Del rischio di estinzione del colibrì…

e le ragioni dimenticate dei movimenti: ampi stralci dell’introduzione al «Rapporto dei diritti globali 2016», pubblicato da Ediesse

di Sergio Segio (*)

Stralci dell’introduzione al Rapporto dei diritti globali 2016.

Del rischio di estinzione del colibrì

Le ragioni dimenticate dei movimenti

Globalizzazione e altermondialismo

Da molti punti di vista e su non pochi aspetti, il cambio del secolo sembra aver chiuso fuori dalla porta Storia e storie, memoria individuale e memoria collettiva. Con un congruo anticipo, del resto, un economista conservatore, Francis Fukuyama, era arrivato a teorizzare proprio la fine della Storia. Contemporaneamente, i suoi colleghi di università e docenza, i “Chicago boys” di Milton Friedman, fornivano le basi dottrinarie di quel processo neoliberista centrato su privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento dei sistemi di welfare, deregulation e messa in mora di poteri e controlli pubblici tuttora in corso. Si affermava così la regola del Washington consensus e cominciavano le politiche di “aggiustamento strutturale”, cui la Troika di allora (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro USA) assoggettava prima l’America Latina e poi altre aree e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, attraverso l’imposizione di Programmi imperniati, appunto, su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, austerità, limitazione della spesa pubblica, obbligo di pareggio di bilancio. […]

A cavallo del cambio di secolo e in reazione a quelle dinamiche, e alle strategie sottostanti, prendeva corpo, forma e forza il grande movimento altermondialista (comunemente mistificato dai media mainstream sotto l’etichetta “no global”), nato nel 1998 e decollato l’anno successivo con le mobilitazioni contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO) a Seattle.

Si trattò di una prima battaglia vincente, che ha piegato sino a renderla irrilevante la potentissima organizzazione, sorta nel 1995 con l’obiettivo di abbattere ogni barriera tariffaria al commercio globale di merci e servizi. Un piccolo, micidiale, cuneo era stato ficcato negli ingranaggi della globalizzazione economico-finanziaria e della liberalizzazione commerciale, dunque nel potere e nei profitti delle grandi corporation. Un inceppamento, purtroppo solo temporaneo, di una strategia da tempo lucidamente tesa a un nuovo ordine globale, dopo che quello bipolare precedente – sorto dopo la Seconda guerra mondiale, definito negli Accordi di Yalta, stabilizzato dalla guerra fredda e dalla divisione del mondo in blocchi – era venuto meno, franando su sé stesso. Un ordine spesso tragico, ma anche in alcuni tratti caratterizzato da rivoluzioni emancipative di popoli schiacciati dal colonialismo e da sistemi economici disumani, nonché, nella seconda metà del secolo, pure in Occidente, da grandi conquiste sociali, da un forte progresso delle forze del lavoro e da un significativo avanzamento di istanze democratiche e di libertà civili.

La seconda potenza mondiale

Le vicende del luglio 2001 a Genova sono state la sanguinosa dimostrazione di come quel governo sovranazionale non possa tollerare interferenze e di come conservi memoria – lui sì – e timore dei processi di emancipazione, conquiste e progressi avvenuti nel secolo scorso. In quelle giornate genovesi si sono confrontate senza mediazioni due visioni del mondo. È in quel momento che le ragioni della forza iniziano a prevalere sulla forza della ragione: una “macelleria messicana” a esecuzione italiana e regia internazionale, una inequivocabile manifestazione dell’avvenuto – e costitutivo – divorzio tra democrazia e processi di globalizzazione, con gli orrori di Bolzaneto, le torture alla scuola Diaz e l’evidenza di apparati di polizia intrisi di cultura fascista e di omertà mafiosa, come hanno ben riscostruito una delle figure italiane più rappresentative di quel movimento e una delle vittime dei massacri (Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, L’eclisse della democrazia – Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, Feltrinelli, 2011).

Tuttavia, ancora due anni dopo quel composito movimento globale dimostra una vitalità e dimensione sorprendenti: il 15 febbraio 2003 in ogni angolo del pianeta, contemporaneamente, si manifesta “Contro la guerra, senza se e senza ma”. Centodieci milioni di persone, un evento unico da sempre. Il giorno successivo il “New York Times” definisce quel movimento «la seconda potenza mondiale». Quel movimento non esiste più, quanto meno nelle forme e forze di allora, pur se esistono encomiabili tentativi di tenerne in vita almeno intuizioni e tensioni con il World Social Forum, nell’agosto 2016 convocato a Vancouver.

Del “movimento dei movimenti” non si ricorda né l’origine, né la fine: nel quindicennale dell’uccisione di Carlo Giuliani solo una piccola e orgogliosa pattuglia di giovani ed ex giovani ha voluto ritrovarsi con i genitori di Carlo in quella piazza Alimonda, alcuni con ancora sul corpo le cicatrici di quei giorni di infamia istituzionale.

