Non è solo questione di genere…

ovvero: le relazioni trasformative nell’epoca della crisi infinita

di Gianluca Ricciato

In questa epoca, se un gruppo di persone si ritrova a compiere l’atto elementare del raccontare e del raccontarsi, corre il rischio di essere percepito immediatamente come un gruppo che sta facendo terapia, o eventualmente, che si sta dedicando al teatro.”

Questa è una riflessione di Franco Lorenzoni che si trova nel libro Così liberi mai, dedicato all’esperienza pedagogica rivoluzionaria del cerchio narrativo. Il cerchio narrativo è un tentativo anomalo, quasi sovversivo, di portare nell’esperienza didattica con i bambini elementi di vissuto, di narrazione, di realtà, pezzi di vita che normalmente i programmi scolastici escludono o fanno rientrare marginalmente. Per fare questo ci vogliono momenti di silenzio, creazione di scenari, insegnanti consapevoli, messa in gioco delle emozioni.

C’è un filo che lega questa esperienza a quella di molti movimenti, tra cui quello dell’autocoscienza femminile. La liberazione delle emozioni fu allora il punto di svolta di una pratica e di una teoria, di una riappropriazione del privato, del corpo e contemporaneamente di una presa di parola pubblica che cambiò il mondo.

Al di là, anzi al di qua delle evoluzioni successive dei femminismi e del mondo.

Non sembri strano dunque che la narrazione è stata ed è lo strumento principale di una categoria di persone che si definisce “maschi” per indagare su se stessi e sugli altri appartenenti a questa categoria. La narrazione è svelamento, è condivisione di emozioni, è vomitare fuori i fantasmi, è guardarsi dire quello che ogni giorno pensiamo ma non diciamo mai. Ci vogliono anche qui contesti, scenari, situazioni, ad esempio ultimamente come gruppo Trasformazione di Maschile Plurale ci troviamo nel casolare di Baschi, in Umbria, e mettiamo in atto situazioni, contesti, scenari educativi che inevitabilmente domandano a noi stessi come stiamo, cosa stiamo facendo, come stiamo agendo nel nostro lavoro o attività di educazione e di formazione. Ma ci domanda anche fino a che punto riusciamo a mettere in atto delle relazioni trasformative, che partano dalla nostra trasformazione personale, “privata”, e riescano a fare breccia in un mondo comandato da puttanieri attempati che non vogliono lasciare una briciola del loro potere ai più giovani e che hanno un immaginario sessuale che dire povero è un eufemismo, dire mostruoso e disperato forse è più vicino alla realtà.

Maschile Plurale è una rete nazionale di maschi con idee differenti tra di loro, ma che condividono la posta in gioco del mettere in discussione la maschilità tradizionale, quell’immaginario sessuale, quelle dinamiche di potere, quella solidarietà maschile misogina che è trasversale alle classi sociali, alle ideologie e agli schieramenti politici, ma che nella realtà riporta quel sistema di idee che è sempre lo stesso nella storia del potere maschile, cioè la dominazione, la competizione, la sopraffazione per affermarsi nel mondo e per fugare le proprie paure, le debolezze, di mostrarsi dipendente, instabile, labile, impotente di fronte a tante cose che ti mette contro la vita. “Impegnati a costruire grandi idee e grandi progetti, mentre le donne erano impegnate in cose più importanti” ha detto ultimamente Luisa Muraro in un convegno, forse riprendendo una frase attribuita a John Lennon che ultimamente sta girando nelle condivisione via web, cioè che “la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato in altri progetti”. Oggi, raccontarsi dipendenti, con lavori instabili, senza un’idea di futuro, senza un’idea stabile di relazioni di coppia, ci rende vulnerabili, ma in questa vulnerabilità, in questa crisi, in questa apertura di senso va ricercata l’alternativa che scardinerà tutto e rovescerà lo stato di cose.

Vanno ricercate le alternative nelle pratiche di relazioni trasformative, e questo è il punto fondamentale, che attraversa tutti i movimenti che oggi cercano di fare breccia. Non sono certo le bombette inventate da questo Stato mafioso che hanno fatto durare vent’anni il movimento No Tav, ad esempio, non è certo quest’idea macchiettistica di “centri sociali” che i giornalisti citrulli ripetono come automi, che hanno permesso questa forza incredibile, trasversale alle età e alle idee politiche tradizionali. È stato un certo modo di stare insieme che ha portato una percentuale strappalacrime di valsusine e valsusini a frequentare luoghi pubblici ogni sera invece di ossessionarsi davanti alla televisione come il resto degli italiani. È stato lo stare insieme, in una parola la relazione, il condividere, il narrarsi. Le donne che inscenano il sabba delle streghe, in questi giorni, davanti alle barricate della polizia e ai cancelli del cantiere di Chiomonte, sono un esempio mirabile di cosa significa fare una lotta radicale, ironica, sovversiva, nonviolenta, in una parola femminista, nel senso più profondo della parola “femminismo” che non è rivendicazione di posti al potere ma ribaltamento del sistema di potere esistente.

