coincidenza, l’uscita dalla crisi è stata una guerra, anzi guerre a mitraglia, Iraq e Afghanistan l’hanno capito sulla pelle dei loro morti.

Adesso, dopo un secolo, l’uscita dalla crisi economica e finanziaria degli Usa, (e del dollaro) è affidata a un’altra guerra mondiale, in Europa, cercando di rovinare la Russia, senza riuscirci, ma riuscendo a distruggere le economie dei paesi europei.

Qualcuno, smemorato, chiede che la pace sia, di nuovo, la riscrittura degli accordi di Minsk.

Come è possibile, si chiede qualcun altro, dopo quegli accordi gli ucraini usavano il Donbass come parco giochi e tiro a segno per i nazisti contro i russofoni di quelle province, e per anni nessuno dei governanti dei paesi europei ha detto niente, come pure quando ci fu il massacro di Odessa, il 2 maggio del 2014.

Intanto ufficialmente la Pfizer ha detto che “i vaccini non sono mai stati testati sulla loro capacità di limitare la trasmissibilità del virus”.

In un paese come il Giappone Ursula von der Leyen e Mario Draghi (e altre centinaia di potenti europei) si sarebbero inflitti il seppoku, ma non sapendo il giapponese almeno si sarebbero scusati in diretta in prima serata per il green pass, per il vaccino di fatto obbligatorio, per il reintegro e le scuse ai medici espulsi dal loro ordine professionale e dal lavoro, per le migliaia di morti per gli effetti collaterali del vaccino in Europa. In ogni caso dovrebbero dimettersi da tutto per sempre.

Eppure sono sempre loro, bugiardi laureati, a gestire la guerra contro la Russia e saranno loro a tagliare tutto il residuo welfare europeo per la follia guerrafondaia, prima per la distruzione dell?Ucraina, poi per la sua ricostruzione.

Un tempo i potenti avevano paura della ghigliottina, ma quei tempi sono passati.

Loro sono quelli che non devono chiedere (scusa), ma tanto nessuno glielo pretende, la stampa e le televisioni sono ormai cani da riporto del Potere.

Ascoltando e leggendo la stampa di regime si scopre che i droni usati dagli ucraini sono buoni, i droni usati dai russi sono cattivi; chi glielo spiega ai russi morti ammazzati che il merito è di un drone buono, chi glielo spiega agli ucraini morti ammazzati che la colpa è di un drone cattivo?

Pare che gli Stati Uniti d’America, come segno di buona volontà, contro tutte le annessioni, proporranno di restituire il Texas, annesso nel 1865, al Messico.

Monologo di un ubriaco, Zelensky: “Droni iraniani simbolo del fallimento russo“; ditegli che all’Ucraina “donano” quasi tutte le armi che usano in Ucraina, armi simbolo del fallimento ucraino e della morte, pare, di centomila soldati ucraini (compresi i “volontari”).

La terza guerra mondiale si avvicina.

 

 

Big clash – Enrico Tomaselli

…L’orientamento anglo-americano, come si è visto ad esempio in occasione della crisi Pelosi-Taiwan, è tendenzialmente quello di tirare al massimo, sin quasi al punto di rottura, sia per saggiare la reazione dell’avversario, sia per massimizzare il risultato. D’altra parte, proprio la sempre maggiore esposizione della NATO rende complicato allentare la presa, perché una sconfitta sul campo sarebbe disastrosa per l’egemonia americana e per la sopravvivenza della stessa NATO. A sua volta, per la Russia questa è una partita esiziale, ed ha messo molto in chiaro che è disposta a tutto pur di non perderla. L’accelerazione sull’annessione dei quattro oblast alla Federazione Russa è, da questo punto di vista, un segnale chiarissimo. Così come lo è la risposta all’attentato contro il ponte di Kersh.

In un quadro di tal fatta, è chiaro che si acutizzano le possibilità che l’escalation divenga incontrollabile.

USA e Russia stanno attraversando entrambe un momento di difficoltà. Per Mosca, l’evidenza di alcuni errori di sottovalutazione, duramente pagati sul campo, hanno reso necessaria una mobilitazione un po’ affrettata, ed a quanto pare anche con qualche defaillance, che ha prodotto più di un malumore, oltre quelli che hanno riguardato la gestione militare in sé. Per quanto riguarda Washington, invece, a parte una certa divaricazione tra Casa Bianca e Pentagono, relativamente alla condotta della guerra, pesa un malumore interno ed i crescenti mugugni europei. Con tutta evidenza, il sabotaggio dei North Stream 1 e 2 è un segno di debolezza; un po’ come un ragazzone grande e grosso che ingiunge ad un gruppo di bambini di non giocare con quello lì, ma che alla fine deve bucare il pallone per impedire che possano giocare comunque…

I mesi invernali , per quanto rendano più difficili le operazioni sul terreno, è probabile che vedano un intensificarsi dei combattimenti. L’Ucraina presto getterà in battaglia i 10.000 uomini che hanno appena terminato l’addestramento in Gran Bretagna, si vedrà se opterà per il fronte di Kharkiv al nord, dove comunque i russi sono tornati ad avanzare, recuperando parte del terreno perso, eppure al sud, sul fronte di Kherson – che rimane comunque quello strategico per Kyev, poiché da lì possono puntare ad isolare la Crimea ed a proteggere Odessa. Fermo restando che, se pure in quel settore – ricco di linee fortificate – il movimento è più lento, nel Donetsk occidentale i russi stanno macinando villaggio dopo villaggio, ed è presumibile che entro l’inverno arrivino a minacciare direttamente (se non a sfondare) la linea Sloviansk-Kramatorsk.

Nonostante tutto, i nodi cruciali per l’Ucraina restano le forniture di carri armati ed il personale combattente qualificato. Non è un caso che, diversamente dalla prima fase della guerra, oggi il numero di contractors sia nuovamente in crescita, e non si tratta più di singoli volontari che vanno in cerca d’avventura, ma di personale esperto, molto ben pagato, ed arruolato direttamente negli USA ed in UK. Mentre per i russi il problema principale, almeno finché le nuove reclute non arrivano al fronte, è la forte disparità numerica, che in buona misura li costringe sulla difensiva.

A preoccupare, quindi, non è tanto la minaccia nucleare – se la tua ambizione è il dominio, non vai incontro a morte sicura – quanto il fatto che i soggetti ai due capi della fune, a furia di tirarla finiscano col trovarsi faccia a faccia. E poiché nessuno dei due può perderla, continueranno a tirare, questo è poco ma sicuro. A quel punto, il rischio di un big clash, uno scontro violento e diretto, tra la NATO e la Russia, potrebbe diventare inevitabile.

Per questo, è più che mai urgente che emergano spinte ragionevoli a rallentare, e soprattutto che emergano dei mediatori credibili ed autorevoli, capaci quindi di portare ad una conclusione realistica del conflitto, e che consenta ai due avversari di uscirne senza apparire sconfitti.

Due elementi che, però, sono assai difficili da concretizzare, perché il realismo impone che l’Ucraina rinunci ai territori perduti, e questo – fintanto che la NATO continuerà ad urlare il proprio sostegno all’oltranzismo ucraino – rappresenterebbe una palese sconfitta per l’occidente atlantico.

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La guerra bombarda l’Europa – Francesco Cappello

La guerra alla Russia da parte degli USA colpisce pesantissimamente i paesi europei. Guerra, sanzioni e sabotaggi sempre più apertamente hanno lo scopo di aumentare la dipendenza europea da Washington e boicottare le relazioni russo-europee rendendo al contempo più difficili quelle con la Cina. Piuttosto che l’isolamento della Russia si consegue quello dei paesi Ue/Nato. Il sabotaggio dei gasdotti è stato un atto di guerra contro i paesi europei. Mettono a soqquadro il mondo intero per cercare di riguadagnare terreno e ristabilire l’egemonia perduta usando qualsiasi mezzo

Gli USA stanno togliendo all’Europa occidentale ogni possibilità di rifornirsi di gas dai suoi canali tradizionali. Non solo il gas russo come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare (1). Il gas liquefatto proveniente dagli USA è uno specchietto per allodole europee. Non ne hanno, infatti, a sufficienza anche per i propri usi interni.

Anche l’economia statunitense è in profonda crisi. Ricordiamo che OPEC +, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, ha deciso di diminuire la sua produzione di 2 milioni di barili al giorno; l’abbassamento dell’offerta ha la conseguenza di un prevedibile rialzo dei prezzi.

Si andrà avanti per un po’ con il gas accumulato nelle riserve nazionali ma le imprese europee, già in difficoltà prima della guerra, sono ora, prive di protezione, sotto i bombardamenti della guerra economica…

La produzione europea in lockdown

Una guerra economica che provoca dapprima una riduzione della produzione e successivamente e sempre più spesso chiusure e fallimenti. Molte aziende, quando sono in condizione di farlo, migrano (spesso verso gli USA). Milioni i posti di lavoro a rischio. In altri termini è in corso una deindustrializzazione rapida di Germania ed Italia – le due locomotive della manifattura europea – che trascineranno nel vortice della depressione gli altri paesi europei. I Paesi europei stanno affogando insieme senza riuscire a divincolarsi l’uno dall’altro mentre sprofondano… L’economia rallenta velocissimamente sottoposta a soffocamento rapido e progressivo…

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Yanis Varoufakis: “Il fallimento economico dell’Unione europea è inevitabile”

In un’intervista rilasciata all’emittente olandese NTV, l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis dipinge un quadro molto cupo: “il modello di business tedesco è fallito a causa dell’attuale crisi energetica e il fallimento economico dell’Unione europea è inevitabile”

“C’è un grande cambiamento: il modello economico tedesco è crollato. Il modello tedesco si basava sull’energia a basso costo proveniente dalla Russia, sulla vendita di prodotti in Cina e sui bassi salari in Germania. Ma la situazione attuale si presenta così: l’inflazione ha reso impossibile abbassare i salari, il gas è diventato costoso e la Cina sta scomparendo come mercato per la Germania a causa di una nuova guerra fredda tra Cina e Stati Uniti, che il governo Biden sta intensificando”, spiega Varoufakis.

“La costante insistenza dell’attuale governo federale tedesco – e dei governi precedenti – ad agire unilateralmente e quindi sostenere la strategia fiscale per realizzare un surplus di esportazioni – è un neo-mercantilismo che la Germania impedisce al resto dell’eurozona di attuare”, prosegue. “Per dirla in altro modo: la Germania non tiene conto dell’uguaglianza competitiva all’interno dell’Unione Europea”. 

Sul pacchetto di aiuti da 200 miliardi di euro della Germania.

“Si tratta di un doppio standard. La Germania insiste su un mercato unico e su una presunta parità di condizioni mentre spinge attraverso aiuti di Stato per la sua industria e i consumatori. Aiuti di Stato che il resto dell’UE non può introdurre a causa di regole di politica fiscale che si applicano a tutti tranne che alla Germania”

Molto interessante la conclusione di Varoufakis:

“Il problema con l’Unione europea è che non esiste affatto un’Unione europea. Come nome sì, ma non nella realtà. […] Il fallimento è garantito. Stiamo già assistendo a una rapida deindustrializzazione in Europa. Le società dell’UE pagano dieci volte di più per il gas rispetto ai loro concorrenti statunitensi o cinesi. C’è già l’interruzione della produzione e molto presto vedremo fabbriche alla ricerca di nuove sedi negli Stati Uniti o in altri paesi. L’UE è in una profonda crisi. Probabilmente non lo vedrai questo inverno, ma solo il prossimo. I serbatoi di stoccaggio del gas sono stati riempiti quest’estate, ma ciò avrà costi significativamente più elevati solo la prossima estate”

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Gli USA e il saccheggio della Siria – Mario Lombardo

…The Cradle spiega che il passaggio del greggio nelle mani dei militari USA avviene solo dopo l’approvazione di uno speciale ufficio governativo iracheno, che si occupa però soltanto delle forniture logistiche destinate alla “coalizione internazionale” anti-ISIS. Il governo di Baghdad, sostiene il sito web libanese, “non è verosimilmente del tutto all’oscuro di queste ripetute violazioni della propria sovranità e integrità territoriale”, ma non ha in pratica nessuna voce in capitolo sulle attività di contrabbando gestite dagli americani.

È anche alla luce di questo sistema costruito da Washington con il pretesto della guerra al “terrorismo” che vanno giudicate le parole di Biden e del segretario di Stato, Anthony Blinken, nelle loro recenti apparizioni alle Nazioni Unite. Il già citato discorso del presidente americano all’Assemblea Generale invitava, con riferimento alla Russia, a non consentire “l’occupazione di un territorio [di un paese sovrano] con la forza”. Blinken aveva invece parlato al Consiglio di Sicurezza, assicurando che “il sostegno internazionale alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina consiste nella protezione di un ordine internazionale nel quale nessuna nazione ha facoltà di ridisegnare i confini di un’altra con la forza”. Sempre che questa nazione non siano gli Stati Uniti o Israele.

Nella totale illegalità sia dal punto di vista del diritto internazionale sia da quello della legge americana, quindi, le forze armate USA non solo continuano a occupare una porzione di territorio di un paese sovrano, ma si assicurano di saccheggiarne le risorse e di ottenere profitti da esse. Per un breve periodo dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, Trump aveva provato a ritirare il contingente americano dalla Siria, ma era stato immediatamente stoppato dai vertici militari, dall’intelligence e dalle pressioni degli ambienti “neo-con”.

Oggi, perciò, non è ancora in vista nessun disimpegno. Anzi, notizie recenti indicano addirittura un rafforzamento della presenza militare americana in questo paese. Qualche giorno fa, fonti locali hanno infatti osservato l’arrivo presso la base statunitense situata nella provincia siriana di al-Hasakah di nuove armi ed equipaggiamenti provenienti dall’Iraq. Il convoglio con i nuovi rifornimenti era composto da 33 veicoli pesanti e almeno un aereo cargo atterrato in territorio siriano il 26 settembre scorso.

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Ucraina: la guerra di Putin, la guerra di Biden – Ernesto Screpanti

La guerra d’Ucraina può essere spiegata a tre livelli di profondità. È una guerra d’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, una guerra inter-imperiale per interposta nazione tra NATO e Russia, una guerra degli USA contro la Germaneu, l’Europa a trazione tedesca. Tutte e tre le spiegazioni sono valide. Qui mi concentro sulla terza. Preliminarmente però devo fornire due chiarimenti teorici.

Il primo riguarda la definizione di “sistema imperiale”. Un mondo dominato dagli imperi non è un caotico complesso di contrasti inter-imperiali. Normalmente funziona come un sistema abbastanza ordinato di relazioni internazionali, cosa che è resa possibile dal fatto che è regolato da una struttura di potere al vertice della quale c’è una potenza egemone.

Questa potenza assolve quattro funzioni fondamentali di governance globale, ponendosi come motore dell’accumulazione, banchiere, sceriffo e avanguardia culturale (Screpanti, 2014). Funziona come motore dell’accumulazione in quanto ha un grosso apparato industriale, un grosso Pil e un’elevata propensione alle importazioni, cosicché la sua crescita produttiva traina la crescita degli altri paesi. Se mantiene un consistente deficit commerciale e/o un consistente deficit del conto finanziario esporta moneta.

