3 – articolo di Maria Grazia Midulla (WWF Italia);
4 – l’analisi di Barbara Nappini (di Slow Food Italia) da Wine News;
5 – l’analisi di Francesco Martone da Dinamo Press;
6 – l’analisi di EXTINCTION REBELLION da InfoAut;
7 – l’analisi di Greenpeace Italia
Giovedi un incendio ha provocato panico alla Cop30: sembra un simbolo per confermare che tutto è a rischio con il fuoco delle fonti fossili, che questo sistema produttivo è incompatibile con l’ecosistema naturale di cui siamo parte.
Clima, alla COP30 scompare il riferimento alle fonti fossili per le pressioni dei Paesi petroliferi
Dalla bozza di accordo della COP30 è stato omesso ogni riferimento ai combustibili fossili a causa delle pressioni dei Paesi petroliferi. Proteste di Stati e ONG per una transizione più ambiziosa.
Nelle fasi cruciali dei negoziati della COP30, in corso a Belém, in Brasile, sono stati omessi tutti i riferimenti ai combustibili fossili dalla bozza di accordo circolata tra le delegazioni. Una scelta che ha immediatamente fatto salire la tensione in una trattativa già segnata da fratture profonde, considerando che petrolio, gas e carbone restano il principale motore della crisi climatica.
Come accade normalmente ai vertici ONU sul clima, le bozze vengono continuamente revisionate per raggiungere un compromesso soddisfacente tra quasi 200 Paesi con interessi divergenti. Ma la rimozione totale del tema più importante del negoziato ha provocato una reazione dura da parte di decine di governi e ha messo in evidenza quanto il fronte dei produttori di petrolio stia condizionando l’esito della conferenza.
L’obiettivo del Brasile – e del presidente Luiz Inácio Lula da Silva – era portare a casa un impegno chiaro per un’azione più rapida e incisiva nella riduzione dell’uso di combustibili fossili. Una precedente versione del testo proponeva tre possibili percorsi per avviare una transizione ordinata e giusta, ma l’intero paragrafo è stato eliminato dopo l’opposizione dei Paesi esportatori di greggio.
Un gruppo di Stati, tra i quali Regno Unito, Francia e Germania, ha risposto con una lettera molto netta: non accetteranno alcun accordo privo di una road map per l’uscita dai combustibili fossili. Una fonte interna ai colloqui, citata da BBC, punta il dito contro l’Arabia Saudita e altri Paesi arabi, accusati di bloccare il testo. La ministra dell’Ambiente francese, Monique Barbut, ha allargato l’accusa includendo anche Russia e India, oltre a diverse economie emergenti.
Dietro le posizioni ufficiali si muovono anche altre sensibilità: alcune piccole nazioni insulari, le più esposte all’innalzamento dei mari, potrebbero accettare un compromesso meno ambizioso sul fronte fossile in cambio di maggiori finanziamenti per l’adattamento climatico. Ma per molti Paesi europei, Francia compresa, la soglia minima è almeno un riferimento esplicito ai combustibili fossili. “Nella bozza attuale non è rimasto nulla”, ha sintetizzato Barbut.
Secondo esperti dei negoziati ONU citati sempre dalla BBC non è raro che, nelle fasi finali, il linguaggio venga drasticamente indurito o annacquato per costringere le delegazioni a scoprire le carte. Tuttavia la scomparsa del tema centrale della COP30 – ovvero le fonti fossili – appare comunque un segnale politico di grande peso.
Un altro nodo irrisolto è il dossier finanziario. La nuova bozza chiede di triplicare i finanziamenti globali entro il 2030, senza tuttavia chiarire se gli impegni debbano ricadere soprattutto sui Paesi ricchi o su fonti miste, incluso il settore privato. Una formula che rischia di scontrarsi con le richieste dei Paesi più vulnerabili, già delusi dai risultati della COP29 di Baku.
Intanto anche la questione della deforestazione – tema simbolico per un vertice ospitato alle porte dell’Amazzonia – è stata indebolita nella bozza d intesa, suscitando critiche da parte delle organizzazioni ambientaliste. “Per una COP in Amazzonia è devastante vedere la deforestazione relegata in secondo piano”, denuncia Kelly Dent di World Animal Protection.