Su questo però, che è il fondamento della nuova era di relazioni, si sovrappone il reiterarsi di vecchie pratiche distruttive che non riescono a liberarsi da quella competizione e da quella paura. Riguardo a questi temi c’è stato un dibattito il 16 luglio, all’interno del decennale del G8, dal titolo Incontro – Donne e uomini in movimento per liberare i conflitti, con Stefano Ciccone di Maschile Plurale tra gli organizzatori, per discutere del perché non si riesca veramente ad incidere praticando un cambiamento che passi anche attraverso i metodi, le forme, i linguaggi, superando il volontarismo e lo scontro psicotico e ossessivo che crea solo maggiore frustrazione e non modifica nulla. È ancora quel piccolo mondo antico al potere certo, è quel riproporre immaginari virilisti e competitivi, è una fusione di tardo capitalismo e neofascismo che tentano di tenere in piedi una civiltà già in decomposizione, il conservatorismo della morale misto ad un finto libertinismo commerciale, un mix complesso e micidiale per salvare privilegi maschili, bianchi, occidentali, magari facendo partecipare a quei privilegi anche le vecchie parti oppresse, i neri eletti presidenti, le donne elette ministre. Ma la solfa non cambia con le quote rosa, il cancro del sistema è irreversibile, e questa crisi infinita e questa guerra permanente lo stanno dimostrando.

Il problema è che questo male trapassa anche noi, che non riusciamo a trovare forme collettive diverse, creative e ricadiamo nei vecchi stereotipi di lotta. Fu così dieci anni fa a Genova nonostante le indubbie novità di contenuti e anche di modalità che si riportarono, ma nella trappola ci cademmo comunque. Succede continuamente, nel momento in cui qualcuno crede che le lotte per la libertà sessuale, per l’autodeterminazione, per una società nonviolenta, siano lotte mollicce, borghesi, poco radicali, mentre bisogna andare a fare la voce grossa con i caschi e le mazze. Si alimenta il potere e l’immaginario reazionario, nel momento in cui si crede che le lotte dei froci siano lotte dei Dolce e Gabbana, dimenticando Stonewall, Pasolini, i viados esclusi da questa società, le difficoltà delle persone transgender di trovare lavoro, le trans brasiliane fatte fuori l’anno scorso dai servizi segreti per il caso Marrazzo. “Meglio Berlusconi che va a puttane che Marrazzo che va a trans” quanti di destra e di sinistra l’hanno pensato e lo pensano ancora, alimentando una doppia morale doppiogiochista che è lo storico vero male dell’immaginario italiano, del maschio italiano?

Gli esempi del sessismo, della misoginia, dell’omo-lesbo-transfobia, del maschilismo retrivo, del reazionarismo inconsapevole, della chiusura emotiva, del fascismo in poche parole travestito da antagonismo, sono veramente innumerevoli ogni giorno, dai comunicati politici ai post dei social network.

Voglio riportare qui una battaglia fatta da Smaschieramenti, un collettivo (post)queer bolognese di cui faccio parte. Smaschieramenti nasce come laboratorio misto di orientamenti sessuali e generi, all’interno del centro sociale Atlantide, nasce come laboratorio di Antagonismogay che è un collettivo che ha tematizzato fin dalla nascita appunto la trasversalità delle lotte e la fuoriuscita dallo stereotipo del gay fashon connivente con il potere. Nasce del resto all’interno delle esperienze del movimento antiglobal, che insieme ai percorsi GLBTQ, femministi, delle autogestioni e insieme a tante altre intersezioni, con i movimenti ecologisti, pacifisti e antirazzisti ad esempio, hanno portato appunto alle “indagini” di Smaschieramenti, indagini e autoindagini su quali siano le nostre forme di connivenza con il potere, che è potere maschile prima di tutto, e con la violenza, che è violenza di genere nella forma più diffusa e quotidiana.