In tal modo fornisce al resto del mondo uno strumento di riserva e di pagamento internazionale, e questa è la funzione di banchiere globale. Inoltre, l’impero egemone può essere uno sceriffo globale in quanto possiede le più potenti forze armate del mondo, così da poter disciplinare i paesi canaglia, cioè quelli che non rispettano le regole del gioco.

Infine, in forza dell’enorme surplus che estrae da tutto il mondo, l’impero egemone investe massicciamente nella ricerca scientifica e tecnologica ponendosi all’avanguardia del progresso tecnico; non solo, ma date le sinergie tra le diverse dimensioni del lavoro intellettuale, la potenza egemone riesce anche a esportare nel mondo la propria cultura e l’ideologia delle proprie classi dominanti.

Nello svolgere questi servizi, l’impero egemone ottiene due grossi vantaggi economici. Può mantenere un sistematico deficit commerciale, in virtù del quale consuma più di quanto produce, e un sistematico deficit nel movimento dei capitali, con cui s’impossessa di risorse e capacità produttive di altri paesi. Può farlo perché paga i deficit esterni creando moneta. In sostanza estrae un surplus di merci e risorse dal resto del mondo pagandolo con “carta”.

Un sistema imperiale s’inceppa se il potere dell’egemone viene sfidato da altri imperi emergenti. Quando ciò accade, il mondo entra in una grande crisi sistemica che coinvolge l’economia, la politica e la cultura.

Ciò è accaduto, ad esempio, nella prima metà del ventesimo secolo, quando l’egemonia britannica, che aveva retto il mondo per un secolo, fu sfidata dall’impero tedesco e da quello americano. La grande crisi sistemica di allora è durata 31 anni, dal 1914 al 1945. In mezzo ci sono state due grandi guerre, due grandi rivoluzioni, la grande crisi del ’29, la stagnazione degli anni ’30, il crollo del gold standard e la nascita del fascismo. La crisi si risolse con la sconfitta dell’imperialismo tedesco, il ridimensionamento di quello inglese e l’emergere degli Stati Uniti come nuova potenza egemone.

La mia tesi è che all’inizio di questo millennio siamo entrati in una nuova grande crisi sistemica a causa del successo di due potenze imperiali, Cina e Germaneu, che stanno sfidando l’egemonia americana.

Il secondo chiarimento riguarda la necessità di separare la politica dall’economia. Anche sul piano delle relazioni internazionali esiste un’autonomia del politico. Da una parte c’è una spinta all’accumulazione capitalistica, che punta a estendere il dominio del capitale su scala mondiale attraverso l’internazionalizzazione delle imprese, l’espansione del commercio estero, lo sviluppo delle catene internazionali del valore.

I soggetti di questo processo costituiscono la classe dei capitalisti. Le loro relazioni economiche si evolvono attraverso processi di competizione oligopolistica. Dall’altra parte c’è un’autonoma spinta all’espansione degli imperi politici e all’aumento del loro potere. I soggetti di questo processo costituiscono il ceto dei politici di professione. Le loro relazioni passano per la competizione geostrategica.

All’interno di ogni impero politici e capitalisti cercano d’influenzarsi reciprocamente. Di solito ci riescono abbastanza bene, nel qual caso le azioni politiche ed economiche tendono a essere reciprocamente funzionali. Ma non sempre ciò accade, perché i due gruppi di soggetti hanno interessi diversi, gli uni mirando all’accumulazione di potere, gli altri all’accumulazione di capitale. Si tratta di vedere se, pur in presenza di contrasti disfunzionali temporanei, alla fine si afferma un predominio della spinta politica o di quella economica.

La tesi che sosterrò è che i conflitti geopolitici attuali, che sono finalizzati alla conquista dell’egemonia imperiale, risultano disfunzionali agli interessi del grande capitale multinazionale…

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L’ONU esiste ancora? – Branko Milanovic

Branko Milanovic critica severamente l’ONU e il suo segretario generale per la mancanza di iniziative a difesa della pace. Ricordando che l’ONU è l’unica istituzione creata dall’umanità con il compito di preservare la pace, Milanovic ne ripercorre la storia e indica alcuni fattori in grado di spiegare la sua latitanza nella guerra russo-ucraina: oltre agli interessi delle grandi potenze, il ruolo di miliardari e donatori del settore privato che, per l’insufficienza delle risorse dell’ONU, hanno assunto un ruolo sempre più importante

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite solo una settimana fa ha concluso la sua sessione annuale a New York. Non avevano mai partecipato così tanti capi di Stato e di governo. Ognuno di loro ha tenuto un discorso (per la maggior parte delle delegazioni limitato a 15 minuti). Il traffico a New York per un’intera settimana è stato caotico, con tutti quei delegati che facevano la spola tra alberghi e ristoranti.

L’ONU sembrerebbe, quindi, ben viva. In realtà, sulla più grande questione del pianeta, una guerra che è entrata nell’ottavo mese tra due Paesi che hanno una popolazione congiunta di 200 milioni di abitanti e uno dei quali possiede il più grande arsenale di armi nucleari – e minaccia di usarlo – l’ONU è stata una semplice spettatrice.

Il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, non si è praticamente sentito. Sulla questione vitale per cui sono state create prima la Società delle Nazioni e poi le Nazioni Unite – il mantenimento della pace nel mondo – sembra che non abbia nulla da dire se non banalità. Solo a conflitto inoltrato si è recato a Kiev e a Mosca. E questo è tutto.

Molti sostengono che il Segretario generale e il Segretariato dell’ONU siano boicottati dalle grandi potenze. I cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza possono porre il veto a qualsiasi decisione che non sia di loro gradimento. Questo è vero. Ma il Segretario generale può incidere sul corso delle cose. Ha un’autorità morale, ma deve decidere di usarla.

Anche senza il consenso delle grandi potenze, può cercare di portare le parti in conflitto al tavolo delle trattative. Può presentarsi a Ginevra, indicare la data in cui vuole che le “parti interessate” inviino i loro delegati, e aspettare. Se alcune non si presentano o lo ignorano, almeno sarà chiaro chi vuole proseguire la guerra e chi no. È l’unico attore non statale al mondo con questo tipo di autorità morale. Tecnicamente, il mondo gli ha affidato il compito di preservare la pace – o almeno il tentativo di preservare la pace. Ma sembra che egli abbia largamente fallito.

Non è, però, solo colpa di Guterres. Le origini del recente declino dell’ONU risalgono a 30 anni fa, alla fine della guerra fredda. Tre fattori hanno reso l’ONU di oggi forse peggiore persino della defunta Società delle Nazioni…

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I PUTINIANI SUL SERIO – Fulvio Scaglione

Putiniani. In questa grottesca categoria sono stati infilati a forza tutti coloro che, a torto o a ragione, hanno osato sollevare qualche dubbio su una narrazione che più o meno suona così: tutto ciò che noi (Usa, Ue, Nato ecc. ecc.) abbiamo fatto prima della guerra era giusto e legittimo (parliamone); la colpa della guerra cominciata il 24 febbraio è tutta della Russia (ovvio); tutto ciò che abbiamo fatto e stiamo facendo dopo il 24 febbraio è perfetto (dubitabile) e soprattutto inevitabile. Questa narrazione è ferrea, non ammette defezioni. E infatti nella categoria dei “putiniani” sono stati infilati a forza anche tutti coloro che pensano che la prima preoccupazione della grande politica, soprattutto in Europa, dovrebbe essere di far cessare le ostilità, di fermare la strage. Il che, tra l’altro, sarebbe nell’interesse primario dell’aggredito, più che in quello dell’aggressore.

Ma tant’è. Il paradosso sta nel fatto che i veri putiniani (senza virgolette e sul serio), cioè quelli che fanno gli interessi di Vladimir Putin e della classe dirigente russa che abita il Cremlino, sono proprio i sostenitori della guerra senza se e senza ma, della guerra da condurre fino allo sfinimento delle forze armate russe e/o al tracollo economico della Russia e a quello sociale del popolo russo, considerato colpevole quanto i suoi leader. Per capirlo, però, dovrebbero mettere il naso fuori dalla narrativa che hanno costruito e dalle paginate di giornale che compongono attingendo solo ai canali (Ukrinform, Unian, Ukrainskaya Pravda e compagnia) della propaganda ucraina. Che fa il suo mestiere in tempo di guerra, intendiamoci. Ma sempre propaganda resta.

In un periodo di evidente difficoltà al fronte e all’interno, il favore politico più grosso che si può fare a Putin e alla parte peggiore del suo sistema di potere è reiterare dichiarazioni di guerra alla Russia…

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La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro – Piero Pagliani

Introduzione: i lineamenti della crisi in breve

La formidabile espansione economica occidentale del dopoguerra, guidata dagli Stati Uniti, ultimi eredi dell’egemonia occidentale sulla maggior parte del mondo, che era culminata con l’Impero Britannico, è entrata in crisi verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di una crisi sistemica. Una crisi è sistemica quando non coinvolge un gruppo limitato di comparti economici né un gruppo limitato di Paesi ma investe tutta una economia-mondo e la sua organizzazione intorno al potere economico, finanziario, politico e militare di un centro egemone. Da quanto detto si capisce che ogni crisi sistemica ha un carattere “ibrido”, per l’appunto politico, militare, economico e finanziario. Ne ha ovviamente anche uno sociale, perché le economie-mondo reggono sistemi sociali e sono rette da rapporti sociali. E ne ha uno ideologico che riguarda il complesso delle idee dominanti.

Oggi l’economia-mondo in crisi ha un’estensione planetaria e il centro egemone in crisi sono gli Stati Uniti d’America. Ma la natura più spettacolare della crisi sistemica corrente è data dal fatto che con essa potrebbe chiudersi la lunghissima sequenza di economie-mondo che a partire da Venezia sono state centrate sull’Occidente e, al suo interno, la sequenza dei cicli sistemici dominati dal mondo anglosassone. Da qui il carattere fortemente ideologizzato dello scontro che va oltre le ovvie manovre di propaganda e disinformazione. Oltre ad avere arruolato militarmente gli eredi più puri del nazismo hitleriano, l’Occidente collettivo ha infatti dovuto riesumare anche l’armamentario lessicale del fascismo. Gli alti funzionari della UE ormai parlano della Russia in termini di “Paese non civilizzato” e dei Russi come “solo apparentemente europei”, così come al momento del lancio dell’Operazione Barbarossa si parlava di “barbarie dei territori orientali” e di popolazione “semiasiatica”. In definitiva, una professione di fede razzista da parte di chi per il resto della giornata parla di “inclusione” e “democrazia”.

La campagna d’odio contro tutto ciò che è russo, comprese la grande letteratura e la grande musica, parti integranti della cultura europea, racconta di uno stato di disperazione che conduce ad atti di autolesionismo, di automutilazione, che ritroviamo tali e quali nella sfera economica e sono il risultato di una perniciosa incapacità di adattamento.

Questa resistenza all’adattamento è in gran parte indotta dalla nazione egemone in crisi, di cui gli Europei sono semplici vassalli. Ma ha anche radici locali in quelle élite che sanno che la perdita di egemonia degli Stati Uniti travolgerebbe anche i propri straordinari patrimoni e interessi e le proprie posizioni di potere semidivine.

Il campanello d’allarme della crisi sistemica fu il Nixon shock del Ferragosto del 1971, quando il presidente degli Stati Uniti mise fine alla convertibilità del Dollaro in oro. Dopo quasi un decennio d’incertezza, dovuta al braccio di ferro tra Washington (il Potere del Territorio) e Wall Street (il Potere del Denaro), la pace tra i due poteri fu decretata dal Volcker shock, quando il neo appuntato presidente della Fed portò i tassi dei fondi federali dal 11.2% al picco del 20% nel giugno del 1981. Le conseguenze furono disoccupazione, fallimenti, concentrazione e centralizzazione di capitali e il raffreddamento dell’inflazione che per tutto il decennio precedente si era accompagnata alla stagnazione. Infatti le spinte inflazionistiche agevolate dal governo statunitense per rilanciare l’economia non avevano sortito alcun effetto data la perdurante crisi di profittabilità degli investimenti. I capitali man mano si spostavano dal commercio e dall’industria, cioè dall’economia reale, verso le speculazioni finanziarie rompendo gli argini delle restrizioni legislative nazionali anche grazie alle operazioni delle multinazionali che inizialmente cercavano di difendersi dall’instabilità dei cambi provocata dal Nixon shock. Col Volcker shock e l’avvento del presidente Reagan, emulato in Europa dalla signora Thatcher negli UK e poi via via da tutti gli altri Paesi della UE, gli investimenti nel circuito finanziario presero decisamente il sopravvento. Era iniziata la finanziarizzazione, storicamente segno di crisi, in cui l’accumulazione di capitale reale è stata esponenzialmente sostituita da quella di capitale fittizio, i cui valori nominali niente hanno a che vedere con la ricchezza reale prodotta o esistente. Si è così giunti ad ammassare titoli di credito totalmente inesigibili, come la strabiliante massa di prodotti derivati il cui valore nozionale per la Bank for International Settlements di Basilea ammonta a 558,1 trilioni di dollari (con una stima totale di 1 quadrilione di dollari calcolando anche i contratti non-Over The Counter). La sola prima cifra, quella più bassa, equivale al doppio della ricchezza immobiliare di tutto il Pianeta, a poco meno di 6 volte il denaro nel mondo (inteso come monete, banconote e depositi di ogni tipo) e a 6 volte il PIL mondiale. Se si considera la stima più alta abbiamo che i soli titoli derivati equivalgono a 10 volte il PIL mondiale 2021.

Questa ricchezza fittizia, ma politicamente e militarmente supportata e quindi attiva, se in Occidente dava spazio a fantasie che da noi ben si accompagnavano alla “Milano da bere”, come gli “intangible assetes”, il “knowledge management” e cose simili (tutti concetti che quando si cercava di concretizzare facevano semplicemente riferimento al delta tra il valore reale di un’azienda e il suo valore borsistico), fantasie che altre ne hanno generate grazie a immaginifici teorici della “sinistra marxista”, questa ricchezza fittizia, si diceva, nel concreto intercettava i profitti che venivano creati là dove solo era possibile crearli, cioè al di fuori dei circuiti capitalisti storici: alla finanziarizzazione era necessario accoppiare la globalizzazione.

Ma la globalizzazione faceva crescere potenze che collocate al di fuori del controllo politico occidentale, nel giro di un paio di decenni sarebbero emerse come competitor strategici degli USA, la Cina e la Russia, intorno alle quali si aggregava un numero crescente di Paesi che cercavano di sottrarsi al predominio dell’Occidente collettivo (si pensi alla Shanghai Cooperation Organisation o ai BRICS+).

