Hagedorn, le gang e i “propol” dei media

Forse le domande semplici sono quelle che richiedono risposte complesse. Per esempio «perché le gang sono ovunque?» si chiede John Hagedorn nell’introduzione al suo ultimo libro e deve farci fare il giro del mondo, viaggiando anche nel tempo, per rispondere in modo convincente.

Sorprendente, sempre leggibile, documentatissimo, mai predicatorio questo «Un mondo di gang» (edizioni XL: 246 pagine per 15 euri, traduzione di Adriano Angelini) con il sottotitolo «Giovani armati e cultura gangsta». Se il cuore del racconto è negli Stati Uniti di oggi, impressiona come le “bande” siano in ogni parte del mondo: qualcosa sappiamo (molto colore e pochi fatti) di Rio de Janeiro, del Centroamerica e delle periferie parigine ma Hagedorn racconta cosa sta accadendo a Mumbai e Città del capo, Haiti e Nairobi, a Brazzaville e nel Kosovo, in Pakistan, Colombia, Nigeria, Perù, Giamaica, Algeria….

Stereotipi zero. Per esempio «la miglior definizione di gang» scrive Hagedorn «è quella che la vuole senza forma: sono semplicemente gruppi di alienati che, non già le istituzioni convenzionali, ma la strada o la prigione fanno socializzare». Sono pagine zeppe di analisi e di riflessioni, ma anche di racconti vivacissimi, canzoni e frammenti storici dimenticati dai più. Nell’introduzione Hagedorn accenna tre questioni cruciali (sulle quali tornerà in tutto il libro) che vale accennare subito. «Le gang non sono una forma univoca ma una delle molte tipologie di gioventù armata che occupa gli spazi non controllati del mondo dei sobborghi» è il primo punto-chiave. Il secondo: «Le gang subiscono l’influenza dell’oppressione razziale ed etnica, così come della povertà e dei quartieri degradati, e sono una reazione disperata contro la diseguaglianza disperata». Il terzo punto è quello che si apre a una, pur flebile, speranza: «E’ questa forza dell’identità, che comprende le aspirazioni ad affermarsi nella vita tipiche dello stile hip-hop, il luogo in cui si può coltivare una controforza culturale al nichilismo giovanile, alla misoginia e all’autodistruzione» scrive Hagedorn in un breve passaggio (ne riparlerà in più punti del libro e soprattutto nel finale) che si conclude così: «Alcune gang hanno dimostrato di poter superare le loro tendenze violente ed essere inserite all’interno di movimenti più vasti di giustizia sociale, anche se questo compito è onestamente probante». Difficile certo, non impossibile.

Molte altre questioni strategiche si intrecciano alla ricerca di Hagedorn: la «ritirata dello Stato» che rafforza e moltiplica «le identità locali, collettive, religiose o etniche» (la definizione è di Manuel Castells, spesso citato da Hagedorn) per dirne una; la ricostruzione delle città in base a «una forma di pulizia etnica interna, una guerra segreta»; le varie forme di «privatizzazione della violenza» in atto un po’ ovunque; le brutalità tollerate delle varie polizie e l’infezione razzista; il lavoro che sparisce; la rinascita delle gang che non si lega a una cospirazione criminale ma alle concrete politiche economiche degli Stati o delle amministrazioni; la misoginia incoraggiata in alto e in basso; il rapporto con le droghe (il secondo produttore mondiale di profitto) e il loro smercio.

«Questo volume non parla soltanto di gang: parla della sofferenza non necessaria» spiega, proprio all’inizio, Hagedorn. Linguaggio insolito per un professore di Giustizia penale ma chi lo leggerà non faticherà a capire che l’origine di quelle sofferenze “non necessarie” è da cercare nelle devastazioni del capitalismo. Le gang sono una delle tante risposte arrabbiate (e senza dubbio sbagliate) «alle condizioni economiche in un mondo globalizzato». Siamo in un labirinto – con molti ingressi ma apparentemente senza uscite – di povertà, razzismo, oppressione, reazioni violente, nichilismo, nessuna progettualità in alto o in basso. Sconfiggere le gang è pressoché impossibile in questo sistema. Una speranza invece è dialogare con la rabbia per portarla all’azione sociale. E’ già accaduto nella storia degli Stati Uniti e Hagedorn spiega chi e perché lo ha voluto o contrastato rispetto a vecchie e nuove gang raccontando «le sommosse razziali» del 1919 e degli anni ’60.

Qualche mese fa durante le rivolte e i saccheggi in Gran Bretagna molti giornalisti italiani nel commentare le riprese dall’alto (probabilmente su elicotteri della polizia) ripetevano come un mantra che così ben si vedeva quanto fossero organizzati i teppisti. Per la verità, almeno in quelle immagini, trionfava una evidente disorganizzazione dei “saccheggiatori” mentre risultava davvero impressionante (se si eliminava il sonoro era anche meglio) la desolazione dei luoghi dove “la canaglia” vive. La prima spiegazione della rabbia era semplicissima: abitare in luoghi simili è un’offesa permanente, un inferno sotto altro nome. Hagedorn direbbe: «per le gang la prigione è una parte del quartiere e viceversa».