L’esempio che volevo riportare, come esempio di sessismo e fascismo malcelato nei movimenti, è un episodio di qualche anno fa legato ad una lettera che scrivemmo e che condividemmo con molte realtà cittadine. L’occasione ci fu data dall’arrivo in città di Sizzla Kalonij, inquietante personaggio della scena reggae con un grosso seguito in tutto il mondo, il corrispettivo giamaicano di un Fabri Fibra, in comune a mio parere hanno il loro successo nell’essersi riusciti a costruire un seguito di fans senza alcuna coscienza politica e sociale che scimmiotta ritornelli violenti e stupidi, regalando loro un sacco di milioni e credendo nello stesso tempo di essere antagonisti. Riporto qualche passo di quella lettera:

Buju Banton, Capleton, Sizzla, Beenie Man, il movimento dei Bobo Dread e in generale parte della musica che ruota intorno alle dance-hall e al ragamuffin, hanno veicolato a partire dagli anni ’90 messaggi di odio verso gli omosessuali, le lesbiche e in generale verso la libertà sessuale che sarebbe secondo loro una sorta di corruzione determinata dalla società occidentale, al pari dell’inquinamento e del capitalismo… Una parte del reggae, in particolare gli autori citati ma non solo, si è prestata a veicolare questa cultura di violenza, facendosi forte del fatto che la cultura reggae e quella giamaicana non hanno ancora sviluppato gli anticorpi verso le intolleranze sessuali. Ma probabilmente questi anticorpi stanno nascendo ora: anche il governo giamaicano ha preso le distanze dalle liriche omofobiche, e ad esempio il grande poeta-cantante dub Linton Kwesi Johnson, per citarne uno, ha descritto questi cantanti come “qualche cretino che accarezza nel senso del pelo i bassi istinti del pubblico”.’

A questo va aggiunto che Sizzla e altri hanno tentato di prendersi gioco di queste critiche firmando un imbarazzante COMPASSIONATE ACT, con il quale credevano di essersi confessati, e da allora hanno continuato a cantare i loro pezzi violenti. È un esempio probabilmente della loro visione confessionale della vita, non stupisce. Così come non stupisce che dalla teoria si passi alla pratica, con i pestaggi squadristi condotti da Buju Banton contro attivisti gay giamaicani.

Ora, il rischio qui è forte e si cammina su un filo, qualunque posizione si prenda si rischia di cadere e quello che auspicavamo con questa lettera era appunto l’apertura di un dibattito, non la censura che è una forma mentis che non abbiamo e non ci interessa. Perché un movimento artistico, culturale, estetico, sociale come il reggae, che auspica un mondo di pace e senza discriminazioni, che denuncia il colonialismo, che inveisce contro Babilonia che ha distrutto la pace nel mondo, che si muove a ritmo delle positive vibration, che mira a diffondere l’amore nel mondo, one love, ha subìto questa virata orrenda, ad un certo punto della sua vita? Non di tutti, per fortuna, si potrebbero portare innumerevoli esempi della scena reggae che nulla hanno a che spartire con questi testi. Perché la critica all’occidente capitalista si è trasformata in critica a quei (pochi) spazi di libertà conquistati da movimenti nati in occidente ma antagonisti al potere istituzionale?

Qui come in altri casi, secondo me, sono importanti più le sfumature che i toni accesi. Il metodo attraverso cui il sistema simbolico dominante, cioè l’immaginario comune pilotato da chi controlla i media, sussume un’idea, la svuota di significato e la ripropone in forma distorta e funzionale ai propri scopi, è un metodo ormai smascherato in sede di critica delle idee. Ne hanno parlato Debord, Foucault, Baudrillard e tanti altri e anche buona parte delle teorie femministe del simbolico. Ma evidentemente non basta perché sia opinione comune nemmeno tra gli “antagonisti”.

Non si possono usare gli stessi linguaggi, le stesse metafore, a partire da quelle belliche, per contrastare un immaginario culturale, occorre cambiare metafore o forse cambiare proprio figure retoriche, cambiare linguaggi, cambiare la mente. E non dimenticare che la società dello spettacolo è sempre lì pronta a risucchiare nuovi linguaggi per veicolare vecchie idee col volto rifatto. Ci da un esempio di questo meccanismo Naomi Klein, nella recentissima nuova introduzione a No Logo: “nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: ‘Per la prima volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il contenuto’.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea.”