Fin dal 2000 (si veda il report “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources For a New Century” del think tank neo-conservatore Project for a New American Century) si prevedeva che il decennio 2020 sarebbe stata l’ultima finestra utile entro la quale gli Usa potevano e dovevano intervenire, anche militarmente, in modo diretto contro i propri competitor per non perdere l’egemonia mondiale.

E così è stato.

La sequenza crisi sistemica-finanziarizzazione-guerre mondiali è ricorrente nella storia del capitalismo.

Dalla caduta dell’URSS abbiamo assistito a una guerra dopo l’altra: Jugoslavia (prima guerra in Europa dal 1945, e qualcuno già capiva che non sarebbe stata l’ultima) Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Yemen. E ora siamo di nuovo a una guerra europea, quella in Ucraina. Tutta questa cortina di fuoco, se da una parte serve a circondare la landmass eurasiatica (dove insistono quattro potenze atomiche, le nazioni più popolose del mondo, quella con la maggiore economia mondiale, ed è la sede di enormi e diversificate risorse naturali), dalla parte opposta serve a dividere l’Europa da essa e da buona parte dell’Africa. In altri termini serve a fare dell’Europa un’appendice incistata degli USA. E per far questo era necessario che la UE fosse “weaponized” (cioè trasformata in un’arma), diventasse un’estensione civile della Nato, da spendere contro la Russia, via l’Ucraina, la vittima sacrificale.

E qui arriviamo al centro del problema. Gli Stati Uniti, con tutti i suoi alleati, non sono in grado di sconfiggere in una guerra convenzionale né la Russia né la Cina. Vale la pena ricordare che il maresciallo Montgomery in un’audizione alla Camera dei Lord nel 1962 riguardante lo scenario di una futura terza guerra mondiale avvertì: «La regola 1, alla pagina 1 del manuale di guerra dice: “Mai marciare su Mosca”. La regola 2 dice: “Non combattete con un esercito di terra in Cina”».

In una guerra atomica saremmo tutti sconfitti, USA compresi. E lo sanno. Per lo meno c’è molta gente con posti di responsabilità negli Usa che lo sa perfettamente. A mio avviso lo sa anche Biden che è ondivagante perché deve tener testa a una massa di crazy freaks, a volte drammaticamente ideologizzati (il “Destino manifesto”), che non sanno cos’è una guerra convenzionale, men che meno sanno cos’è una guerra di difesa esistenziale (nozione che ai Russi è stata impressa nel DNA a suon di milioni di morti), e assolutamente non hanno idea di cosa sia una guerra atomica, pensano che poterebbe essere combattuta solo in Europa mentre loro stanno a guardare magari da un bunker extra lusso, e la cui unica strategia, sia economica che militare e politica, è rilanciare sempre esattamente la stessa mossa.

La crisi dei subprime fu, dopo le avvisaglie della crisi borsistica delle “dot-com” (cioè del “capitalismo immateriale”, del “capitalismo della conoscenza”), lo scoppio di un’enorme bolla di capitale fittizio. Grazie alla Cina la crisi fu faticosamente tamponata ma la logica occidentale di accumulazione rimaneva quella basata sul capitale fittizio. Tutte le mosse che avevano portato alla crisi vennero ripetute a scala ancora maggiore. Si pensi agli enormi quantitative easing in dollari o euro, che arrivavano all’economia reale solo col contagocce mentre la massa si fermava nei circuiti finanziari che la bloccavano lì. Ora incombe lo scoppio di una bolla colossale in un mondo non più globalizzato ma frammentato a livello geopolitico, commerciale e finanziario. Per mitigare lo scoppio si darà corso alle solite rapine: privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, scorrerie immobiliari, compressione dei salari e tutto il resto a cui destra e ancor più sinistra ci hanno abituati in questi anni [1]. Rapine che ridurranno la società in uno stato miserevole, ma che comunque non basteranno, per via delle grandezze in gioco, del fatto che la ricchezza esistente è uno stock finito e infine che queste manovre e l’isolamento mondiale a cui ci stiamo auto-condannando impediranno ogni ripresa, se non in limitati settori, e quindi la creazione di nuovi flussi di ricchezza.

Ne consegue che sarà necessaria una progressiva sospensione/limitazione/abolizione delle libertà democratiche di espressione, organizzazione, eccetera, libertà non più sostenute dallo sviluppo ma, anzi, ostacoli alla riorganizzazione sempre più violenta, sempre più urgente e sempre più veloce dei processi di accumulazione di denaro e di potere. Ovunque verrà applicata l’autorità di questo nuovo impero aristocratico, fondamentalmente una nuova talassocrazia, sia sulle “colonie esterne” sia sulle “colonie interne” si applicherà il metodo classico di appoggiarsi a forze e gruppi sociali elitari e reazionari, ma avendo cura di accendere i riflettori sulla patina “libertaria” di woke culture, del tutto inutile per redimere vecchi torti e non farne di nuovi, ma molto utile per abituare le persone ad aderire a protocolli ideologici e comportamentali decisi dall’alto.

Negli Usa, pervasi dai neocon, l’unica via di salvezza è vista nella ripresa del ruolo di potenza egemone mondiale che però deve passare dalla sconfitta della Cina che richiede a sua volta la sconfitta della Russia. Mentre si tenta questa strada, che necessariamente spacca il mondo in un terzo occidentale e in due terzi “altro” e che quindi spezza violentemente il circuito finanziarizzazione-globalizzazione, gli Usa possono solo rapinare i propri alleati a partire dalla (ancora per poco) ricca Europa. Ma se anche questa rapina riuscisse in pieno gli Usa, nella migliore delle ipotesi, finirebbero per rimanere bloccati in una situazione di ricchezza solipsistica simile a quella da cui dovettero uscire nel dopoguerra inventandosi la Guerra Fredda e rifornendo di dollari un’Europa che doveva essere ricostruita dopo la II Guerra Mondiale. Ma quel ciclo non sarebbe più ripetibile, perché la situazione mondiale è oggi drasticamente diversa e più che altro è drasticamente compromessa. Non è chiaro se in questo modo gli Usa intendono solo guadagnar tempo mentre cercano di indebolire i propri avversari in vista di una loro capitolazione, o se la nuova posizione di assoluto comando su 1/5 del globo (quasi un impero formale) sarà usata per negoziare i nuovi rapporti di forza in un mondo multipolare ormai impossibile da contrastare. Dipenderà dall’andamento della crisi.

Come procederà?

La crisi è direttamente proporzionale al tasso di finanziarizzazione, all’accumulo di capitali fittizi, e quindi è massima nell’Occidente collettivo dove, come si è visto, non verrebbe risolta nemmeno rovesciando sotto sopra il Vecchio Continente e i suoi sempre meno numerosi annessi e connessi.

La crisi è causata dai meccanismi mossi dalla logica dell’accumulazione. Quindi all’interno del costruendo impero formale a guida anglosassone essa non ha modo di essere risolta. La domanda allora immediata è: “Al suo esterno cosa sta succedendo, cosa succederà?”.

A questa domanda io non so rispondere. Se un mondo multipolare finalmente emergerà sarà perché l’Occidente collettivo, che oggi è neoliberista, sarà sconfitto da un Sud (o Est) collettivo di cui per ora non si capisce quale potrà essere la natura. O quanto meno, io non lo capisco.

In realtà, al di là del chiaro intento della Russia di spezzare il sempre più minaccioso assedio della Nato culminato con l’appoggio occidentale ai neo-nazisti ucraini, e della possibilità – prevista dal Cremlino – che una gran parte del Sud globale vi sta cogliendo per sottrarsi al secolare giogo dell’Occidente, in crisi e quindi sempre più rapinoso e aggressivo (due aspetti in diretto contrasto con la nozione di “egemonia”), non credo che nessuno possa in scienza e coscienza affermare di aver chiare le linee profonde della contrapposizione, quelle che plasmeranno il mondo a venire.

Si parla genericamente di uno scontro tra l’Occidente neoliberista e … . E manca il secondo termine. Spesso il “neoliberismo” viene inteso come una sorta di “fase terminale” del capitalismo (cosa che in sé non è) e altrettanto spesso viene enfatizzata la sua accezione ideologica, visibile nelle iperboli della woke culture che seppure hanno una relativa forza distruttiva, sono ancora solo “sperimentali” e minoritarie (anche se non sembra, per via di media e testimonial vociferanti) e hanno il compito di celare sostanziosi “fenomeni di classe” nazionali e internazionali che non si è quasi ancora iniziato ad analizzare (le eccezioni sono pregevoli ma rare e tenute in stato di clandestinità). Così, ipnotizzato dagli effetti speciali della woke culture, c’è chi si immagina uno scontro tra un mondo indirizzato verso il transumanesimo e un mondo che difende i valori umanistici, non di rado descritti come “valori tradizionali”. E quando si usa il concetto di “tradizione” si entra in una selva di rovi. Quando inizia e quando finisce la “tradizione”? Per qualcuno nel Medioevo – inteso in senso storico, non spregiativo – per qualcun altro nell’Illuminismo, e via così secondo i propri punti di riferimento. E dove è localizzata questa “tradizione”, in Europa, in Cina, in Russia, in Argentina, in Thailandia? A quale sistema filosofico fa riferimento? “Tradizione” vuol solo dire rifiutare gli insopportabili “genitore 1” e “genitore 2”? Consiglio di lasciare queste schermaglie al lato propagandistico dei discorsi di Vladimir Putin, il lato che, per ovvi motivi, vuol far leva sui sentimenti più condivisi della società russa, e alle anime candide che sono pronte a vedervi una natura reazionaria e addirittura “fascista”. Perché non è su questo che si giocano i destini del mondo.

Ma su che cosa, allora?…

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Canto dei morti invano

di Primo Levi

Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purché trattiate e contrattiate
Le vite dei nostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino,
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finché la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.

 

 

 

 

I russi “colpiscono obiettivi militari”. Quando è un giornalista del Corriere a smontare la propaganda NATO

Desta stupore quando a rompere il muro di propaganda dei media filo Nato sia un insider.

Intervenendo a Porta a Porta, il giornalista del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, noto per reportage filo Nato dalla Libia di cui ci siamo occupati in passato e quindi fonte sicuramente non certo “filo Putin”, ha dichiarato come la polizia e le autorità della regione di Zaporizhzhia gli abbiano detto “in modo confidenziale” come i russi colpiscano obiettivi militari. “Sono indirizzati verso obiettivi militari, come le caserme, i depositi di armi”, sottolinea il giornalista che poi centra un punto molto importante smontando di fatto la propaganda assillante di questi giorni. “Gli ucraini, dichiarando solamente i morti civili, e omettendo per ovvie ragioni quelli militari, danno l’impressione che i civili siano stati presi di mira deliberatamente.”

Essendo gli obiettivi militari – in particolare depositi di armi e infrastrutture legate all’esercito di Kiev – i morti sono quasi esclusivamente militari. Citando solo quelli civili comunicati dal regime di Zelensky, i media italiani alterano di proposito la percezione nella popolazione.

Ha ragione Cremonesi quando nel suo intervento sottolinea che adesso la situazione è cambiata e a Kiev sono piovuti 30 missili. Gli attentati terroristici contro centrali nucleari, gasdotti e ponti vitali per la Russia hanno portato Mosca ad alzare il livello dello scontro.

Per la Russia l’inizio dell'”operazione speciale” lasciava aperto ampio spazio per negoziati e trattative. Le infrastrutture amministrative ed energetiche colpite potevano essere colpite in qualunque momento, a dimostrazione della superiorità russa e a dispetto di chi nella stampa filo Nato parlava di esercito e paese in decomposizione. La Russia si è mantenuta fino all’attentato contro la Crimea su un binario circoscritto per non compromettere le trattative con l’occidente. L’Europa non ha accolto la via diplomatica e ha seguito quella barbarica della Nato – che ha utilizzato il regime di Kiev per arrivare allo scontro totale. alla risposta di oggi. A Washington, obiettivo raggiunto, si ride sopra le carcasse ormai in putrefazione dei poveri stati europei.

da qui

 

 

Che cosa ha detto esattamente Zelensky sull’attacco preventivo della Nato alla Russia? – Alessandro Marescotti

 

Intervenendo online all’Australian Lowy Institute, il presidente ucraino ha detto che, per escludere la possibilità dell’uso di armi nucleari da parte della Russia, la Nato dovrebbe prevedere attacchi preventivi. Poi Zelensky ha fatto sapere di essere stato male interpretato. Ma qual è la verità?

 

Dove e quando è intervenuto Zelensky

L’Australian Lowy Institute è una delle sedi del Lowy Institute che è un think tank indipendente fondato nel 2003. Al think tank è stato considerato da alcuni un centro studi di orientamento liberale, da altri di centro-destra e da altri ancora reazionario, come si legge su Wikipedia. Organizza conferenze e seminari.

Cosa ha detto Zelensky

Intervenendo all’Australian Lowy Istitute, il presidente ucraino avrebbe detto per “escludere la possibilità dell’uso di armi nucleari da parte della Russia”, la Nato “dovrebbe colpire preventivamente”. Questi virgolettati sono tratti dal sito del Fatto Quotidiano che titola:

“Nato dovrebbe attaccare preventivamente la Russia”: scontro su parole di Zelensky. Mosca: “Vuole guerra mondiale”. Kiev: “Parlava al passato”

PeaceLink ha subito rilanciato la notizia citando il Fatto Quotidiano.

Su Youtube c’è la videoconferenza di Zelensky, basata su un’intervista pubblicata sul canale della ABC, un’emittente pubblica australiana. Le sue parole sono state tradotte in inglese all’istante dall’interprete…

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La sottile linea rossa della NATO: “benvenuti nella vita sulla Soglia dell’Apocalisse” – Pepe Escobar

– Strategic Culture[Traduzione di Nora Hoppe]

 

Cominciamo con il Pipelineistan. Quasi sette anni fa, ho mostrato come la Siria sia stata l’ultima guerra del Pipelineistan.

Damasco aveva rifiutato il progetto – americano – di un gasdotto Qatar-Turchia, a vantaggio di Iran-Iraq-Siria (per il quale era stato firmato un memorandum d’intesa).

Ne è seguita una feroce e concertata campagna “Assad deve andarsene”: la guerra per procura come strada per il cambio di regime. Il quadrante tossico è aumentato esponenzialmente con la strumentalizzazione dell’ISIS –  un altro capitolo della guerra del terrore (corsivo mio). La Russia ha bloccato l’ISIS, impedendo così un cambio di regime a Damasco. Il gasdotto favorito dall’Impero del Caos ha morso la polvere.

Ora l’Impero si è finalmente vendicato, facendo esplodere i gasdotti esistenti – Nord Stream (NS) e Nord Stream 2 (NS2) – che trasportano o stanno per trasportare il gas russo a un importante concorrente economico dell’Impero: l’UE.

Ormai sappiamo tutti che la linea B di NS2 non è stata bombardata, né forata, ed è pronta a ripartire. Riparare le altre tre linee bucate non sarebbe un problema: una questione di due mesi, secondo gli ingegneri navali. L’acciaio delle Nord Stream è più spesso di quello delle navi moderne. Gazprom si è offerta di ripararle, a patto che gli europei si comportino da adulti e accettino severe condizioni di sicurezza.