Ora i negoziati entrano nelle ore decisive, con una domanda ancora sospesa: la COP30 saprà produrre un accordo capace di affrontare il nodo strutturale dei combustibili fossili?
Cop30, colpo di scena nell’ultima bozza di accordo: l’uscita delle fonti fossili è scomparsa
Nella notte una nuova bozza semina lo sconcerto alla Cop30. Una trentina di Paesi scrivono alla presidenza: «Inaccettabile»
La doccia fredda, che si pensava impossibile visto l’andamento della prima settimana di lavori alla Cop30 di Belém, è arrivata nella notte tra giovedì 20 e venerdì 21 novembre. Nel momento cioè in cui la trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite è giunta alle battute finali.
Cop30, un passo indietro sulla roadmap per l’uscita dai combustibili fossili
La presidenza brasiliana ha pubblicato infatti un nuovo draft (una bozza, assieme a molte altre) del documento più attesto: quello sulla mutirão, la mobilitazione collettiva tanto attesa e che dovrebbe dare corpo all’espressione troppo vaga che fu decisa al termine della Cop28 di Dubai. Ovvero l’ormai famoso transitioning away from fossil fuels.
La bozza pubblicata nella notte, addirittura, non menziona neppure più la parola “fossili”. Una resa, almeno apparentemente (si conserva la speranza che possa trattarsi di una mossa strategica, volta forse a tentare di sparigliare). E soprattutto un passo indietro enorme rispetto all’ambizione che si percepiva nelle precedenti versioni. Tanto da aver suscitato perfino la reazione indignata di una trentina di nazioni di tutto il mondo.
Cop30: la lettera di 30 Paesi contro la bozza da cui è scomparsa l’uscita dalle fonti fossili
Paesi come Francia, Colombia, Regno Unito, Germania e Belgio hanno scritto infatti immediatamente una lettera alla presidenza brasiliana. «Dobbiamo essere onesti: nella forma attuale, la proposta non presenta le condizioni minime per un risultato credibile a questa Cop30. Non possiamo sostenere un testo che non includa una roadmap per una transizione giusta, ordinata ed equa verso l’uscita dai combustibili fossili», si legge nel documento.
Una presa di posizione chiara e particolarmente dura (per una volta nella giusta direzione). Saltare a piè pari la questione che era stata posta come centrale dallo stesso presidente del Brasile Lula all’inizio della Cop30 significa d’altra parte sconfessare perfino ciò che, con immensa fatica e risultati non straordinari, è stato fatto alle Cop precedenti.
Accordo Cop30 sotto attacco: pressioni di Cina, India, Arabia Saudita, Nigeria e Russia
La conferenza di Belém – la prima alle porte dell’Amazzonia, quella su cui in molti riponevano sincere speranze – rischia di trasformarsi in una cocente delusione. E dai corridoi della Cop c’è già chi, pur mantenendo l’anonimato, fa i nomi dei colpevoli: Cina, India, Arabia Saudita, Nigeria e Russia.
Proseguono a Belém i negoziati, tra tentativi di ostacolare l’uscita dalle fossili, bozze deboli, posizioni ambigue anche dell’Italia
21 novembre 2025
È arrivato il momento dell’attesa. Mentre in tutto il mondo sale la domanda di parole chiare sulla transizione fuori dai combustibili fossili, cioè si chiede di uscire dalla mera enunciazione e di fissare tappe e piani precisi, a Belém i negoziati si fanno febbrili. Non bruciare combustibili fossili è la condizione per sperare di limitare il riscaldamento globale, perché proprio le emissioni derivanti dall’uso di carbone, gas e petrolio sono di gran lunga la più importante causa del fenomeno.
La presidenza della Cop (Brasile) ha fatto circolare un testo preliminare che affrontava la questione della transizione fuori dai combustibili fossili, già diventata comunque questione centrale della conferenza e quindi, nonostante le furbizie e gli atti di imperio di vari attori, tornata protagonista.
Atmosfera incandescente
In queste ore ovviamente in molti stanno lavorando per ostacolare una decisione che costringa a piani e tappe precise. Alcuni si travestono da pompieri, invocando decisioni “equilibrate”: ma in questo momento negoziale si tratta di coloro che non vogliono impegni. Chissà quanto lavoro avranno i lobbisti dei combustibili fossili, presenti in massa dentro e fuori le delegazioni dei governi. In questo quadro,
Bozze deboli
Tornando ai negoziati, per ora le bozze che girano sono deboli e non hanno ripreso la chiara richiesta di oltre 85 Paesi e migliaia di gruppi della società civile di definire delle tabelle di marcia per abbandonare i combustibili fossili e arrestare e invertire la deforestazione entro il 2030. Eppure, il presidente Lula era stato inequivocabile nelle sue osservazioni iniziali sulla necessità di tali roadmap.