Un Fabri Fibra che fa il bullo e veicola messaggi sessisti è funzionale al berlusconismo, è un inutile ribelle sussunto dal sistema che ora ha preso in mano l’arma estetica dell’antagonismo, in questo caso le rime hip hop. Ma il danno più grande che fa è appunto lo screditamento di un’intera area culturale, artistica, estetica, nel suo caso l’hip hop italiano che in effetti ha subìto una caduta a picco negli ultimi tempi, dopo i fasti degli anni Novanta in cui era davvero una delle voci principali della critica al potere. Quanto lui sia l’artefice o il frutto di questa caduta non lo saprei dire ma al di là dell’analisi sociologica del suo caso, quello che mi interessa è il suo esempio paradigmatico, così come Buju Banton & company, così come tanti altri che portano acqua al mulino controrivoluzionario facendo finta di essere rivoluzionari. Le lotte per la libertà sessuale non sono piccole soddisfazioni borghesi, ma battaglie per disincarnare la forma più concreta e quotidiana di potere, quella fondata su una divisione binaria di generi stereotipati, sulla famiglia o coppia mononucleare, su un produci consuma crepa interiorizzato anche da chi fa la testa calda e si eccita davanti agli scudi della polizia, e magari torna a casa a farsi cucinare e lavare le mutande dalla mamma o dalla fidanzata. Nulla di nuovo per carità, il PCI è stato pieno di esempi di comunisti in piazza e fascisti in casa, ma il problema è appunto questo, un piccolo mondo antico che non si riesce a sradicare quando ormai lo scenario è totalmente cambiato dai tempi del fordismo novecentesco.

Sono state un po’ riflessioni di questo tipo, un po’ preoccupazioni tutte nostre, legate anche alla nostra reale capacità di smarcarci da queste dinamiche, da cui non ci tiriamo fuori, ma che semplicemente chiediamo di mettere in gioco nelle relazioni private e politiche, in quanto nocciolo duro del problema continuamente relegato a questione marginale: è stato tutto ciò a farci partire nel marzo del 2008 con l’auto-inchiesta, il seminario Smaschierati anche tu negli spazi collettivi bolognesi, cioè nelle sedi storiche dei movimenti, in cui chiedevamo in forme ironiche e anonime alle persone intervistate di raccontarci il proprio immaginario sessuale e di genere. La domanda 19, una delle più gettonate, forse è stata quella che ha toccato più nel profondo, se così si può dire, la questione dei tabù e degli immaginari legati soprattutto alla sessualità maschile.

La riporto di seguito:

DOM. 19. La persona con cui sei a letto ti titilla la corolla perineale (cioè il tuo buco del culo). Che effetto ti fa?

  1. Finché titilla, che titilli pure, ma faccio gentilmente capire che non desidero la penetrazione…
  2. Mi piace e faccio gentilmente capire che desidero la penetrazione
  3. “Adoro i preliminari!”
  4. Prendo spunto e contraccambio.
  5. “Non esiste proprio”
  6. “Fanno 100 euro”
  7. “Tesoro, stasera non mi sento in ordine… magari la prossima volta mi organizzo per tempo…”
  8. Sarei un po’ teso/a, ma starei a vedere che succede
  9. Dipende. Da che cosa? …………………………………………………………………………………………………………………
  10. Altro: …………………………………………………………………………………………………………………………………………..

Il tabù maschile. Abbiamo deciso di presentare in forma ironica uno dei tipici tabù maschili perché ci interessava sapere o almeno iniziare a capire come funziona questo tabù oggi tra di noi. Se la pratica anale maschile non sancisce direttamente l’omosessualità, tuttavia mette in discussione l’eterosessualità e le sue costruzioni sociali. Quanto questo è vissuto nelle pratiche, quanto è condiviso? Lo sdoganamento di questo tabù è una sovversione rispetto agli stereotipi sessisti di genere? Il tabù maschile è un fatto solo sessuale? Nella vita quotidiana, nel linguaggio, è onnipresente questo tabù, non solo nelle forme conosciute tipo “prendere per culo”, “te lo metto in culo”, le metafore dello sfondamento, etc, ma anche nelle forme linguistiche della dominazione, del sottomettere e in generale dell’usare metafore che denotano modelli mentali ancora legati al doppio classico: schiavo/padrone, dominazione/sottomissione, penetrante/penetrato.

Qualche tempo fa si è accesa una prima polemica dopo la pubblicazione di un articolo di Aldo Nove sull’inserto Queer del quotidiano Liberazione, che riportava una frase di Parinetto (filosofo marxista eretico): “La rivoluzione passa per il buco del culo”. L’isteria con cui molti compagni hanno accolto questa frase, dicendo che questo umiliava la lotta di classe, cioè l’istanza politica, rivela ancora una volta il tabù, il non voler assolutamente parlare di analità, considerandola “una cosa sporca”.