Se la seconda potenza mondiale si è frammentata, ammutolita e sin quasi dissolta, le sue ragioni sono più che mai attuali ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte, che magari negli Stati Uniti riescono a contaminare positivamente il programma di un candidato alle presidenziali come Bernie Sanders e in Spagna quello di Podemos, ma che in generale non sono riuscite a cambiare la politica e a influenzare le grandi scelte. Ciò non fa venire meno la rilevanza del fatto che hanno avuto ragione quelle associazioni, quei sindacati, quei pezzi di società che ammonivano sui rischi della finanziarizzazione dell’economia, sui pericoli connessi alla cessione di poteri e prerogative da parte dei governi e dei Parlamenti a favore di organismi privi di rappresentatività democratica come il FMI, la Banca Mondiale, la WTO. Che hanno contrastato prima la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio e poi l’intervento militare in Iraq. Che hanno denunciato gli interessi privati dei George Bush, dei Dick Cheney e dei Donald Rumsfeld, le scelte criminali e le complicità dei Tony Blair. […]

La destabilizzazione del mondo e gli interessi delle corporation

Nel frattempo, la guerra di Bush e Blair ha prodotto, solo in Iraq, oltre un quarto di milione di morti, destabilizzando a catena tutta l’area, sino alla guerra siriana, divenuta, oltre che un mattatoio e un deserto di rovine, la causa principale delle ondate migratorie; che, a loro volta, stanno contribuendo a destabilizzare la già fragile Unione dell’Europa.

Allo stesso modo e su un altro piano, solo apparentemente meno cruento e disastroso, gli avvenimenti mondiali, con la crisi scoppiata nel 2007, hanno dimostrato la fondatezza dell’analisi di quel movimento e, all’inverso, il fallimento di una globalizzazione basata sulla libertà assoluta delle corporation e della grande finanza. Così come gli studi scientifici registrano con evidenza crescente quanto fossero centrati e realistici gli allarmi sul degrado del pianeta, sui cambiamenti climatici e sui loro drammatici effetti, già presenti e futuri.

Insomma, quel movimento diceva e spiegava che i grandi mali che stanno deteriorando le condizioni di vita e compromettendo il futuro sono tutti intrecciati tra loro: disuguaglianze, guerre, migrazioni, olocausto ambientale, diritti umani. Verità confermate dai fatti nel quindicennio successivo, ma ancora negate e avversate. Prenderne atto, infatti, comporterebbe mettere radicalmente in discussione il sistema e l’attuale modello, in ogni sua articolazione.

Così come il trauma dell’11 settembre 2001 non ha portato a resipiscenze, ma anzi è stato strumentalizzato per destabilizzare il mondo e per annichilire quel movimento antisistema che voleva “cambiare il mondo senza prendere il potere”, così la crisi economica in corso dal 2007, invece di portare a un drastico ridimensionamento del potere della finanza speculativa che l’ha provocata, sta traducendosi in un’accelerazione dei processi tecnocratici, da un lato, e populistici, dall’altro, che stanno modificando in radice in senso autoritario e antidemocratico le istituzioni rappresentative, a partire dal quadro europeo. […]

Sotto l’urto dell’austerity, della crisi, delle guerre, dei flussi dei profughi, la risposta politica alla crisi – peraltro vistosamente strutturale –, mutatis mutandis, avviene a destra, per usare categorie del Novecento, forse troppo frettolosamente archiviate. Non un’uscita dalle catene della globalizzazione liberista nel segno dei diritti dei più deboli e della giustizia sociale, ma in quello dei recinti e del diritto del più forte, della xenofobia, del rancore dell’ex ceto medio impoverito.

Le forze politiche che più cavalcano i risentimenti verso l’Europa delle banche, ottenendo crescenti e preoccupanti consensi in diversi Paesi, a partire dalla Francia, non sono però l’alternativa a quel sistema, ne costituiscono piuttosto una variante e uno strumento. Un «violento declino della democrazia», che non riguarda solo l’Europa, come ha ricordato Noam Chomsky a proposito della campagna elettorale di Donald Trump, che ha fatto emergere negli USA «situazioni analoghe a quelle del Nord Europa con episodi di xenofobia, rabbia, paura: la popolazione bianca, che ha una forte tradizione di supremazia bianca, è attraversata però da un inquietante e nuovo fenomeno demografico: c’è un aumento del tasso di mortalità tra i maschi bianchi della classe lavoratrice (35-55 anni) e questo non era mai accaduto in un paese sviluppato e non in guerra» (Chomsky: «Vergognosa l’Europa su Siria e Turchia», intervista a cura di Virginia Tonfoni, “il manifesto”, 15 settembre 2016).