Sappiamo tutti che questo non accadrà. Nulla di tutto ciò viene discusso dai media di NATOstan. Ciò significa che il Piano A dei soliti sospetti rimane in vigore: creare una carenza di gas naturale inventata, che porti alla deindustrializzazione dell’Europa, il tutto parte del Great Reset, ribattezzato “The Great Narrative” [“La Grande Narrativa”].

Nel frattempo, il Muppet Show dell’UE sta discutendo il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia. La Svezia si rifiuta di condividere con la Russia i risultati della losca “indagine” intra-NATO su chi ha fatto esplodere i Nord Stream.

Alla Settimana dell’Energia Russa, il Presidente Putin ha riassunto i fatti:

L’Europa incolpa la Russia per l’affidabilità delle sue forniture energetiche, anche se riceveva l’intero volume acquistato in base a contratti fissi.

Gli “orchestratori degli attacchi terroristici del Nord Stream sono coloro che ne traggono profitto“.

La riparazione dei fili del Nord Stream “avrebbe senso solo nel caso in cui il funzionamento e la sicurezza continuassero“.

L’acquisto di gas sul mercato spot causerà una perdita di 300 miliardi di euro per l’Europa.

L’aumento dei prezzi dell’energia non è dovuto all’Operazione Militare Speciale (OMS), ma alle politiche dell’Occidente.

Ma lo spettacolo dei Dead Can Dance deve continuare. Mentre l’UE si proibisce di acquistare l’energia russa, l’eurocrazia di Bruxelles aumenta il proprio debito nei confronti del casinò finanziario. I padroni imperiali ridono fino in fondo con questa forma di collettivismo – mentre continuano a trarre profitto dall’uso dei mercati finanziari per saccheggiare e depredare intere nazioni.

Il che ci porta al fattore decisivo: gli psicopatici straussiani/neo-con che controllano la politica estera di Washington alla fine potrebbero – e la parola chiave è “potrebbero” – smettere di armare Kiev e iniziare i negoziati con Mosca solo dopo che i loro principali concorrenti industriali in Europa saranno falliti.

Ma anche questo non sarebbe sufficiente – perché uno dei principali mandati “invisibili” della NATO è quello di capitalizzare, con qualsiasi mezzo, le risorse alimentari della steppa pontico-caspica: stiamo parlando di 1 milione di km2 di produzione alimentare dalla Bulgaria fino alla Russia…

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L’Europa alla canna del gas: disastri e profitti in tempo di guerra – Giorgio Ferrari

L’espressione lessicale “essere alla canna del gas”, viene usata metaforicamente, tra il tragico e il grottesco, per rappresentare una situazione disperata tale per cui, volendo porvi fine, non resta che attaccarsi al tubo del gas e succhiare forte. Paradossalmente, dopo il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (NS1 e NS2), questa possibilità non è più a portata di mano della stragrande maggioranza della popolazione europea la quale, ben lungi dal volersi suicidare, avrebbe voluto continuare a “succhiare” il gas russo (magari tappandosi il naso).

Nell’intricato scenario che abbiamo di fronte, l’azione distruttiva dello scorso 26 settembre contro i due gasdotti, segna una svolta nell’andamento del conflitto ukraino, non tanto da un punto di vista militare, quanto per le conseguenze ambientali e sociali che ne derivano.

Conseguenze ambientali

Entrambi i gasdotti erano fuori servizio al momento del sabotaggio, il NS1 per via delle controversie riguardanti le turbine Siemens della stazione di pompaggio russa, mentre il NS2 -benché ultimato e collaudato – non era mai entrato in servizio. Come previsto dalle norme di sicurezza internazionali, le quattro tubazioni di cui si compongono i gasdotti (anche se non operativi) erano piene di gas in pressione per cui la rapida depressurizzazione dei tubi conseguente alla rottura, ha causato la fuoriuscita del gas che vi era contenuto, stimato in 800 milioni di metri cubi (secondo Gazprom) o, più verosimilmente, tra i 400 e i 500 milioni, secondo altre stime, che hanno dato vita ad enormi bolle sulla superficie del Mar Baltico.

Si tratta, evidentemente, di un impatto rilevante date le caratteristiche climalteranti del gas metano1, (secondo Greenpeace ciò equivale all’emissione di 30 milioni di tonnellate di CO2 nell’arco di 20 anni) che però, in valore assoluto, rappresentano solo lo 0,2% delle missioni totali di CO2 in atmosfera: come dire una extrasistole in un battito cardiaco già di per sé accelerato.

Più preoccupante l’impatto diretto sull’ambiente marino (plankton e phitoplankot) di un mare decisamente poco profondo e molto trafficato come il Baltico, in cui gli effetti a lungo termine del rilascio di centinaia di milioni di metri cubi di metano, possono indurre significativi processi di ossidazione microbica che, a loro volta, tendono ad aumentare l’acidità del mare2.

Tuttavia la risonanza dell’avvenimento e la trattazione mediatica che ne è seguita (l’auto-attentato di matrice russa), hanno distolto l’attenzione dalle ricadute ambientali di medio-lungo termine conseguenti all’interruzione nella fornitura di gas russo che, invece, si presentano tutt’altro che trascurabili.

Tenendo conto della tabella di marcia stabilita dalla Unione Europea (UE) per raggiungere la “neutralità climatica” (riduzione del 55% nelle emissioni di CO2 al 2035 e zero emissioni nel 2050), è un fatto che l’operatività di gasdotti come il NS 1 e 2 ne avrebbe facilitato il compito dato che, a parità di consumi decrescenti di gas, ma ancora necessari di qui al 2035 e al 2050, essi rappresentavano “il meno peggio” tra le soluzioni a disposizione, costituite dai gasdotti via terra e dalle navi metaniere.

A differenza delle pipelines che attraversano Ukraina, Bielorussia e Polonia, questi gasdotti sottomarini non hanno stazioni di pompaggio intermedie che sono fonte di considerevoli rilasci di metano in atmosfera valutabili, in un arco di 40 anni e per una portata di 55 miliardi di metri cubi/anno (cioè pari a quella del NS 1), in circa 200 milioni di tonnellate di CO2. Ancora più onerosa per l’ambiente è l’alternativa rappresentata dal GNL (Gas naturale liquefatto) che ha due tipi di impatto: uno riguarda la fase a monte della liquefazione, cioè estrazione e purificazione del metano di cui la tecnologia del fracking comporta enormi consumi di acqua e danni consistenti alla geomorfologia del sito di estrazione. L’altro attiene all’energia necessaria ai processi di liquefazione, rigassificazione e trasporto del gas, ma soprattutto alle perdite di metano che si verificano durante queste fasi. L’insieme di queste attività produce emissioni stimate tra 719 e 880 gr di CO2 per ogni Kg di GNL prodotto3 per cui, immaginando di sostituire l’equivalente portata del NS 1 (che è di 55 miliardi di metri cubi/anno) con GNL, le emissioni associate oscillerebbero tra 28 e 35 milioni di tonnellate di CO2/anno, con l’impiego di 600-650 navi gasiere/anno che superano di 12 volte la disponibilità dell’attuale flotta di GNL carriers.4

Gli interessi in gioco

Il sabotaggio dei gasdotti NS 1 e 2 rappresenta un duro colpo per la Russia. Dal punto di vista tecnico, per quanto economicamente oneroso, il danno sarebbe riparabile in 5-6 mesi, ma a ciò si frappongono gli ostacoli derivanti dalle sanzioni, a causa delle quali è molto difficile per la Russia ingaggiare nuovamente le ditte che effettuarono la posa in opera dei gasdotti (come la Snam) ed ottenere i “permessi di lavoro” in acque territoriali della Danimarca e della Svezia che hanno già opposto rifiuto alla richiesta russa di collaborare nella loro indagine sulle responsabilità dell’attentato.

Se dunque la Russia pensava, in un ottica di distensione, di giocare ancora la carta del ripristino delle forniture di gas in cambio del ritiro delle sanzioni, ora non può più farlo e non può, nemmeno, prevedere quando e se le sarà possibile effettuare le riparazioni.

D’altro canto il sabotaggio dei gasdotti segna un punto di non ritorno soprattutto per la UE che, in apparenza, può sostenere che la loro definitiva messa fuori servizio non influisce sulla decisione già presa di rendersi indipendente dal gas russo (semmai la rafforza!), ma questo vuol dire anche che l’Europa ha tagliato i ponti dietro di sé ed ora è costretta veramente a rimpiazzare la quota di gas che le veniva dal Nord Stream, sperando che, nel frattempo, la fornitura di gas russo che transita ancora attraverso l’Ukraina (42 milioni di metri cubi al giorno, di cui non si fa mai menzione) non venga interrotta.

Su questo specifico aspetto si è fatta molta propaganda e altrettanti “buoni affari” per le majors del settore gas. La propaganda è consistita nell’assicurare l’opinione pubblica che, attraverso la rete dei gasdotti “altri” (non russi) che alimentano i paesi europei e ricorrendo all’importazione di GNL, si era in grado di fare a meno del gas russo. I gasdotti altri sono quelli provenienti da Norvegia, Algeria, Libia e Azerbaigian (attraverso il TAP); cassata la Libia (per ovvi motivi di inaffidabilità) tutti gli altri gasdotti operano già al limite della capacità e gli accordi presi in sede UE o dal Presidente del consiglio Draghi e dal Ministro Cingolani, rappresentano dei pannicelli caldi in quanto il limite nella fornitura di gas via gasdotto è rappresentato dal gasdotto stesso. Detto in parole semplici la quantità massima di gas che può passare attraverso un tubo è influenzata dalle caratteristiche del gas (temperatura e pressione) ma è decisamente ancorata alla sezione del tubo: si può aumentare un poco la portata agendo sulla pressione, ma più di tanto non si può, se non si vuole rischiare l’integrità dell’opera. Non a caso gli accordi presi prevedono 5 miliardi di metri cubi in più dall’Algeria verso l’Italia e 10-15 miliardi in più dalla Norvegia (verso l’Europa, ma non per l’Italia) la quale non mette certo in discussione i contratti a lungo termine che ha con il Regno Unito, con la Francia e con la Germania che le assorbono il 90% delle esportazioni.

Resta la carta del GNL il cui limite operativo non dipende da fattori tecnologici, ma dalle infrastrutture che sono rappresentate dal numero di carriers disponibili sul mercato e dai terminali di liquefazione (in partenza) e di rigassificazione (in arrivo). Negli Usa (principale esportatore di GNL in Europa) si stanno realizzando enormi investimenti per raddoppiare i “treni”5di produzione che già ora consentono di esportare 95 miliardi di metri cubi di GNL in tutto il mondo attraverso sette terminali di cui quattro situati nel Golfo del Messico, due sulla costa atlantica e uno in Alaska a cui però non fa riscontro un altrettanto sviluppo dei terminali di ricezione sulle coste europee.

Oltre a questo collo di bottiglia c’è da mettere in conto la questione del trasporto del GNL che richiede uno specifico tipo di navi (gasiere o LNG carriers) in numero decisamente crescente che, oltre all’aumento dei noli, sta determinando una serie di “disastri” economici ed ecologici.

Il gas della “libertà”

Forse non c’è parola al mondo più abusata di “Libertà”, così come non c’è nazione che eguagli gli Stati Uniti d’America nell’aver saputo utilizzarla come vessillo di guerra.

Tra il 1941 e il 1945 molti cantieri navali statunitensi furono adibiti alla costruzione di navi da trasporto di materiale bellico e truppe da inviare in Europa: a questa classe di navi, concepite per il solo viaggio di andata, fu dato il nome di “Liberty”6.

Dopo gli attentati alle torri gemelle del 2001 furono avviate dagli Usa varie operazioni militari contro il terrorismo internazionale, tutte denominate “Enduring freedom”, (Afghanistan, Filippine e Corno d’Africa) di cui, quella in Afghanistan, ebbe termine solamente nel dicembre del 2014.

Il 20 marzo del 2003 ebbe inizio la seconda guerra contro l’Iraq con lanci di missili e bombardamenti aerei praticamente trasmessi in diretta TV: all’operazione fu dato il nome di “Iraqi freedom”.

Nel maggio del 2019 il presidente Trump autorizzò il Dipartimento dell’energia americano a lanciare una campagna di promozione internazionale dello shale gas (fracking) chiamandolo “freedom gas”7. Nel luglio dello stesso anno, il segretario all’energia Rick Perry, durante una conferenza stampa tenuta a Bruxelles, disse: “Gli Stati Uniti stanno nuovamente offrendo una forma di libertà al continente europeo, ma invece che sotto forma di giovani soldati americani, è sotto forma di gas naturale liquefatto”.

Oggi questo gas è divenuto parte integrante del conflitto ukraino non solo perché, secondo la narrazione dominante, ci affrancherebbe dalla “schiavitù” del gas russo, ma soprattutto perché con esso si gonfiano come non mai i profitti di altri esportatori di gas, quali la Norvegia e gli Usa8.

A questo proposito andrebbe denunciato che, mentre si è portato a giustificazione della rinuncia al gas russo il fatto che vendendolo all’Europa, Putin finanziava la guerra in Ukraina, si è celato che la stessa cosa la sta facendo Biden con il GNL, incamerando una media di 90 milioni di dollari al giorno di tasse federali sulle entrate derivanti dall’esportazione del “gas della libertà”, che ripagano in larga parte gli aiuti militari Usa all’Ukraina…

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Partenariato Orientale: la scommessa geopolitica dell’Ue che sta inabissando l’Europa – Laura Ruggeri

La cooptazione di sei paesi ex-sovietici da parte dell’Unione Europea li ha trasformati in un campo di battaglia per la guerra ibrida contro la Russia e ha fondamentalmente minato l’architettura della sicurezza europea.

Nel febbraio 2007, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, Vladimir Putin  pronunciò un discorso molto incisivo che segnalava la ritrovata fiducia in se stessa della Russia e annunciava il desiderio e la disponibilità di Mosca a svolgere un ruolo di primo piano nelle relazioni internazionali. In quella sede il presidente russo criticò come pericolosi e futili i tentativi degli Stati Uniti di creare un ordine mondiale unipolare in un momento in cui stavano emergendo molti nuovi poli. Sottolineò anche con forza che l’espansione della NATO e il dispiegamento di sistemi missilistici nell’Europa orientale costituivano una minaccia per la sicurezza della Russia. Gli Stati Uniti ritennero il suo discorso un atto di sfida: le relazioni USA-Russia diventarono più fredde, più tese e Washington iniziò ad elaborare nuovi piani per contenere le legittime aspirazioni della Russia. L’attuazione di questi piani richiedeva una più stretta collaborazione tra la NATO e l’Unione Europea: spinta dagli USA, l’UE  decise di intensificare il suo coinvolgimento nello spazio post-sovietico.