Preoccupante anche la crescente perdita di leadership da parte dell’Unione europea: anche qui, la responsabilità non è dell’istituzione, ma di chi la dovrebbe far vivere, i governi. Molte voci danno quello italiano come responsabile di una posizione debole proprio sul percorso di uscita dai combustibili fossili.
Italia, posizioni ambigue
Oggi il ministro Pichetto Fratin ha smentito, ma in realtà la posizione appare ambigua. Stupisce, soprattutto, che il ministro paia preoccuparsi soprattutto della promozione dei biocarburanti anche per il settore auto, una strada senza uscita e ambientalmente dannosa: i pochi biocarburanti davvero sostenibili, derivanti cioè da vere materie di scarto, servono ai settori che non possono essere elettrificati. Insomma, un altro esempio di posizioni velleitarie e, queste sì, davvero ideologiche che, per l’Italia creano solo ulteriori ritardi e minano la competitività, quindi fanno danni per tutti.
Le decisioni della Cop30 incideranno sul futuro delle generazioni future, sono un’occasione fondamentale per mantenere il limite di 1,5 °C alla temperatura della Terra e ridare slancio all’azione globale per il clima. Speriamo che i ministri che stanno negoziando potranno andare dai propri figli e nipoti e dire che hanno lavorato per loro.
Mariagrazia Midulla è responsabile Clima ed energia del Wwf Italia
Nella proposta di accordo nessun riferimento alla principale causa di inquinamento: imbarazzo dei presenti. E la Chiocciola ribadisce la sua mission
La Cop30 di Belem
Il “Global mutirao”, la nuova proposta di accordo presentata dalla presidenza brasiliana alla Cop30 non parla dell’abbandono di fonti fossili (la principale causa dell’inquinamento atmosferico, ndr): un termine che proprio non compare mai nel testo principale, tanto che oltre 30 Paesi partecipanti alla conferenza climatica delle Nazioni Unite di Belem, in Brasile, hanno minacciato, con una lettera – firmata da Stati europei, latinoamericani, asiatici e delle isole del Pacifico – di porre il veto sul documento, per la cui approvazione è richiesta l’unanimità. Seppur pronti a continuare a “lavorare perché la conferenza diventi un vero successo”, viene espressa, infatti, “profonda preoccupazione” per un testo che, al momento, “non presenta le minime condizioni per poter essere considerato un risultato credibile”. E anche il Commissario Europeo per il Clima, Wopke Hoekstra, ha dichiarato di essere “deluso” dalla bozza di accordo, chiosando: “siamo molto lontani dall’ambizione di cui abbiamo bisogno. È spiacevole dirlo, ma ci troviamo davvero di fronte a uno scenario di mancato accordo”. Mentre il Ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, presente in Brasile, ha riferito che “con molti contrasti aperti, la trattativa sta riprendendo e che la posizione italiana è quella di tenere fermi i riferimenti a Cop Dubai per quanto riguarda il percorso dalle fonti fossili e a Cop Baku per quanto riguarda il fronte finanziario”.