Nella bella prefazione Mike Davis ricorda che le gang non sono un fenomeno recente: in qualche modo la Roma repubblicana doveva confrontarsi con le “bande” che controllavano la fornitura di grano per la città. E in una nota si ricordano le milizie cittadine di Alessandria contro “i nemici della fede” create del vescovo Cirillo che fu, tra l’altro,il mandante dell’assassinio di Ipazia. E’ anche vero, come precisa Hagedorn che «se da una parte le gang ci sono sempre state, oggi il mondo urbanizzato ne produce più velocemente che mai e in innumerevoli forme e tipologie».

Nel lodare il valore delle ricerche di Hagedorn, Davis mette in guardia contro tesi (senza vero lavoro di indagine) o campagne che danno un’immagine terroristica di ogni protesta o sottocultura giovanile in una impressionante convergenza con chi blocca ogni sbocco dei gruppi che si trovano nei quartieri più poveri verso la partecipazione in «organizzazioni comunitarie legali»

Anche chi non conosce/apprezza particolarmente le subculture giovanili resterà preso al laccio da Hagedorn che riesce a far capire come l’hip-hop e le canzoni di Tupac Shakur o di Amerika Bambaataa non abbiano niente a che vedere con il gangsta-rap inventato «dall’immaginazione malata dei dirigenti delle case discografiche dei bianchi». Eppure la fasulla identità “gangsta” – prodotta in studio – finisce per condizionare i giovani: «la vita che imita l’arte che imita la vita in un modo che renderebbe fiero Jean Baudrillard».

Gran libro dunque. Difetti? A esser pignoli, due nei si possono trovare. In qualche passaggio politico-storico Hagedorn è frettoloso: che sia lui a parlare o che stia citando assimilare Lenin, Lennon e John Kennedy è insensato prima che inesatto (ma è solo un esempio fra i tanti). Il secondo difetto sta nelle note: è giusto ricordare che «L’uomo invisibile» di Raplh Ellison è stato tradotto ma anche moltissimi altri testi (di Alain Touraine e di George Jackson, di Edward Said e di Saskia Sassen, e più indietro nel tempo di Frantz Fanon e di Du Bois, tanto per dire) circolano – per fortuna – in edizione italiana, dunque perché non indicarlo? Sono invece molti i testi – per esempio di bell hooks (si firma lei con le minuscole) – che sarebbe utile tradurre ma questo è tutto un altro, triste discorso.

Infine avviso gli-le acquirenti (spero di averne convinto moltitudini) di controllare se a pagina 78 è tutto a posto; nella mia copia infatti sono saltate 4 pagine e le relative 15 note.

Grazie davvero alle edizioni XL per questa scelta. Chi legge bene l’inglese vada sul sito di Hagedorn (gangresearch.net) che conta circa 2 milioni di contatti al mese: più lui studia a fondo il fenomeno e raccoglie storie dalla strada più gli accademici invitano a buttarlo fuori dall’università. Disamore ricambiato; lui infatti intitola uno degli ultimi paragrafi «requiem per la criminologia tradizionale».

Può darsi che anche il tiepido ottimismo di Hagedorn sia troppo o che lui sopravvaluti il ruolo positivo della musica. Quali che siano le critiche siamo di fronte al caso – ormai rarissimo – di uno studioso “sociale” che sa davvero di cosa parla. Per questo fa paura ai “propol”, i professori poliziotti che sono ormai gli unici autorizzati a parlare nei media. Quando verso la fine del libro (pagina 220) leggerete la storia del 2004 di Miloon Kothari, «l’esperto più alto in grado delle Nazioni Unite sulle questioni abitative», forse vi chiederete perché non la conoscevate. La risposta è banale: anche in Italia, da tempo, comandano i “propol”. Veramente non ve ne eravate accorti?

Diamo per assodato che le frasi in copertina siano fastidiosamente incensanti. Ma stavolta Mike Davis ha ragione: «Un libro che francamente tutti dovrebbero leggere e discutere, soprattutto i giovani».

a intuizioni pericolose».

UNA PICCOLA NOTA

Come già per l’intervista a Gianfranco Manfredi e altri pezzi questa recensione – in una versione ridotta – era da tempo ferma. Capita ogni tanto, per le più disparate ragioni, che alcuni miei articoli (talora persino concordati o programmati per le testate – ormai poche – con le quali collaboro) non escano e ovviamente mi dispiace… Ho la soddisfazione (magra?) di poterli recuperare – e ampliare – in blog. (db)

 

Redazione
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Un commento

  • Dell’esistenza preminente dei propol sono consapevole da decenni. Loro ci sono sempre stati e hanno sempre comandato. Salvo qualche breve parentesi di offuscamento (meglio: di contenimento: vedi 1968-1972) nel corso del quale, svolgendo appieno il loro nefasto ruolo, parlavano (e parlano) di predominio della cultura di sinistra, di sottocultura del ’68 ecc.
    Concordo anche sul ruolo della musica, che poi è ruolo della cultura. Ma se non è accompagnata da vasti movimenti di opposizione (opposizione vera e di massa) ben poco può la cultura. Neppure preparare il terreno, come credeva Gramsci, cioé preparare l’egemonia culturale. Può invece se innestata in un programma politico (partiti o movimenti poco importa) che ne riconosca l’importanza. Che sostenga letterati, pittori, musicisti per poter esserne sostenuto.
    Articolo comunque interessante. Spero che produca riflessione. La materia c’è, basta svilupparla.

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