Ovviamente, l’UE aveva sempre avuto un interesse per i paesi situati fuori dai propri confini. Ad esempio, la strategia di sicurezza europea (ESS) del 2003 aveva già raccomandato un “impegno preventivo” attraverso la promozione di “un anello di paesi ben governati a est dell’Unione europea”(1), ma mancava un quadro istituzionale per coordinare gli sforzi. Il cambio di passo fu sollecitato dagli Stati Uniti dopo il discorso di Monaco.

Nel maggio 2008, al Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne dell’UE a Bruxelles, Polonia e Svezia presentarono la proposta di un partenariato speciale con Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina. Durante il vertice di Praga del maggio 2009, il concetto venne ufficialmente tradotto nel Partenariato Orientale (EaP).

Apparentemente il Partenariato Orientale fu lanciato per rafforzare la cooperazione economica e politica tra l’UE e i paesi ex sovietici parallelamente alla cooperazione con la Russia, ma presto divenne chiaro che i suoi obiettivi reali erano piuttosto diversi: strappare questi paesi alla Russia, trascinarli nella sfera di influenza occidentale, dove ci si aspettava che contribuissero alla politica di sicurezza e difesa comune dell’UE e, ultimo ma non meno importante, la loro trasformazione in una piattaforma di lancio per la guerra ibrida che sarebbe stata condotta contro la Russia.

Non sorprende che gli “architetti” del partenariato orientale fossero due noti russofobi, entrambi ben inseriti nella rete di influenza anglo-americana.

Radoslaw Sikorski, un ex membro del think tank neocon American Enterprise Institute, due anni prima aveva rinunciato alla cittadinanza britannica, ma non alla sua fedeltà al Regno Unito, per diventare prima ministro della Difesa e poi ministro degli Affari Esteri nel suo paese natale, la Polonia. Il suo amico e collaboratore, Carl Bildt, impopolare Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri in Svezia, aveva ricoperto posizioni di rilievo in influenti think tank atlantisti. In veste di entusiasta lobbista della guerra, anche lui aveva mantenuto relazioni molto strette con i neocon americani che lo utilizzavano per portare avanti i loro programmi in Europa: nei cablogrammi diplomatici statunitensi pubblicati da Wikileaks, Carl Bildt è stato descritto come “un cane di taglia media con l’atteggiamento di un cane di grossa taglia”, una descrizione poco lusinghiera ma calzante per chi ha il compito di tutelare gli interessi del suo padrone. Il tradimento della neutralità formale del suo paese e la collaborazione con una potenza straniera risale agli anni ’80, quando passò documenti governativi riservati ad un addetto dell’ambasciata statunitense.(2)…

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Oggi vi racconterò la storia di un eroe…- Vittorio Nicola Rangeloni

Un eroe, un combattente, un amico, un ragazzo che a poco più di vent’anni ha deciso di dedicare la sua vita ad una causa più grande di lui. Quel fuoco interiore che arde nelle anime dei giovani, quell’istinto di ribellarsi al mondo e la voglia di scalare le vette più alte della vita lo hanno portato a cercare qualcosa per cui valesse la pena battersi. Avrebbe potuto comodamente scegliere una di quelle battaglie preconfezionate e abbracciate da molti ragazzi più per moda che per convinzione. Ma lui non era così, doveva fare qualcosa di vero, di reale. Le sue scelte e motivazioni lo hanno spinto fino in Donbass.

Appena arrivato in Donbass, direttamente dall’Italia, si è subito immerso nelle profonde trincee non lontano da un villaggio sperduto. Ha vissuto per oltre un anno con i miliziani di Donetsk condividendo mille difficoltà, nel periodo frustrante degli “accordi di Minsk”, dove ai colpi di mortaio potevano al massimo rispondere con la mitragliatrice. Con due lire in tasca come rimborso spese ottenuti dalla milizia popolare, ma tanta tanta voglia di essere d’aiuto. In poco tempo ha imparato la lingua, oltre che a maneggiare gli attrezzi del mestiere. Puntava sempre ad analizzare e apprendere dalle esperienze proprie e altrui per migliorarsi.

Sicuramente qualcuno tenterà di infangarne il nome, arricchendo il suo articoletto con le solite etichette per attirare l’attenzione, like o semplicemente per buttare fango su un’anima che ha avuto la colpa di vivere una vita diversa, per qualcuno sbagliata. Non mancheranno i termini bestemmia come “mercenario”, “estremista”, “putiniano”, “fascista”, “comunista”. Tutto ciò era proprio quello che lui schifava e ripudiava. Chi utilizzerà questi termini non ha capito nulla di lui e mai comprenderà le scelte di persone simili.

Era consapevole e convinto di quel che stava facendo. Fino all’ultimo, anche ieri mattina, quando con il suo gruppo è partito per l’ennesima missione finalizzata ad allontanare il fronte dalla città martire di Donetsk.

“Il nostro lavoro almeno non è vano? Stanno sparando meno sulla città dopo la nostra avanzata a Peski? Ci sono meno vittime tra i civili?”. Questo era Elia, un semplice ragazzo italiano che ha fatto una scelta di vita che rimarrà incomprensibile a molti suoi connazionali. Questo era la storia di un caro amico, finita troppo presto nelle trincee non lontano da Donetsk.

Riposa in pace

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Guerra in Ucraina: a fianco dei disertori

Nel tragico scenario della guerra che si sta combattendo in Ucraina, e in coerenza con la nostra posizione antimilitarista, è importante manifestare in maniera chiara il sostegno ai disertori e renitenti alla leva sia in Russia che in Ucraina.

In Ucraina le frontiere sono chiuse sin da febbraio per tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni. La debole legge sull’obiezione di coscienza in Ucraina è stata sospesa e le 5.000 domande di servizio civile respinte.
In Russia da mesi c’è un esodo che si è intensificato nelle ultime settimane, dopo la mobilitazione di 300.000 riservisti. Dal 28 settembre anche le frontiere russe sono chiuse per chi non vuole fare la guerra.

La scelta di non combattere per gli stati e per gli eserciti, non è “solo” un modo di salvarsi la vita ma è anche uno strumento potente che, se diventasse di massa da entrambi i lati, potrebbe porre fine al conflitto.

Anche in tempi di guerre sempre più tecnologiche l’elemento umano è ancora determinante per le campagne belliche ed è per questo che la scelta di non combattere viene duramente perseguita su entrambi i lati del fronte attraverso carcerazioni, persecuzioni e campagne mediatiche che tacciano di “tradimento” e “viltà” chi compie questa scelta.

Invece per noi la diserzione è un atto di libertà che non può che avere la solidarietà esplicita di chiunque porti avanti un antimilitarismo radicale.

Già in questo senso alcune aree pacifiste nelle ultime settimane hanno fatto delle iniziative, segnale indubbiamente positivo che però non basta. Come anarchiche e anarchici della FAI abbiamo ritenuto perciò importante dare inizio ad una campagna di solidarietà e per l’apertura delle frontiere che andrà avanti anche nei prossimi mesi e che diventerà parte integrante della nostra attività antimilitarista e contro tutte le guerre.

Per questo nella giornata di sabato 15 ottobre si sono svolte varie iniziative di appoggio a chi sceglie di disertare la guerra. Striscioni, volantinaggi, interventi nelle piazze contro la guerra e antirazziste si sono svolti a Torino, Reggio Emilia, Palermo, Livorno, Roma, Trieste, Milano…

Di questo tema se ne parlerà anche all’Assemblea Antimilitarista del 23 ottobre a Massenzatico, e di sicuro sarà uno dei temi al centro delle iniziative attorno al 4 novembre.

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ECCEZIONALISMO AMERICANO – Larry Romanoff

“Benvenuti in America, la Terra della Libertà”, recitano i cartelli all’aeroporto internazionale di Washington, mentre vi mettete in fila per farvi prendere le impronte digitali e ispezionare le vostre cavità corporee alla ricerca di mini ordigni nucleari.

Avrei potuto intitolare questo articolo “Gettare il sasso nello stagno”. Nel tentativo di prevenire la prevedibile valanga di dissensi, confermo la mia conoscenza delle statistiche prodotte da un’ampia gamma di individui e istituzioni, con intenti e ideologie molto diversi, e che possono “dimostrare” quasi tutto ciò che si vuole dimostrare, come il coefficiente GINI. Le statistiche su cui si basa questo articolo non sono state selezionate in modo incauto e non sono invalidate dalla disaffezione di un lettore.

Gli Stati Uniti sono i migliori solo nell’essere i peggiori

Gli Stati Uniti hanno oggi la più grande disuguaglianza di reddito di tutte le nazioni occidentali [1] [2], superando la Cina e anche più di qualche nazione non sviluppata. Da ciò deriva la più bassa mobilità sociale della maggior parte delle nazioni (3), il che significa che migliorare la propria posizione nella vita sta diventando sempre più impossibile. Se i vostri genitori non sono istruiti e ricchi, non lo sarete mai neanche voi, e il Sogno Americano è morto. Oggi gli Stati Uniti hanno la classe media più piccola e la classe bassa più numerosa di tutte le principali nazioni; la classe media è stata in gran parte distrutta nel 2008 – processo che si sta completando oggi – e probabilmente non si riprenderà mai più. Gli americani hanno il maggior numero di debiti personali tra tutte le nazioni (4), compresi quelli delle carte di credito e dei prestiti studenteschi sempre più impagabili, e gli Stati Uniti sono ora in testa alla classifica mondiale dei fallimenti personali (5). Dal 2008, secondo le statistiche del governo americano, gli Stati Uniti hanno la più bassa percentuale di proprietà di case (57%) (6), al 43° posto nel mondo, molto al di sotto della Cina con il 90% (7), e l’America ha ora un’epidemia virtuale di senzatetto rispetto alla maggior parte delle altre nazioni, con milioni di famiglie senza tetto con bambini.

Il tasso di povertà negli Stati Uniti è straordinario: le statistiche ufficiali lo collocano al 13%, ma in realtà più del 25% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, nella maggior parte dei casi molto al di sotto (8). Gli Stati Uniti hanno anche la più alta percentuale di bambini che vivono in povertà e quasi un terzo di tutti i cittadini statunitensi dipende dai buoni pasto e da altri aiuti governativi per sopravvivere (9). Anche la disoccupazione è straordinaria. Secondo le statistiche del governo, il 40% degli americani in età lavorativa non ha un lavoro (10) (11), e molti degli altri sono sottoccupati e lavorano solo a tempo parziale. Sono solo le città americane o quelle delle nazioni più impoverite a contenere vaste aree di degrado urbano e baraccopoli disperate come quelle di Detroit e Chicago, in cui la metà delle aree è una landa desolata e violenta dove nessuno va…

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Manifestare per la pace – Gianmarco Pisa

Manifestare, assumere un’iniziativa, scendere in piazza per la pace, meglio ancora, si può dire, «contro la guerra e per la pace», è opportuno, necessario, importante. Opportuno, anzitutto, perché occorre dare voce ed espressione, tangibile e visibile, a quella larga maggioranza del popolo italiano che si è espressa e continua a esprimersi contro la guerra, con specifico riferimento alla guerra più recente, quella che oppone la Russia e la NATO in Ucraina. Come ha riportato, lo scorso 15 luglio, un articolo di antimafiaduemila, «dal 20 maggio all’8 luglio gli italiani che … pensano che bisognerebbe continuare a inviare armi a Kiev si attestano su una media del 16%, … mentre con maggiore favore, tra il 19% e il 31%, è vista l’opzione di mantenere le sanzioni ma smettere di mandare armi.

Un dato rilevante … evidenzia che al netto della percentuale di chi non esprime la propria opinione, la maggioranza relativa degli intervistati auspica il ritiro delle sanzioni e l’assunzione da parte dell’Italia del ruolo di mediazione (tra il 26% e il 28%). Rispetto all’aumento delle spese militari, inoltre, prevale un atteggiamento prevalentemente pacifista dell’opinione pubblica italiana, con un 60% … in disaccordo con la scelta governativa di aumentare le spese militari, stando alle rilevazioni periodiche di Emg Different. Le percentuali di quanti invece si mostrerebbero favorevoli a un tale incremento si attesterebbero a un massimo del 30%».

Necessario, quindi, perché sempre più la dinamica della guerra e i suoi effetti economici e sociali, in particolare sui Paesi europei, si stanno rivelando insostenibili, con una escalation di distruzione e di morte sul campo di battaglia e con pesanti ripercussioni sulle economie e sulle società del Vecchio Continente, come emerge dal Report FragilItalia, di Area Studi Legacoop e Ipsos, secondo il quale «rispetto a inizio anno aumentano le difficoltà di pagare rate di finanziamenti personali (… 66%), di pagare l’affitto (… 65%) e di pagare il mutuo (… 61%). A pagare il prezzo più alto, i giovani della fascia 18-30 anni (il 76% ha difficoltà a pagare l’affitto), i residenti nel Mezzogiorno, gli appartenenti al ceto popolare (dove l’85% dichiara difficoltà a pagare le rate del mutuo e l’84% i canoni dell’affitto) e medio-basso.

Ma sono anche i consumi a risentirne. L’81% (2 punti in più rispetto a inizio anno) dichiara di dover ridurre i consumi, o rinunciarvi, di gas ed energia elettrica; il 75% (4 punti in più) di abbigliamento; il 74% (3 punti in più) di benzina e gasolio; … il 62% (1 punto in più) di carne. In testa alla lista dei consumi che subiranno drastici tagli o la completa rinuncia si colloca l’abbigliamento (33%), seguito … dalle scarpe e dal gas ed energia elettrica (entrambi al 29%) e da benzina e gasolio (26%)».

Importante, appunto, perché prendere parola e assumere un’iniziativa contro la guerra e per la pace e, nello specifico del conflitto ucraino, per la fine di tutte le iniziative e le misure utili solo ad alimentare la guerra e la prosecuzione delle ostilità, per la fine della fornitura di armi all’Ucraina e la fine delle sanzioni alla Russia, per la cessazione dell’escalation e un immediato cessate-il-fuoco, per l’apertura di spazi per la soluzione diplomatica del conflitto basata su ipotesi di mutuo beneficio e di reciproca sicurezza (anche sulla base dello spirito dei protocolli di Minsk del settembre 2014 e del febbraio 2015, contemperando i principi di integrità territoriale e di autodeterminazione dei popoli e assicurando uno spazio di sicurezza libero dalla minaccia rappresentata dalle ingerenze USA e NATO sino ai confini della Federazione Russa), significa, al tempo stesso, riportare la logica della pace (del dialogo e della politica, del confronto e della diplomazia) e non la follia della guerra (con cui provare a imporre nuovi disegni egemonici o domini unipolari) al centro della politica e delle relazioni internazionali.

Non di meno, manifestare per la pace, assumere un’iniziativa in direzione del superamento e della trasformazione del conflitto e, in definitiva, della fine della guerra e della costruzione della «pace con mezzi pacifici», comporta anche un’assunzione di responsabilità che interroga, al tempo stesso, la credibilità di chi si fa interprete di proposte di manifestazione e di iniziativa e l’impegno di un’articolazione sociale la più incisiva ed efficace possibile rispetto agli obiettivi delle azioni che si vanno proponendo.