Insomma, la Cop30 (che in teoria si dovrebbe concludere oggi, 21 novembre, ndr) è in fase di stallo, e anche Slow Food è intervenuta per esprimere la propria insoddisfazione: “l’annunciato fallimento della Cop30 di Belem è l’ennesima occasione persa”, ha detto la presidente Slow Food Italia, Barbara Nappini, sostenendo che per fare sì che qualcosa davvero cambi rispetto alla crisi climatica sia necessario scegliere un modello diverso: di vita, di filosofia, di approccio. Che è la mission della Chiocciola che promuove il cibo “buono, pulito e giusto” attraverso la difesa della biodiversità, rimarcando la necessità di un sistema alimentare agro-ecologico, di sensibilizzazione dei consumatori e di tutela dei piccoli produttori. “Cop dopo Cop i problemi rimangono irrisolti perché a rimanere invariati sono i presupposti attorno ai quali i potenti della Terra si siedono per discutere – ha affermato – nonostante gli appelli di scienziati e studiosi, che da anni spiegano che all’origine della crisi climatica vi sono le emissioni di gas climalteranti dovute alle attività umane, nessuno mette in discussione il sistema produttivo che genera tutti questi problemi e non si vuole affrontare il problema alla radice, cioè un sistema economico basato sul consumo e sullo spreco delle risorse naturali, dominato dalla ricerca del profitto e causa di profonde ingiustizie sociali”. E ancora: “non saranno solo le innovazioni tecnologiche a salvarci, perché spetta all’essere umano scegliere modelli di sviluppo compatibili con la vita sulla Terra. Non si tratta di sacrificare il benessere, ma esattamente del contrario. Occorre mettere al centro la salute: nostra, degli altri esseri viventi e del pianeta nel suo complesso. Serve una rivoluzione gioiosa”.
Denunciando, inoltre, quanto raccontato dalla coalizione Kick Big Polluters Out (Kbpo), che riunisce oltre 450 organizzazioni ambientaliste – ovvero che alla Cop30 di Belem ci sarebbero circa 1.600 lobbisti del settore dei combustibili fossili, quasi il doppio del numero dei delegati delle 10 nazioni più vulnerabili al clima messi insieme (oltre chiaramente anche a diversi Stati produttori di combustibili fossili) – la direttrice della Chiocciola Serena Milano punta il dito contro “un sistema che non funziona”, quello alimentare: “si produce cibo a basso costo e di scarsa qualità – ha sottolineato – consumando risorse e generando spreco, l’agricoltura è sacrificata e svilita, svuotata del proprio valore, finendo per reggersi (a malapena) su contributi. Il suolo fertile, la risorsa più preziosa insieme all’acqua, è sempre più scarso, i campi si coprono di pannelli solari che invece dovrebbero essere collocati su capannoni, parcheggi, aree dismesse, il cemento e i data center idrovori colonizzano aree sempre più ampie dei nostri paesaggi. Dall’altra parte dell’Oceano la foresta amazzonica sparisce per far spazio ai campi dove coltivare soia e mais ogm per i nostri allevamenti industriali. Nel mondo, oggi, il cibo inquina e ammala, anziché sfamare e curare: colpa di sistemi alimentari dominati dalla logica dell’industria e del profitto. E allora ripartiamo dal cibo, da ciò che portiamo in tavola, scegliendo alimenti prodotti senza inquinare la terra, senza impoverire il suolo, senza sprecare acqua. Acquistiamo meno, ma meglio”.
COP30 a Belém: lotte indigene tra estrattivismo ed emergenza climatica
Nella città amazzonica di Belém, mentre si svolge la conferenza Onu sul clima, i popoli indigeni si incontrano protestano, prendono spazio. Il messaggio è chiaro: basta con le fonti fossili e nessuna transizione agìta sulla loro pelle e la loro terra
Le immagini che più di tutte racchiudono il significato e la portata delle mobilitazioni per la giustizia climatica che si sono tenute a Belém – in occasione della 30esima Conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici, la COP30 – appaiono tra le migliaia e migliaia di manifestanti che il 15 novembre scorso hanno riempito le strade nella città brasiliana nella marcia per il clima. Una maschera di cartone di Chico Mendes accanto a una bandiera palestinese, e un “funerale” del carbone e del petrolio, nel mezzo di rappresentanti di movimenti sociali e indigeni che nei giorni precedenti avevano partecipato ai lavori della Cupula dos Povos, organizzata all’interno dell’Università dello Stato di Parà. Immagini che uniscono vertenze, lotte, piattaforme per l’autodeterminazione dei popoli, la giustizia ecologica, la protezione dei territori e degli ecosistemi, intersezionalità e diritti contadini e al cibo, e che evocano guerre e violenza epistemica, quella dell’estrattivismo e quella della colonialità del potere.