L’uomo “libero”, il “libero lavoratore” secondo Parinetto, in questo seguendo alcune evocazioni di Marx, interiorizza la dominazione, la riporta in sé in un modo in cui il capitalismo diviene una sorta di magia, di alchimia in cui la ragione perde il controllo e si diventa schiavi in un modo nuovo, diverso dalla dialettica classica del rapporto schiavo/padrone in cui si è costretti a lavorare da una forza maggiore ed esterna, ma si è al contrario indotti da una sorta di forza occulta, interiorizzata, che agisce come demone e spinge non solo a lavorare, ma (oggi più che mai) a consumare in modo compulsivo – l’isteria compulsiva dell’acquisto e i legami con le sfere emotiva e sessuale.

La massima gaberiana “non temo Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me” sembra la chiosa adatta a questo complesso discorso sulla mitizzazione anale del capitale. Verrebbe da chiedersi a questo punto, perché proprio l’analità è diventato il centro di questo tabù sessuale-sociale. Perché ad esempio nella cultura greco-latina c’era una forma diffusa, come sappiamo, di bisessualità in cui il sodomizzatore stava al sodomizzato in un rapporto di forza che rifletteva la ruolizzazione sociale. Perché la costruzione di genere maschile si è fondata su questo tabù, che funziona anche nel capitalismo come polarizzazione, scissione tra pubblico e privato, tra dominante e dominato – alla base del capitalismo e della modernità ci sono i processi dell’Inquisizione (600) in cui le streghe venivano condannate per i sabba (riti magici in cui esse baciavano il culo del diavolo).“Dominare la Natura e dominare le streghe” sono il fondamento del concetto baconiano di antropocentrismo, come riportano Capra dal versante degli studi sistemico-olistici e Poidimani dal versante degli studi di genere.

Il discorso ovviamente è lungo e complesso, ma lo abbiamo iniziato perché ci interessa sapere, e ancora non lo sappiamo, se nel tardo-capitalismo o post-capitalismo funziona ancora il tabù dell’analità o se si sono iniziate a verificare quelle forme di sganciamento e di conseguente messa in discussione dello stereotipo identitario maschile, che Parinetto chiamava le identità in divenire e che mettendo in discussione questo tabù agiscono non solo nuove forme di desiderio, ma una nuova libertà nei rapporti tra i generi e nella costruzione stessa dell’identità.

Ai movimenti attuali, in questo momento di massima crisi e massima apertura che non sappiamo bene a cosa porterà, rivolgiamo la domanda che abbiamo rivolto, per ora invano, ai gestori del Sottotetto di Bologna in occasione del concerto di Sizzla, cioè “se i virus dell’intolleranza religiosa, del machismo patriarcale, del sessismo misogino e della paura delle differenze non siano tornati tra di noi, magari inconsapevolmente”, proprio in questo momento in cui il sistema globale sta dimostrando tutte le sue incongruenze, un momento in cui sarebbe auspicabile la trasversalità e l’apertura all’ascolto per capire veramente tutte le sfumature e le interconnessioni che vengono agite dai dispositivi di potere.

Un momento in cui sarebbe ora iniziare a praticare veramente delle relazioni trasformative, nel nostro privato e nel nostro pubblico.


BIBLOGRAFIA ESSENZIALE

  • Marx diverso perverso, Luciano Parinetto, Unicopli ‘96

  • L’utopia nel corpo, Nicoletta Poidimani, Mimesis ‘98

  • Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Fritjof Capra Feltrinelli, Mi 1984

  • Così liberi mai. La proposta del cerchio narrativo nella scuola di base come scoperta di sé e come apertura agli altri, FrancoLorenzoni, Maria Teresa Goldoni

  • Essere maschi, Stefano Ciccone

  • Queer in Italia, AA. VV.

  • No Logo, Naomi Klein

www.maschileplurale.it

smascheramenti.noblogs.org

www.riotvillage.it

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • le vie dell’auto-censura sono infinite (o posso accampare la scusante della febbre arrembante mentre mettevo il post?): nei TAG non ho inserito “culo” che è, con ogni evidenza, una parola decisiva in questo articolo di Gianluca (db)

  • La cosa più difficile è prendere atto di un fatto inconfutabile:
    “puoi fare ciò che vuoi ma non puoi volere ciò che vuoi.”
    Arthur Schopenhauer

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