Anche per questo hanno suscitato reazioni comprensibilmente contrastanti le proposte di manifestazione sin qui avanzate a livello istituzionale: da quella lanciata, con una recente intervista al Fatto Quotidiano, da Giuseppe Conte per «una manifestazione senza sigle e senza bandiere, aperta a tutti i cittadini che nutrono forte preoccupazione per il crinale che il conflitto in Ucraina sta prendendo», a quella proposta dal presidente della giunta della Regione Campania, Vincenzo de Luca, quest’ultima con l’obiettivo di «un cessate-il-fuoco di un mese, per ridare spazio a organismi nazionali e internazionali, ad autorità religiose e morali, al mondo della cultura, per lo sviluppo di iniziative di pace».

Occorre, viceversa, un’iniziativa di pace sociale e politica al tempo stesso, di ispirazione sociale e di caratura politica, tale da porsi, cioè, nell’ottica di costruire la piattaforma più avanzata possibile capace di mobilitare lo schieramento sociale più ampio possibile, in maniera incisiva e non episodica, alimentando la mobilitazione e facendo politica per la pace, e per la «pace positiva», nel senso della pace, dei diritti e della giustizia sociale. Un segnale in questa direzione, per la platea coinvolta e la tempistica indicata, giunge dall’appello «Non per noi, ma per tutte e tutti» per una manifestazione nazionale il 5 novembre «per la pace, la giustizia sociale e ambientale, contro le diseguaglianze e l’esclusione», in una dimensione «plurale, partecipata, democratica, conflittuale per rimettere al centro la voce dei diritti, contro le disuguaglianze e l’esclusione, per la giustizia sociale e ambientale».

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LA VOLONTÀ’ E L’IDEA DI PACE SONO SCOLPITE NEL CUORE DEL POPOLO ITALIANO – Franco Astengo

L’orrore per ciò che sta accadendo e il rifiuto di ciò che potrebbe succedere nel prossimo futuro appaiono gli elementi distintivi del giudizio che sta fornendo il popolo italiano sui drammatici avvenimenti in corso sul fronte di guerra.

Non pare esserci spazio pubblico per qualche vate di rinnovate “radiose giornate di maggio” e le posizioni di convenienza internazionale dei governi non appaiono fondate su un reale e concreto consenso popolare: prima fra tutte quelle dell’invio di ulteriori armamenti sui quali si fonderebbe una nuova escalation bellica.

Inutile scrivere che questa posizione non è filo-questo o filo-quello ma nasce da una insopprimibile idea di pace e di sviluppo che sta nel cuore del nostro popolo e dei popoli europei: anzi proprio la pace, e non le schermaglie dei vari convegni di Bruxelles, rappresenta il vero e solo fondamento possibile per l’unità europea.

La destra ha vinto le elezioni non tanto su di un nazionalismo di tipo “bellico” ma su di una ricerca di “protezione” di tanti ceti sociali in difficoltà e ormai smarriti: alla destra è stato lasciato uno spazio enorme non affrontando i temi della condizione materiale della vita nel nostro tempo.

I partiti della sinistra “naturalmente” pacifista sono stati timidi a proclamare queste verità, anche nel corso della recente campagna elettorale.

Era possibile appoggiarsi meglio a due pilastri e trovare così una migliore tensione unitaria.

Il primo pilastro è quello rappresentato dai settori cattolici impegnati in questo campo richiamandosi ad appelli che arrivano direttamente dalla loro suprema magistratura (a volte sembra di risentire “l’inutile strage” di Benedetto XV) e il secondo da quei riferimenti alla storia socialista che ancora si collocano nella scia del rifiuto dei crediti di guerra di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht e poi alle conferenze di Zimmerwald e Kienthal fino alla lotta dei “partigiani della pace” contro l’escalation nucleare (oggi tornata tragicamente d’attualità) e la battaglia contro i missili d’Occidente e d’Oriente negli anni’80.

Ci si è presentati invece pieni di buone intenzioni ma poste dentro a contenitori di sostanziale “indeterminatezza populista”.

E’ necessaria un forte iniziativa a livello internazionale perché ci ponga come obiettivo il rilancio delle grandi organizzazioni sovra – nazionali e la loro democratizzazione in un mondo completamente cambiato rispetto a quando fu fondata l’ONU.

La manifestazione del 5 novembre dovrà rappresentare la vera e propria cartina di tornasole della forza dell’idea di pace mostrandone anche la necessaria estensione di massa: certo ci sono da compiere dei passi indietro e qualche passo avanti e non sarà facile.

Non ci sono alternative se intendiamo restare umani.

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5 punti di partenza per un cessate il fuoco e un negoziato possibile e necessario

La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta. È caso ampiamente contemplato nei manuali di strategia. Di fronte a questa minaccia l’opinione pubblica sembra pericolosamente assuefatta. Nessuna forte reazione popolare, nessuna convinta e razionale volontà di impedirla. Si diffonde una pericolosa sensazione di inevitabilità e di rassegnazione, o, peggio, l’idea che solo una “resa dei conti” possa far nascere un nuovo e stabile ordine mondiale.

Ma oggi nessuna guerra può imporre un ordine sotto le cui macerie non restino il pianeta, i popoli, l’umanità tutta. Non ci si può rassegnare. Ma a una volontà razionale di pace bisogna offrire uno scenario credibile per chiudere questo conflitto, divampato con l’aggressione russa al di là delle gravissime tensioni nel Donbass. Un conflitto che non può avere la vittoria tutta da una parte e la sconfitta tutta dall’altra, secondo una concezione manichea del mondo e della storia.

 

Tutti gli attori in conflitto, quelli che stanno sul teatro di guerra e quelli che l’alimentano o non lo impediscono, ne devono essere consapevoli. Bisogna fermare l’escalation e impedire la catastrofe del sonnambulismo. In quest’ottica riteniamo che i governi responsabili debbano muoversi su queste linee:

1) Neutralità di un’Ucraina che entri nell’Unione Europea, ma non nella Nato, secondo l’impegno riconosciuto, anche se solo verbale, degli Stati Uniti alla Russia di Gorbaciov dopo la caduta del muro e lo scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia.

2) Concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Kruscev alla Repubblica Sovietica Ucraina.

3) Autonomia delle Regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione dell’Onu.

4) Definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle Regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse.

5) Simmetrica descalation delle sanzioni europee e internazionali e dell’impegno militare russo nella regione.

6) Piano internazionale di ricostruzione dell’Ucraina.

A nostro avviso questi possono essere i punti di partenza realistici e credibili per un cessate il fuoco. In una direzione simile va da ultimo la proposta di Elon Musk, e da tempo le sollecitazioni di Henry Kissinger a una soluzione che nel rispetto delle ragioni dell’Ucraina offra insieme una via d’uscita al fallimento militare di Putin sul terreno. Fondamentalmente sono le linee più credibili di un negoziato possibile e necessario, anche per l’unica Agenzia mondiale all’opera davvero per la pace, la Chiesa di Roma.

Questa soluzione conviene a tutti, anche all’Occidente e in particolare ai Paesi dell’Unione Europea, i più minacciati dall’ipotesi di un disperato attacco nucleare russo. E all’Ucraina stessa, se non vorrà essere la nuova Corea nel cuore dell’Europa per i prossimi 50 anni. Liberiamo la ragione e la politica dalle pastoie dell’odio, e forse troveremo anche il cuore e l’intelligenza per mettere fine a questo macello. È un invito rivolto a tutti, a quanti ascoltandolo vorranno rilanciarlo e farsene carico.

Antonio Baldassarre, Pietrangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Agostino Carrino, Francesca Izzo, Mauro Magatti, Eugenio Mazzarella, Giuseppe Vacca, Marcello Veneziani, Stefano Zamagni   (Avvenire o.l. 17.102022)

 

 

IL CRIMINE DELLA GUERRA

Angelo Gaccione è poeta, scrittore e intellettuale impegnato. Ha fondato e anima costantemente la rivista “Odissea”. Con lo scrittore e pacifista Carlo Cassola ha dato vita a suo tempo alla “Lega per il disarmo unilaterale”.

I suoi interventi sull’attuale guerra in Ucraina li ha raccolti nel volumetto “Scritti contro la guerra”. A partire da questo testo, si è organizzato il seguente incontro

Milano – mercoledì 26 ottobre 2022 alle ore 18

presso

Biblioteca Chiesa Rossa
Via San Domenico Savio 3 – 20141 Milano
(tram 3 e 15; MM2/verde-capolinea piazza Abbiategrasso)

Giorgio Riolo conversa con Angelo Gaccione
e il suo pamphlet “Scritti contro la guerra”

Testimonianze di:
Giuseppe Bruzzone (Storico obiettore di coscienza)
Giovanni Bonomo (avvocato)

organizza il Centro Comunitario Puecher

 

Appello “Cura, non bombe!”

Cura, non bombe. Di questo abbiamo bisogno. Che senso ha continuare a buttare tanti soldi per le armi quando mancano per difenderci dai cambiamenti climatici, assicurare il diritto alla salute, investire sull’educazione dei giovani e dare un lavoro dignitoso a chi non ce l’ha?

La pandemia, il cambiamento climatico, la guerra e l’ingiustizia economica ci stanno impoverendo. Milioni di famiglie, donne e uomini, bambini, giovani e anziani stanno subendo un continuo peggioramento delle condizioni di vita. Ma, più in generale, nessuno si sente più realmente al sicuro. Cosa dobbiamo fare?

Per decenni abbiamo consumato risorse immense in armi ed eserciti. E anche oggi si pretende di aumentare ancora la spesa militare. Dicono che è necessario per la nostra sicurezza. Ma il risultato è che viviamo in un mondo sempre più povero e insicuro, pieno di guerre che diventano sempre più estese e allarmanti. Un mondo sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Per questo dobbiamo cambiare.

La vera sicurezza di cui ci dobbiamo preoccupare è la sicurezza delle persone che non riescono ad arrivare a fine mese, che sono costrette a sopravvivere nella più totale incertezza, in ambienti malsani, senza dignità, diritti né legge, in balia della paura e della violenza, dell’illegalità, di sfruttatori, criminali e mafie. E’ di loro che ci dobbiamo occupare, come stabilito dalla nostra Costituzione (art. 2 e 3), nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (art. 25), nell’Agenda 2030 e nel Rapporto dell’Unesco “Re-immaginare i nostri futuri insieme”.

Promuovere la sicurezza umana vuol dire assicurare ad ogni persona il diritto ad una vita dignitosa. Di cos’altro si devono preoccupare i governanti?

Mentre continua l’escalation della guerra in Ucraina e ogni giorno esplode una nuova emergenza sociale ed economica, dobbiamo preoccuparci di sviluppare rapidamente la nostra capacità di cura della comunità e di ogni persona, senza distinzioni di genere e di nazionalità. Per questo servono investimenti, politiche e governanti capaci di implementarle.

Dobbiamo aiutare chi non ce la fa, soccorrere chi è in difficoltà, proteggere chi è minacciato, nutrire chi è affamato e assetato, curare chi è ammalato, sostenere chi è fragile, ridurre le disuguaglianze, preservare i beni comuni, salvare la nostra umanità e il nostro pianeta. Per questo, dobbiamo rimettere al centro le comunità locali e finanziare e riqualificare i servizi pubblici e universali (i servizi sociali, sanitari, per l’educazione, la formazione, l’ambiente, la cultura …).

Serve una nuova cultura della cura che ci liberi dalla cultura dell’individualismo e della guerra, della competizione selvaggia, dello sfruttamento e dello scarto. Solo così potremo sperare di salvarci e di mettere al sicuro anche la nostra democrazia, le istituzioni democratiche e i valori universali che sono indispensabili per affrontare le sfide planetarie che incombono.

Fermiamo le guerre e la militarizzazione del mondo! Fermiamo la corsa al riarmo e i mercanti di morte! Liberiamoci della minaccia atomica prima che sia troppo tardi! Investiamo sulla politica della cura, non sulle armi! La cura è la via della pace. Percorriamola assieme.

  1. Più dura, più ci fa male. L’invasione russa dell’Ucraina è una catastrofe. La sua continuazione è intollerabile e insostenibile. Per questo, i governanti devono fermarla. Non alimentarla. Togliamo la parola alle armi e ridiamola alla politica. Ciascuno si assuma la responsabilità di fare la pace.

Comitato Promotore Marcia PerugiAssisi

https://www.articolo21.org/2022/08/appello-cura-non-bombe/

 

 

COMUNICATO STAMPA del 20 ottobre 2022

per info: Alfonso Navarra cell. 340-0736871 email alfiononuke@gmail.com

BASTA GUERRA IN BOLLETTA!

Presidio informativo, sabato 22 ottobre, in Piazzale Stazione di Porta Genova, dalle ore 17:00 alle ore 19:00

Incontro online, domenica 23 ottobre, dalle ore 17:00 alle ore 19:30, degli attivisti ecopax su piattaforma Google Meet al link:

meet.google.com/pvf-xivq-evy 

Iniziativa consapevolmente e volontariamente non inserita in “Europe for Peace” (ma non contrapposta)

NO guerra economica affiancata allo scontro militare: PACE significa PANE!

Energia ponte di pace. Trattiamo direttamente col produttore per abbassare i prezzi. Così si batte la speculazione!

Si fanno tacere le armi quando non le si apparecchiano sul campo. NO a nuovi aiuti militari secondo la volontà inascoltata della maggioranza del popolo italiano!

NO a soffiare sul fuoco dell’escalation, che può deragliare in guerra nucleare. Oggi non ci sono più guerre giuste, dice anche Papa Francesco! Resistenza nonviolenta contro gli invasori militari e sostegno alle obiezioni e alle diserzioni!

E sempre con il Papa conveniamo che bisogna proibire ed eliminare le armi nucleari e impedire il commercio delle armi!

 

I Disarmisti esigenti (www.disarmistiesigenti.org) e i loro partners (Lega Obiettori di Coscienza, Mondo senza guerre e senza violenza) organizzano un presidio informativo sabato 22 ottobre, in Piazzale Stazione di Porta Genova, dalle ore 17:00 alle ore 19:00.

Il titolo dell’iniziativa è “BASTA GUERRA IN BOLLETTA” perché, nel suo scopo principale, è focalizzata sull’obiettivo della revoca delle sanzioni energetiche contro la Russia, giudicate come causa principale della crisi energetica e del carovita: la speculazione, già iniziata sotto la pandemia da Covid19, si innesta oggi su una scarsità reale dei prodotti energetici, ed è quindi, a differenza della vulgata corrente (a destra come a sinistra, al governo come all’opposizione), fattore secondario, non risolutivo, da contrastare.