Non è un caso che proprio i giorni prima della marcia si fosse commemorato il 30esimo anniversario dell’esecuzione di Ken Saro Wiwa, ucciso assieme ad altri otto attivisti del popolo Ogoni per essersi opposto alle attività di estrazione di petrolio nel delta del Niger da parte della Shell. Così i padiglioni e le tende allestite all’università di Parà hanno legato, connesso storie, analisi, proposte, esperienze di resistenza dal basso, organizzate attorno ad alcuni assi tematici, dalla transizione giusta alla liberazione dei popoli, alla resistenza all’estrattivismo, alle economie popolari. Un’evento che ha visto per la maggior parte la partecipazione di movimenti brasiliani, dai Sem Terra, ai popoli indigeni, a quelli per il diritto all’educazione, all’acqua, i movimenti di comunità vittime di megainfrastrutture quali le idrovie nel Cerrado brasiliano o le grandi dighe, che proprio nello stato di Pará hanno segnato in passato la storia della resistenza territoriale. Basti pensare alla storica riunione dei popoli indigeni di Altamira nel 1989, organizzata dal popolo Kayapó mobilitato contro le dighe sul fiume Xingú, e dal suo leader “spirituale”, Raoni, anch’egli presente a Belém.
I corsi e ricorsi storici riaffiorano nelle contraddizioni del modello e del paradigma di riferimento dei governi “progressisti” dell’America Latina, quelli ancora rimasti. In primis c’è il sostegno dei governi del PT alla megadiga di Belo Monte, all’annuncio fatto da Lula, proprio alla vigilia della COP30, di concessioni di esplorazione petrolifera all’impresa statale Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni.
Un vero elefante nella stanza per il governo Lula, scisso tra cultura sviluppista e rivendicazioni ambientali e dei popoli indigeni incarnate da due donne, la ministra per l’Ambiente Marina Silva e quella per le questioni indigene, Sonia Guajajara presenti alla marcia per la giustizia climatica. La contraddizione però, è passata in sordina, per evitare di dare alle destre un’argomento da utilizzare alla vigilia della campagna elettorale per le presidenziali. Il tutto è stato celato quindi all’interno di una rivendicazione generica sulla messa al bando dei combustibili fossili da parte di movimenti e di un numero crescente di governi che hanno aderito all’iniziativa internazionale per un Trattato vincolante sulla non proliferazione fossile.
Non a caso la Colombia di Gustavo Petro è stata a prima ad annunciare la decisione di proibire ogni forma di estrattivismo fossile e minerario nella sua parte di Amazzonia e la convocazione di una conferenza internazionale sulla nonproliferazione fossile che si terrà nell’aprile 2026 a ridosso della nuova tornata elettorale nel paese. Poco prima, a marzo, è in programma il Forum Sociale PanaAmazzonico (FOSPA) che si svolgerà nella regione ecuadoriana del Pastaza, a Puyo, al cuore dell’Amazzonia ecuadoriana, zona di forte presenza di imprese petrolifere e di acerrima resistenza da parte dei popoli indigeni. Anni or sono, in quei luoghi si decise di mantenere il petrolio nel sottosuolo dell’area forestale di Yasuni, una vittoria consolidata lo scorso anno da un referendum popolare che vanificò i tentativi di boicottaggio da parte del governo del Presidente Daniel Noboa.
di Rosa Jijon
I diritti della Natura riconosciuti dalla Costituzione ecuadoriana sono stati al centro di varie iniziative all’interno della Cupula dos Povos, tra cui la sesta sessione del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, Verso un nuovo impegno con la Madre Natura, appuntamento conclusivo di una serie di sessioni tematiche su combustibili fossili e imprese minerarie canadesi. Prima in occasione della Climate Week di New York del settembre dello scorso anno, poi in tre sessioni (Serbia, Quito e Toronto) il Tribunale ha analizzato decine di casi di estrazione petrolifera, e progetti minerari di imprese canadesi, per lo più impegnate nella prospezione o estrazione di minerali “critici” o di “transizione”; necessari per la “transizione energetica” evidenziando le violazioni dei diritti delle comunità, dei difensori e difensore della Madre Terra, e della Natura.
Parte del Tribunale, presieduto da Nnimmo Bassey storico attivista nigeriano e Ana Alfinito, avvocata brasiliana, è stata così dedicata all’analisi delle contraddizioni del modello di transizione energetica e la sua incompatibilità con il paradigma di riferimento del capitalismo estrattivista. Non a caso due importanti ricercatori del Pacto Ecosocial ed Intercultural del Sur, Maristella Svampa e Breno Bringel, hanno definito questa fase come quella del consenso della decarbonizzazione, caratterizzata da nuove forme di colonialismo e creazione di nuove zone di sacrificio per alimentare la transizione energetica nei vari Nord del mondo. Il Tribunale ha poi presentato le sue sentenze su combustibili fossili e imprese minerarie e la sua politica sui difensori della Madre Natura introdotta dall’intervento del Relatore Speciale ONU per i difensori dell’ambiente Michel Forst e adottato la sua dichiarazione finale “Per un nuovo impegno con la Madre Terra”, contributo politico ai lavori della Cupula dos Povos.