Quello che gli organizzatori vogliono contestare è l’idea che una guerra economica che usa l’energia come arma possa essere affiancata al conflitto armato sul campo che Russia e NATO combattono in Ucraina. La condanna dell’invasione militare ordinata da Putin il 24 febbraio, dagli organizzatori ribadita, non giustifica, a nostro avviso, il protrarsi, da qualsiasi parte provenga, di un impiego di armi distruttive che sono il vero aggressore (di tutti, anche degli innocenti, sulla base dell’offesa alla Terra quale ecosistema unico), mentre noi stessi, l’umanità tutta, appunto, dobbiamo considerarci direttamente aggrediti dalla guerra, persino se si scampano i rischi di escalation nucleare. Anche e soprattutto perché, dopo l’esperienza della lotta anticolonialista guidata in India dal Mahatma Gandhi, oggi sappiamo che possiamo fare ricorso a una strategia di resistenza nonviolenta efficace, anche se eventualmente non immediata nei risultati vincenti. Condividiamo perciò il ripudio di Papa Francesco della “guerra giusta”: le autorità mondiali devono porla fuori dalla Storia dicendo, per cominciare, “basta alla produzione e al commercio internazionale delle armi” e  proibendo ed eliminando le armi nucleari, “la cui sola esistenza mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra“.

Per approfondire queste visioni – e queste analisi – gli attivisti ecopax si incontrano online il giorno successivo, il 23 ottobre, dalle ore 17:00 alle ore 19:30, su piattaforma Google Meet al link: meet.google.com/pvf-xivq-evy.

BASTA GUERRA IN BOLLETTA si riallaccia a due appelli. Il primo è NO GUERRA, NO SANZIONI, NON PAGHIAMO, che annovera tra i primi firmatari Antonia Sani – Luigi Mosca – Moni Ovadia – Alex Zanotelli – Angelica Romano – Patrizia Sterpetti – Luciano Benini – Antonino Drago – Federica Fratini – Antonella Nappi. L’appello è rinvenibile e sottoscrivibile online al link:

https://www.petizioni.com/nonsiamoinguerra-nosanzioni/

Il secondo fa riferimento a una campagna sulla RETE DEGLI SPORTELLI POPOLARI ENERGIA, che può essere visionata sul sito web in costruzione: NON VOGLIAMO LA GUERRA – NON PAGHIAMO, visionabile al link:

https://nonvogliamolaguerra-nonpaghiamo.webnode.it

Il primo appello si conclude con la proposta di gestire l’energia, “bene comune”, come ponte di dialogo e di pace, non come arma di guerra. Ci rivolgiamo retoricamente a Putin: “Poiché siamo intenzionati a rispettare gli accordi di Parigi sul clima che tutto il mondo, compresa la tua Russia, ha firmato, è ovvio che, perseguendo l’obiettivo della decarbonizzazione, usciremo dai combustibili fossili e quindi ne consumeremo sempre di meno. I soldi che dovremmo risparmiare per questo minor consumo tendente allo zero li mettiamo in un fondo per aiutare voi ed insieme gli ucraini a decarbonizzare, come avete deciso nelle varie COP che discutono come attuare Parigi. Quello che ti proponiamo è, per l’intanto su questo aspetto, di lavorare insieme (insieme anche agli ucraini) per fare la pace con la Natura, il compito principale della intera Umanità oggi, per salvare l’ecosistema terrestre che sta bruciando. Il lavoro comune per la decarbonizzazione contribuirà allo sviluppo della pace tra gli uomini, di una comunità mondiale che pratichi la fratellanza/sorellanza: impariamo a percorrere il cammino della nonviolenza laddove le attività militari devono diventare tabù”.

Nel secondo documento sottolineiamo che “PACE SIGNIFICA ANCHE PANE”! “Avvertiamo l’urgenza di un riferimento ecopacifista per la gente impoverita e spaventata: nel contesto politico che viviamo è facile che le mobilitazioni tipo forconi/gilet gialli che si prospettano siano alla fine strumentalizzate dalla destra estrema, in un clima politico che la favorisce. Il problema è: grazie al nostro disinteresse dobbiamo permettere che l’opposizione popolare alla guerra, non rappresentata coerentemente da alcuno (proprio il mancato riferimento alle sanzioni ce lo dimostra), che dovrebbe naturalmente avere connotazioni e sbocchi democratici e progressivi, finisca invece nelle mani delle destre e vada ad alimentare nuove guerre di civiltà (contro l’Islam e contro la Cina), secondo lo spirito non domo ma crescente del trumpismo mondiale? (…) Un interlocutore importante possono essere le organizzazioni sindacali che hanno dato vita, l’8 maggio 2022, allo sciopero generale contro la guerra e contro l’economia di guerra. Sono scese in piazza in varie città italiane (Roma, Milano…) contro l’invio di armi e l’escalation militare, contro i tagli alla spesa pubblica e alle condizioni salariali, per la garanzia di un reddito dignitoso per tutte e tutti. Mancava però un obiettivo esplicito per la revoca delle sanzioni energetiche. Il prossimo sciopero generale potrà rimediare! Esso è stato convocato per il 2 dicembre e questo appello potrà servire – si spera – a risvegliare le dirigenze sindacali”. 

Gli organizzatori, infine, ci tendono a sottolineare la loro indipendenza dalle iniziative di Europe for Peace, dalla tre giorni di ottobre, ma anche dalla scadenza, sotto la luce accecante dei riflettori mediatici, del 5 novembre, l’adunata nazionale per chiedere il cessate il fuoco ed i negoziati con l’intervento dell’ONU, in groppa alla quale stanno saltando tutti i partiti, anche quelli che il giorno dopo voteranno in parlamento per rifornire di nuove armi chi sta sparando (per fare “tacere le armi” non sarebbe opportuno non porgerle a chi sta combattendo? soprattutto se si aspira a proporsi come mediatori?) e per sostenere il riarmo italiano ed europeo in ambito NATO. Si avanzerà la proposta di una piattaforma riconoscibile, nel contesto delle mobilitazioni del 5 novembre, che, in maniera dialogante (non va affatto dimenticato che oggi il solo nominare la parola pace è sufficiente ad attirare l’accusa di filoputinismo!) , renda evidenti i punti essenziali della iniziativa di un settore distinto del corteo: immediato cessate il fuoco, stop all’invio di armi, fine delle sanzioni, apertura di spazi percorribili per la soluzione politica, lotta per lo scioglimento dei blocchi militari, e immediata connessione alle conseguenze economiche e sociali, in particolare, della guerra e delle sanzioni, in termini di crisi economica e deterioramento delle condizioni di esistenza, carovita e carobollette, crisi energetica e crisi alimentare.

In questo filone preciso di ragionamenti e posizioni acquista senso l’essere impegnati, da parte degli organizzatori nelle reti internazionali (WAR RESISTERS INTERNATIONAL) di chi sostiene gli obiettori sia russi e sia ucraini; e gestisce in Italia una Campagna per l’obiezione di coscienza alle spese militari (Campagna OSM-DPN (osmdpn.it) il vecchio sito, al seguente link la guida pratica di quest’anno: https://primavercelli.it/media/2022/05/campagna-obiezione-alle-spese-militari.pdf),  che vede tra i principali promotori i Disarmisti esigenti.

da qui

 

La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario – un libro della TIR

E’ uscito nei giorni scorsi un libro della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) sulla guerra in Ucraina. Riportiamo qui di seguito uno stralcio dell’Introduzione (intitolata Il tempo stringe). Il libro (pp. 208, 10 euro) può essere richiesto scrivendo a com.internazionalista@gmail.com

Il tempo stringe

Essendo la guerra l’orgia delle menzogne, non ci è dato sapere quanti sono realmente: secondo il ministro della guerra russo Shoigu i soldati ucraini morti sono 61.000 e 49.000 i feriti; secondo i comandi ucraini i russi caduti o gravemente feriti a fine settembre sono almeno 55.100. A quasi otto mesi dall’inizio della guerra la sola cosa certa è che l’Ucraina è un mattatoio dove si macella ogni giorno carne umana: ucraina (non solo soldati, anche civili), russa e di molte altre nazionalità, se è vero che i comandi alle truppe “ucraine”, in realtà della NATO, vengono dati anche in polacco, rumeno ed altre lingue ancora. Carne umana di poco valore, per i comandanti militari e politici dell’una e dell’altra parte, al sicuro, per ora, dalla reazione delle classi sociali, il proletariato per primo, obbligate a fornirla. E la pace, non parliamo della “pace giusta” senza oppressione di popoli, anche solo una vera e duratura tregua, appare lontana. Di quando in quando Biden o Putin sembrano aprire a negoziati. La realtà sul campo, però, è che si accumulano i segni di una possibile precipitazione della guerra con la sua estensione al territorio russo (già colpito sporadicamente) e con il passaggio dalle armi di distruzione di massa convenzionali alle armi atomiche.

È di ieri l’altro l’appello di Zelensky, ex-guitto trasformato in un banditore di morte h24, affinché la NATO bombardi preventivamente la Russia con armi atomiche, che fa il paio con analoghe richieste e minacce dal fronte russo. E’ di oggi l’attentato al ponte di Kerch in Crimea. A sua volta la Russia, in evidente difficoltà sul campo, è costretta ad allargare la mobilitazione delle sue forze con 300.000 riservisti, il doppio dei soldati impiegati fin qui, e cerca di proteggere l’annessione delle terre del Donbass con referendum svolti in condizioni di guerra. La von der Leyen, degna discendente del militarismo Junker (per la Commissione europea), la Gran Bretagna, la Francia, la Polonia, il Parlamento europeo fanno a gara nel promettere armi a Kiev, armi pesanti, armi sempre più letali, armi di profondità capaci di colpire il territorio russo, affinché si combatta contro la Russia fino all’ultimo ucraino.

L’Italia di Mattarella-Draghi-Meloni fa blocco con la propaganda e la retorica bellicista più truculenta della UE e della NATO. Non si tratta, però, solo di propaganda e retorica. L’Italia è in guerra dentro il fronte NATO fin dal primo momento, retrovia sicura per la raccolta di informazioni e le missioni di droni, e non si è tirata indietro, nei limiti delle sue possibilità, neppure nella fornitura di armi e di contingenti da schierare alle frontiere della Russia con i paesi baltici. A questo punto solo dei ciechi volontari possono ignorare che questa non è una guerra che oppone Russia e Ucraina, bensì un conflitto tra la NATO da un lato, con l’UE a supporto politico e operativo, e la Russia e i suoi un po’ defilati, ma non passivi, alleati dall’altro. Del resto, nel chiedere l’immediata adesione alla NATO, Zelensky si è fatto forte di un dato di fatto: la NATO è già in Ucraina (da molti anni, va precisato), l’Ucraina è già nella NATO (da altrettanto tempo) perché il suo raccordo con i comandi della NATO, ossia: la sua subordinazione ad essi, è totale.

Cade così in pezzi la menzogna secondo cui sarebbe in corso una romantica, se non rivoluzionaria, lotta di autodeterminazione condotta da tutte le classi della società ucraina strettamente unite tra loro come un sol uomo (Zelensky), di indipendenza nazionale della libera Ucraina contro il vecchio, incorreggibile orco russo. L’Ucraina di oggi tutto è salvo che una nazione libera, essendo stata progressivamente occupata, prima che dalle armate russe, dagli insediamenti economici, finanziari, diplomatici, militari, massmediatici dell’intero Occidente, e con speciale aggressività da un giro di interessi che fa capo alla banda Biden-Obama e Co. – un’occupazione resa possibile dal prevalere, in seno alla borghesia ucraina, della frazione legata all’Occidente. Ancora meno libera lo è, ovviamente, dal 24 febbraio, a seguito dell’invasione russa, che è stata l’occasione buona per moltiplicare l’invasione dei potentati occidentali, e le loro pretese sulle sue membra martoriate. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Polonia, l’Italia, la Romania, etc. etc., ogni paese “amico” pretende la sua quota di carne ucraina. E per effetto dell’“aiuto” di questi amorevoli Shylock l’Ucraina è più che mai un paese rovinato per i futuri decenni, alla bancarotta, in verticale perdita di popolazione, colonizzato dai suoi “amici” liberatori, oltre che straziato dai bombardamenti e dai carri russi.

Non se ne parla mai, ai liberi giornali occidentali è fatto divieto, perché debbono conficcare nei crani la menzogna secondo cui la guerra in corso è per la libertà e la democrazia dell’Ucraina e del mondo, e non – dio ne scampi – per la libertà di rapina e brigantaggio in Ucraina e in tutto il mondo dei potentati finanziari e industriali dell’Occidente. Non se ne parla mai, dicevamo, ma l’Ucraina è un paese dalle strepitose ricchezze naturali, non ancora del tutto esplorate. Può sfamare 600 milioni di abitanti nel mondo (avendone appena 40). Possiede il 5% delle risorse minerarie del mondo, pur avendo appena lo 0,4 della superficie terrestre globale. E’ tra le prime dieci nazioni produttrici ed esportatrici di metalli al mondo – 20.000 depositi per 194 minerali. Ne parliamo in questo libro, se ne deve parlare! L’Ucraina è in una posizione strategica per ogni tipo di contesa militare che abbia per oggetto il nord-Europa e la Russia, come si è visto in entrambe le guerre mondiali. E lo è anche sul piano commerciale e dei rifornimenti energetici. Se questo non bastasse, disponeva (una parte importante si è dovuta sparpagliare ai quattro angoli del mondo a cercare fortuna) e tuttora dispone di una forza-lavoro maschile e femminile con un livello di formazione medio-alto. L’Ucraina, insomma, è uno scrigno pieno d’oro. I pescecani occidentali che con i propri incitamenti, i propri prestiti, la dazione illimitata di armamenti, la spingono alla “vittoria”, la stanno in realtà spingendo all’autodistruzione totale, per poi spartirsela a prezzi di saldo. Tra essi, ben acquattati e già largamente posizionati sul terreno, quelli italiani. Mandare in rovina paesi come l’Ucraina (ce n’è una dozzina nei vari continenti) è fondamentale per tacitare il fronte interno ai paesi occidentali, sempre più pericolosamente polarizzato e – negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – molto agitato. Più la guerra dura, più risulterà chiaro alle masse lavoratrici ucraine quale grande sventura è stata il soggiogamento del loro paese agli interessi e ai comandi militari occidentali – per quanto forte, e giustificatissimo, possa essere il loro risentimento verso Mosca.

Ma se è al tappeto la menzogna occidentale sull’Ucraina-David che da sola si batte impavida contro la Russia-Golia, non è messa meglio la “verità” di Vladimir Putin e della sua Russia nostalgica delle grandezze imperiali di un tempo. Nel suo impegnativo discorso del 30 settembre per legittimare l’annessione delle province del Donbass, Putin si è presentato come un novello Che Guevara che sventola la bandiera dell’anticolonialismo tricontinentale contro l’imperialismo occidentale. La sua ben costruita invettiva non manca di efficacia e di richiami incontestabili alla “legge del pugno”, all’illimitata avidità di ricchezze e di profitti, alla pretesa di dominio totale sul mondo, all’inarrivabile ipocrisia dell’“Occidente collettivo” saccheggiatore dei popoli di tutto il mondo (per questo, qui, è stato completamente censurato). Senonché quella invettiva è tutta costruita sul richiamo alla “grande Russia”, alla “grande Russia storica” con la sua “storia millenaria”, al “posto che le spetta nel mondo” in quanto “grande potenza millenaria, una civiltà-paese”. Il che comporta la completa rivendicazione della Russia imperiale, zarista, una “prigione di popoli” secondo Lenin. Una rivendicazione che Putin fece senza mezzi termini, attaccando i bolscevichi, nel discorso del 21 febbraio in cui descrisse l’Ucraina come una costruzione artificiale da cancellare. Non una sola parola, fosse anche di mero distanziamento formale, sul fatto che la “grande potenza millenaria” prima feudale e poi feudal-capitalistica ha oppresso una molteplicità di popoli tra i quali tutt’oggi l’“Occidente collettivo” ha gioco facile nel seminare la russofobia. Di più: la sua rivendicazione della storia millenaria della Russia e dei suoi valori-civiltà contiene anche un capitolo à la Giorgia Meloni laddove si accusa l’Occidente di satanismo, per la sua “negazione radicale della moralità, della religione e della famiglia” tradizionali.

Insomma, anche senza chiamare in causa Afghanistan, Cecenia, Siria, Kazakistan e così via, dell’anti-colonialismo putiniano non resta nulla in piedi se ci si pone un paio di domande essenziali: chi c’è dietro la decisione di invadere l’Ucraina? Senza dubbio gli interessi dei grandi gruppi capitalistici russi (siderurgia, armamenti, agrari) interessati alle ricchezze dell’Ucraina. E cosa rappresenta il disegno grande-russo o quello, connesso, euro-asiatico? Rappresenta un modello, un’idea di società (capitalistica, è ovvio) caratterizzata da tratti regressivi, apertamente reazionari: l’oppressione delle minoranze etniche e linguistiche, delle donne, degli immigrati, degli omosessuali, e così via melonizzando.

Naturalmente, la parte del discorso di Putin che poneva il tema “dio patria famiglia” è stata omessa in certe traduzioni dai suoi fans italioti, sinistrati assai più che di “sinistra”. La ritengono una quisquilia. Li manda in estasi la prospettiva del passaggio dal mondo capitalistico unipolare al mondo capitalistico multipolare che Putin vagheggia come un’opportunità per i “nuovi centri di sviluppo” di “ottenere una vera libertà (…), il proprio diritto ad uno sviluppo indipendente, creativo e originale, ad una vita armoniosa”. Senonché il mondo attuale è già, di fatto, un mondo multipolare se perfino l’Arabia saudita, da un secolo una colonia anglo-statunitense, osa sfidare i vecchi padrini sul taglio alla produzione di petrolio, e in questo modo consapevolmente aiuta la Russia. Nel mondo che secondo Putin dovrebbe portarci verso una “vita armoniosa” si vede al contrario solo un’infinita moltiplicazione di conflitti, vecchi e nuovi. Perché i vecchi banditi che sono egemoni da oltre un secolo non intendono lasciare il campo ad altri senza distruggere tutto quel che è in loro potere, anche ai danni dei loro “amici” – vedi il sabotaggio del Nord Stream da parte amerikana, una vera e propria dichiarazione di guerra (economica) dell’amministrazione Biden alla Germania e all’UE. E i nuovi banditi ascendenti, si tratti del capitalismo cinese, di quello indiano, turco, brasiliano, vietnamita, arabo-saudita, etc. non mostrano la minima “originalità” nel fondarsi tutti, immancabilmente, sull’estremo sfruttamento delle proprie classi lavoratrici. Non solo: ciascuno dei “nuovi centri di sviluppo” ha obiettivi di espansione ai danni di altri paesi minori delle proprie aree viciniori, mentre il più potente dei nuovi centri di sviluppo, la Cina, accampa pretese egemoniche assai più estese (la stessa Russia dovrebbe saperne qualcosa…). Sono le leggi impersonali e immodificabili del capitalismo, e della maniera in cui il capitalismo cerca di superare le proprie grandi crisi, che impongono a tutti gli attori “scelte” che vanno in direzione di uno scontro generale e generalizzato tra capitali e capitalismi. La storia di questo modo di produzione e dei trapassi di egemonia da un centro nazionale ad un altro non lascia il minimo dubbio in proposito. Altro che armonioso pluricentrismo!

da qui

 

Lettera dai Veterani Antifascisti di Donetsk – Enrico Vigna

Cari amici, compagni e Veterani, oggi 30 settembre si è verificato un evento storico.

Il 30 settembre 2022 è iscritto a lettere d’oro nella storia della regione di Donetsk: il Donbass è diventato parte della Federazione Russa.

Il giorno tanto atteso e sofferto dagli abitanti del Donbass è arrivato. Questa giornata è arrivata grazie alla gente comune, al popolo che, da otto anni è sceso in campo per proteggere la propria terra, le proprie case e ha fermato i carri armati della giunta di Kiev.

Questa giornata è stata poi favorita dalle milizie popolari che si sono alzate in piedi per proteggere le loro terre natie, minatori, operai metallurgici e siderurgici, medici, insegnanti, autisti e lavoratori pubblici, operatori della cultura e dell’arte, gli studenti e i giovani.

Questo giorno è stato favorito dai Veterani antifascisti e i pensionati, uniti nell’Organizzazione dei Veterani antifascisti.

In tutti questi lunghi otto anni di guerra siamo stati impegnati in assistenza sociale ai pensionati bisognosi e nell’educazione militare-patriottica dei giovani, portando la nostra testimonianza e la storia vissuta.

Da più di otto anni tutti gli abitanti della Repubblica Popolare di Donetsk hanno creduto fermamente nella riunificazione con la nostra Patria storica, alla quale siamo legati da legami di sangue, cultura, scienza, tradizioni popolari, comunità spirituale e memoria storica.

SIAMO TORNATI A CASA, felicitazioni CARI COMPATRIOTI! HURA!

Grazie caro Enrico e compagni di SOS Donbass Italia! Siamo eternamente grati per il sostegno ai nostri Veterani e dei bambini di Donetsk. Mille e mille volte, in questi otto anni, i nostri nonni Veterani e le loro famiglie mi hanno detto SPASIBO/grazie per la vostra mano tesa per la solidarietà. Le mamme e i genitori dei bambini che hanno ricevuto grazie a voi, assistenza finanziaria, materiale scolastico palloni sportivi, alberi per il Natale, soldi per le riparazioni di aule e scuole e tante altre cose. Come l’amicizia e l’essere stati al nostro fianco, una vicinanza che ora è fratellanza. Per sempre. Noi non lo dimenticheremo!

Tutti loro sanno che ciò è stato possibile grazie al coerente e continuo sostegno  della vostra Associazione SOS Donbass Italia. La nostra lotta non è finita, ma crediamo fortemente nella Vittoria, così come fu il 9 maggio 1945 contro il mostro nazifascista.

Siete invitati a Donetsk libera non appena cesseranno le ostilità. HURA!

Gratitudine, rispetto e saluti fraterni dalla Russia,

Col. Nikolay Stefan a nome dell’Organizzazione dei Veterani antifascisti di Donetk, Federazione Russa”.

Cari Veterani, cari compagni! Buona festa del Veterano antifascista del Donbass 2022!

In questo giorno ricordiamo le generazioni più anziane con un calore speciale. Diciamo grazie ai soldati in prima linea e ai partecipanti al fronte di lavoro per la Grande Vittoria conquistata.

Ringraziamo i veterani della Grande Guerra Patriottica, gli orfani di guerra, gli ex prigionieri dei campi di concentramento, l’intera generazione del dopoguerra per il ripristino dell’economia nazionale, per il rialzo del primo stato operaio e di contadini del mondo dalle rovine, per aver costruito la società più giusta della terra. Ed ancora oggi i Veterani sono sempre nei ranghi.

Gli attivisti dell’Organizzazione dei Veterani della Repubblica Popolare di Donetsk lavorano quotidianamente: sono presidenti nelle organizzazioni principali, membri dei consigli cittadini e distrettuali, presidenti nei consigli cittadini e distrettuali dei Veterani e dei loro coadiutori, membri della Difesa e del Consiglio Repubblicano dei Veterani statale.

L’Organizzazione dei Veterani della Repubblica oggi è un’organizzazione di Volontari d’Argento che hanno dedicato la loro vita a servire gli altri, aiutando sinceramente e disinteressatamente gli anziani, educando i giovani alle nostre tradizioni militari e patriottiche, i Volontari d’Argento partecipano attivamente alla costruzione della società civile della Repubblica.

Quest’anno, per la prima volta, celebriamo il Giorno del Veterano del Donbass già come parte della Federazione Russa.

Con tutto il cuore auguriamo a voi e alle vostre famiglie buona salute e lunga vita!

Il presidente dell’Organizzazione dei Veterani della Repubblica Popolare di Donetsk,

Col. Nikolai Stefan

Questo è stato il nostro impegno di SOLIDARIETA’ CONCRETA

SOS DONBASS/CIVG Italia: Progetto SOLIDALE “HURA”   – Dal 2014

Le Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk, si sono fondate anzitutto come atto di rifiuto degli eventi verificatisi con Euromaidan a Kiev, dove forze dichiaratamente neonaziste, hanno effettuato un golpe contro un governo legittimo, seppur molto discutibile o criticabile.

Nella prima dichiarazione dopo i tragici fatti del massacro di Odessa, il 2 maggio 2014, dove decine di uomini e donne antifascisti furono vilmente assassinati e trucidati da queste bande neonaziste nella Casa del Sindacato della città, le milizie popolari di autodifesa affermarono:

“…Dopo Odessa non possiamo più tornare indietro Se a Kiev vogliono i nazisti al governo, è una loro scelta. Il Donbass fiero della sua storia di lotta contro il mostro nazifascista nel 1945, non lo accetterà mai, anzi li combatteremo, come ci hanno insegnato i nostri nonni Veterani della Grande Guerra Patriottica: ”Non un passo indietro!”…”.

Partendo da questa base morale di fondo,

NOI NON intendiamo restare inerti e silenti.

Su una richiesta di solidarietà, da parte dei veterani della GGP, abbiamo deciso, tra i vari nostri Progetti solidali, di impegnarci e costruire un Progetto di Solidarietà con le famiglie dei Veterani della Grande Guerra Patriottica  contro il nazifascismo delle Repubbliche Popolari del Donbass.

Il Progetto consiste in un impegno di

  • INFORMAZIONE,su quanto viene fatto per la difesa delle radici e della memoria antifascista, con documentazioni anche storiche che ci forniranno da là.
  • Un impegno di azioni di Solidarietàconcreta, stante una situazione di indigenza che stanno vivendo, a causa della guerra imposta dei golpisti di Kiev, che ci saranno da loro indicate come necessità emergenziali, che possano aiutarli a resistere.
  • Iniziative pubblicheinformative e di solidarietà concreta, per raccolta fondi e la proposta di gemellaggi tra partigiani italiani e i Veterani del Donbass.

INVITIAMO tutti i sinceri antifascisti, gli autentici democratici e chiunque al di là appartenenze, partiti, fazioni che rifiutano il nazifascismo come spazzatura della storia, ad aiutarci per  aiutarli.

PER Adesioni, collaborazioni, informazioni:

Centro Informazione e Solidarietà con il DONBAsS e l’Ucraina resistente – CISDU    –  info@civg.it    –     sosyugoslavia@libero.it

da qui

 

USA schierano divisione d’assalto aereo d’élite in Romania: obiettivo Transnistria?

Chi non vuole una reale soluzione diplomatica in Ucraina e lavora per prolungare il conflitto è ormai ben chiaro. E le mosse di questo paese lo confermano sempre più nonostante certa propaganda cerchi di ribaltare la situazione.

Parliamo degli Stati Uniti, i quali hanno tutto l’interesse a prolungare le ostilità per cercare di impantanare la Russia in un lungo conflitto e arrivare al completo assoggettamento dei vassalli europei tramite la distruzione dell’apparato produttivo del vecchio continente.

Ecco un chiaro esempio: la 101esima Divisione aviotrasportata dell’esercito statunitense è stata dispiegata in Europa per la prima volta in quasi 80 anni. L’unità di fanteria leggera, nota come “Screaming Eagles”, è addestrata a raggiungere qualsiasi campo di battaglia nel mondo in poche ore ed è stata ora dispiegata in Romania, paese membro della NATO, vicino all’Ucraina.

“Siamo pronti a difendere ogni centimetro del territorio della NATO”, ha dichiarato il generale di brigata John Lubas a CBS News. “Noi portiamo una capacità unica, a partire dalla nostra capacità di assalto aereo. Siamo una forza di fanteria leggera, ma portiamo con noi la mobilità per i nostri aerei e l’assalto aereo”, ha aggiunto il militare statunitense.

In una postazione operativa avanzata, le truppe statunitensi e rumene conducono esercitazioni congiunte di assalto aereo e terrestre. Alcuni di essi hanno utilizzato proiettili di carri armati e veri e propri colpi di artiglieria. L’esercitazione aveva lo scopo di ricreare le battaglie che le forze ucraine conducono contro le truppe russe.

“Li stiamo osservando (i russi) da vicino, stiamo costruendo obiettivi per esercitarci contro di loro, replicando esattamente ciò che sta accadendo in Ucraina. Siamo l’unità statunitense più vicina a combattere in Ucraina”, ha dichiarato il colonnello Edwin Matthaidess, comandante del 2nd Brigade Combat Team.

La minaccia di una forte escalation del conflitto, così vicina al territorio della NATO in Romania, è il motivo per cui quasi 4.700 truppe delle divisioni d’élite di assalto aereo degli Stati Uniti, con alcune attrezzature pesanti, sono state inviate a rinforzare il fianco orientale della NATO.

“Il vero significato per me, avere qui le truppe statunitensi, è come avere alleati in Normandia prima che ci fosse il nemico”, ha detto il generale maggiore rumeno Lulian Berdila, riferendosi alla battaglia della Seconda Guerra Mondiale sulla costa settentrionale della Francia.

I comandanti delle Screaming Eagles hanno sottolineato che sono sempre “pronti a combattere”, e che sono lì per difendere il territorio della NATO, se i combattimenti si intensificano o c’è un attacco alla NATO. “Sono pienamente pronti ad attraversare il confine con l’Ucraina, se gli viene ordinato di farlo”, ha osservato Charlie D’Agata, corrispondente della CBS News in Romania.

Tuttavia il motivo dello schieramento di truppe aggiuntive statunitensi in Romania potrebbe essere un altro. La CBS afferma che questo arrivo di truppe in Romania non sia tanto la difesa della NATO e l’ulteriore avanzamento verso l’Ucraina, quanto la situazione in Moldavia e nella vicina Transnistria. Il fatto è che la Moldavia non ha un esercito nel senso comune del termine. Ma la Romania ce l’ha ed è molto forte. Con il sostegno degli statunitensi, i rumeni possono “entrare” in Moldavia per attaccare la Transnistria dalla direzione occidentale, e l’AFU del regime di Kiev può aiutarli da est colpendo dall’Ucraina.

da qui

 

 

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