Nella sua dichiarazione il Tribunale afferma che la policrisi attuale ha origine nei sistemi economici, politici, i e sociali determinati dalla capitalismo, orientato alla crescita, oltre che al patriarcato, il razzismo e l’antropocentrismo. Chiede che l’Amazzonia venga riconosciuta come soggetto di diritto in base alla recente opinione consultiva della Corte Interamericana dei Diritti Umani che per la prima volta riconosce i diritti intrinseci della Natura.
Questo però non basta, sarà urgente infatti porre fine all’estrazione di minerali e combustibili fossili dal suo sottosuolo oltre a rigettare false soluzioni alla crisi climatica quali il carbon trading o altre forme di “mercantilizzazione” della natura, o forme di “transizione verde” che vengono imposte a discapito dei diritti della Natura e dei popoli.
Il Tribunale annuncia poi l’intenzione di tenere una sessione specifica su petrolio in Amazzonia, proprio in concomitanza con il FOSPA in Ecuador, e riconosce il ruolo chiave delle comunità e dei difensori e difensore della Madre Terra, esortando la comunità internazionale a “riparare” ai danni causati da decenni di estrattivismo. Nel corso della Cupula dos Povos si sono tenuti altri Tribunali etici o di opinione, uno contro l’ecogenocidio convocato da movimenti di base brasiliani, confluiti nell’inizativa parallela della COP do Povo, altri due sul tema della transizione giusta e il razzismo ambientale e l’impatto delle imprese minerarie sui diritti dei popoli nello stato di Pará svoltosi in una zona periferica di Belém.
Il Tribunale sulla transizione giusta promosso da ActionAid Brasile, ed ispirato alla sessione sul Cerrado del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), ha analizzato vari casi portati alla sua attenzione da comunità di donne “quilomboas”, (popolazioni afrodiscendenti) relative alla contaminazione causata dalle imprese minerarie, o dall’imposizione di megaimpianti eolici “made in France” per la produzione di idrogeno verde da esportare in Europa, in particolare nello stato di Cearà, esempio evidente di come il Green New Deal europeo contribuisce a perpetuare ingiustizie storiche nei confronti di territori sacrificabili allo sviluppo, verde o marrone che sia.
Altro caso presentato da comunità quilomboas di Belém era relativo agli impatti provocati dai lavori per la preparazione delle infrastrutture necessarie per ospitare le decine di migliaia di delegati alla COP30. Tra questi l’inquinamento provocato da infrastrutture fognarie che scaricano reflui nei quartieri periferici di Belém, oppure un’operazione in puro stile greenwashing, con la piantumazione di alberi per creare una foresta ai margini dell’aeroporto di Belém e che invece non è stata mai ultimata lasciandosi dietro gravi danni ambientali per le popolazioni afrodiscendenti.
Uno dei leitmotiv delle mobilitazioni a Belém è stato proprio la forte presenza di popoli indigeni e afrodiscendenti, “invisibili” al potere, ed alle istituzioni e che a Belém hanno preso parola per denunciare le loro condizioni di vita inique. Per molti popoli indigeni brasiliani e quilomboas Belém ha forse rappresentato l’ultima opportunità di visibilità e di amplificazione delle proprie richieste a fronte del rischio di un ritorno delle destre al potere.
E per questo è stato necessario alzare il livello delle mobilitazioni, con ben due irruzioni all’interno della zona “blu” quella dove si svolgono i negoziati ufficiali ben distante in termini topografici e politici dalla Cupula dos Povos.
Proprio all’indomani dell’ultima azione di protesta del popolo Mundurukù, Sonia Guajajara annunciava la decisione di demarcare quelle terre e il lancio di una iniziativa intergovernamentale di 15 paesi, la prima in assoluto nel suo genere, per la demarcazione ed il riconoscimento dei diritti territoriali di popoli indigeni e comunità locali e afrodiscendenti, e la protezione delle foreste. Dieci saranno quindi le terre indigene demarcate in Brasile, su un totale di 63 milioni di ettari che il governo intende regolalizzare, 59 milioni dei quali per i popoli indigeni e quattro per le comunità quilomboas. Colombia e Congo hanno annunciato iniziative simili.
di Rosa Jijon
L’appello alla demarcazione delle terre indigene era stato ripreso anche nella dichiarazione finale dellaCupula dos Povos nella quale si chiedono anche il riconoscimento del ruolo centrale delle conoscenze ancestrali, la riforma agraria e la promozione dell’agroecologia, il contrasto a forme di razzismo ambientale, si condanna il genocidio del popolo palestinese e si chiede che le spese militari vengano destinate al recupero e risarcimento del debito ecologico causato dai disastri climatici e dall’estrattivismo fossile.
La dichiarazione della Cupula sostiene la richiesta di nonproliferazione fossile ed una transizione giusta, sovrana e popolare fatta dai popoli e per i popoli, respingendo ogni forma di «falsa soluzione di mercato». Tra queste il programma TFFF (Tropical Forests Forever Fund) un fondo promosso dal governo brasiliano con la leadership della Banca Mondiale che dovrebbe convogliare capitali pubblici e privati per 4 miliardi di dollari l’anno alla protezione delle foreste.
Il rischio, secondo le decine di organizzazioni che hanno firmato una dichiarazione congiunta al riguardo, è che questo programma possa offrire alle imprese l’ennesima occasione di greenwashing, oltre a non affrontare alla radice le cause della deforestazione senza mettere al centro i diritti dei popoli delle foreste.
Il messaggio era e resta uno: è il momento di tracciare una linea rossa, la fine dell’economia fossile e del capitalismo estrattivista. Belém dimostra che da allora i movimenti sono cresciuti, si sono consolidati e offrono alternative concrete e praticabili e sopratutto quanto mai urgenti, come si legge nella dichiazione di Belém del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, per noi umani e per tutto il vivente.
COP30: Extinction Rebellion scarica 30 tavoli davanti alla Regione Piemonte. “Tutte le occasioni mancate”
Torino, 21/11/2025 – Extinction Rebellion ha scaricato 30 tavoli verdi davanti al grattacielo della Regione Piemonte e aperto uno striscione “COP30: Tavoli Mancati”. Nei giorni conclusivi della conferenza sui cambiamenti climatici che si tiene a Belém, il movimento denuncia gli impegni disattesi da Governo e Regione nel contrasto alla crisi ecoclimatica e l’aperta opposizione del Governo alle politiche climatiche europee e alla COP30.
Questa mattina Extinction Rebellion ha scaricato 30 tavoli verdi davanti al grattacielo della Regione Piemonte, dove si è formato un presidio accompagnato da uno striscione “COP30: Tavoli Mancati”. Su uno dei tavoli, quello più grande, si legge “COP30: profitti per pochi o salvezza per tutti?”, e un paio di persone hanno composto a terra la scritta “Agire Ora” con carta verde bagnata. Mentre a Belém la conferenza per il clima entra nel vivo dei giorni finali, il movimento nonviolento denuncia le promesse disattese della politica nel contrasto alla crisi climatica e la necessità di abitare pienamente e responsabilmente i tavoli di confronto e decisione internazionali.
“Questi tavoli rovesciati rappresentano tutte le occasioni mancate e le promesse infrante di oltre 30 anni di conferenze per il clima, a partire dagli obiettivi falliti degli Accordi di Parigi” spiega Maria, una delle persone sul posto. “E mentre in Piemonte stiamo perdendo le nostre montagne, il Governo Italiano ha di fatto boicottato la COP di quest’anno: fisicamente e politicamente”. Il riferimento è all’assenza della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Belém, dove è invece intervenuto il ministro Antonio Tajiani, che ha esortato gli stati presenti ad evitare un approccio dogmatico. “Governo e Regione Piemonte parlano da anni di voler attuare un approccio pragmatico e di buon senso alla transizione. Ma come hanno intenzione di farlo, senza stanziare i fondi adeguati?” continua Maria. A livello nazionale, infatti, il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici non è stato incluso nella legge di bilancio 2025. Il Governo sta invece investendo in progetti legati ai biocombustibili, come presentato da Pichetto Frattin proprio durante la preCOP, in aperto contrasto al parere espresso da oltre cento scienziati in una lettera sui rischi ambientali e sociali legati all’espansione dei biocarburanti di aumentare le emissioni. In modo analogo, la Regione Piemonte ha stanziato per il 2025 70 milioni di euro per potenziare impianti di innevamento artificiale, nonostante in Piemonte siano 76 gli impianti sciistici dismessi, poiché posti a quote dove ormai non nevica più.
Negli ultimi mesi l’Italia si è inoltre opposta all’avanzamento delle principali politiche climatiche europee: dalla riduzione delle emissioni al 2040, agli standard sulle auto elettriche, fino ai piani di decarbonizzazione industriale, mentre ha dato il via libera a nuove trivellazioni. Un posizionamento politico che ha contribuito alla perdita di leadership in ambito climatico dell’Unione Europea, e che persevera alla COP30, dove l’Italia è l’unico altro paese europeo oltre alla Polonia a non supportare la richiesta di una roadmap per l’uscita dai combustibili fossili. Eppure è proprio l’Italia ad essere il paese più colpito in Europa, da eventi estremi, come ondate di calore che hanno causato 4.500 vittime nel 2025, di cui 230 solo a Torino, e dai danni economici che ne derivano, stimati a 11.9 miliardi di euro per il 2025.
“Opporsi alle politiche climatiche europee e internazionali condanna l’Italia a rimanere indietro in una transizione che sarà inevitabile, ma che più rimandiamo più sarà drammatica per la popolazione. Non possiamo permetterci di mancare un altro tavolo.” conclude Maria
Extinction Rebellion
Nella giornata conclusiva della COP30 a Belém, Greenpeace Italia ha srotolato un enorme scontrino con il conto della crisi climatica a Versa, nel Goriziano, tra le aree più colpite dall’alluvione in Friuli-Venezia Giulia, dove volontari e volontarie di Greenpeace sono ancora all’opera per aiutare la popolazione a liberare le case e le strade dal fango. Lo scontrino è un lungo elenco di eventi climatici estremi verificatisi negli ultimi 10 anni, dall’Accordo di Parigi sul clima a oggi – a cui si aggiungono eventi come quello di questi giorni -, e una stima dei costi che la collettività sta già pagando e pagherà a causa delle emissioni senza controllo delle grandi aziende del petrolio e del gas. L’appello rivolto ai governi riuniti alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima (COP30) in Brasile è di far pagare i grandi inquinatori e utilizzare i ricavi per finanziare seriamente la transizione energetica e la sicurezza del territorio in cui viviamo.
«Di fronte all’ennesimo evento climatico estremo, non possiamo più tollerare il disinteresse del governo italiano verso la crisi climatica e le persone che ne sono colpite», dichiara Federico Spadini della campagna clima di Greenpeace Italia. «Mentre alla COP30 si discute di una roadmap per l’abbandono dei combustibili fossili, l’Italia cerca di sabotare l’azione per il clima, continuando a mettere la protezione degli interessi delle aziende del petrolio e del gas davanti alla protezione della vita delle persone. È ora che il governo si schieri dalla parte delle persone e del pianeta e faccia pagare le aziende fossili per i danni che stanno causando».
Nell’accordo finale della COP30, Greenpeace chiede ai governi di tutto il mondo un impegno serio per ridurre le proprie emissioni di gas serra, accelerare l’abbandono dei combustibili fossili, contrastare la deforestazione e proteggere i territori più esposti agli eventi climatici estremi. Greenpeace chiede inoltre al governo italiano di introdurre nella legge di bilancio una tassazione straordinaria sugli extra-profitti delle aziende fossili, principali responsabili della crisi climatica, per farle pagare per i danni che stanno causando.
Lo scontrino gigante di Greenpeace riporta infatti la stima dei danni economici che le emissioni di anidride carbonica degli ultimi dieci anni di sei grandi compagnie petrolifere e del gas (ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, TotalEnergies ed ENI) sarebbero in grado di causare: un totale di circa 5.070 miliardi di euro. Nelle ultime settimane, lo scontrino simbolo del conto della crisi climatica è stato presentato in giro per il mondo, dall’Italia agli Stati Uniti, dalle Filippine alla COP30 in Brasile.