Ecco: la paura è una delle chiavi indispensabili per decifrare e comprendere come e perché i ceti e le persone colpite dalla crisi siano vittime di quello strabismo che si traduce nella più classica delle guerre tra poveri, o meglio tra gli ultimi e i penultimi della fila.

Crisi di sistema

La “lotta di classe dall’alto” in pochi decenni ha cambiato il mondo, non solo i rapporti di forza a favore dei ceti dominanti. Sotto alcuni aspetti quei cambiamenti non sembrano neppure reversibili. Vero è che la crisi è di sistema, lo scriviamo e documentiamo da tempo. Eppure non appare messo in discussione il mantra sulla crescita, anche se ormai essa si gioca su percentuali risibili, né la contradditoria religione dell’austerità, che ha prodotto e sta producendo guasti economici e devastazioni sociali. […]

Alcune di queste misure erano state richieste all’Italia dalla Commissione Europea nella famosa lettera del 2011, altre sono state indicate dalla potente JP Morgan. Ma prima di loro erano state immaginate e strutturate in un vero e proprio programma di governo (il Piano di rinascita democratica) dalla massoneria di Licio Gelli. Che citiamo non per agitare vecchi e consunti spauracchi, ma per evidenziare quanto la strategia di restaurazione globale di un nuovo ordine autoritario e delle ragioni primarie e assolute del profitto di impresa, dopo le conquiste democratiche, sociali e sindacali degli anni Sessanta e Settanta, fosse in campo da tempo, quanto meno dagli anni Ottanta del secolo scorso. […]

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La rivincita del capitale

Il neoliberismo che sta governando la globalizzazione è nient’altro che una reazione e una rivincita riguardo alle conquiste dei lavoratori progressivamente avvenute dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta nei Paesi a maggiore industrializzazione, ovvero nei punti alti dello sviluppo capitalistico. Fatto sta che, in meno di vent’anni, dal 1990 al 2009 la quota salari sul PIL italiano è diminuita di 7 punti, dal 62 al 55%, equivalenti a quasi 110 miliardi, trasferiti ai profitti e alle rendite. Minori, ma sempre significative, le percentuali negli altri Paesi europei nel medesimo periodo: 5% in Germania, 4% nel Regno Unito, meno del 3% in Francia; Italia e Germania sono, in effetti, i Paesi a più alta diffusione del precariato, condizione che sempre si associa al basso salario. […]

La redistribuzione della ricchezza e del reddito dal basso verso l’alto viene definita da Luciano Gallino «il più drammatico mutamento sociale degli ultimi trent’anni»: «La caduta della quota salari in quasi tutti i Paesi OCSE è stata soltanto un aspetto di tale redistribuzione alla rovescia, che facendo crescere a dismisura le diseguaglianze ha contribuito non poco a preparare la crisi esplosa nel 2007» (Come – e perché – uscire dall’euro, ma non dall’Unione Europea, Laterza, 2016). […]

Nonostante aumenti di produttività, diminuzione di salari e rarefazione dei conflitti, insomma, il capitale preferisce spostarsi nei Paesi in via di sviluppo e nell’Est europeo, divenendo al tempo stesso sempre più concentrato, quanto a potere, e sempre più disseminato geograficamente, capace così di colonizzare nuovi mercati e di imporre i propri modelli. Ciò anche grazie al land grabbing, vale a dire l’accaparramento di terre che sottrae quote crescenti di territorio agli interessi dei singoli Paesi a favore dei progetti multinazionali, con, in molti casi, sensibili rischi per la sicurezza alimentare. Ad esempio, dal 2000 al luglio 2016 le terre accaparrate in Sudafrica sono arrivate a 302.000 ettari, a fronte dei 3.998.410 utilizzati per la produzione di cereali; in Argentina 2.418.000 ettari accaparrati rispetto ai 12.185.670 coltivati; in Brasile 4.213.000 su 21.850.734 coltivati (http://landmatrix.org).

Il mondo è in vendita, e gli acquirenti sono voraci e insaziabili. […]

La polveriera instabile di Borse e Banche

[…] Il volume dei prodotti finanziari altamente speculativi come i derivati assomma a 550.000 miliardi di dollari; aggiungendo circa 80.000 miliardi di obbligazioni e 60.000 miliardi di capitalizzazione delle Borse mondiali si arriva all’incredibile cifra di 700.000 miliardi, o 700 trilioni che dir si voglia, ovvero quasi dieci volte l’intero prodotto interno lordo globale (Federico Rampini, Banche: possiamo ancora fidarci?, Mondadori, 2016).

Questa massa enorme è il prodotto del processo di finanziarizzazione dell’economia cresciuto in questi decenni senza alcun contrasto dei poteri pubblici e costituisce una polveriera a costante rischio di esplosione. Come bene ha spiegato Luciano Gallino (e prima di lui Karl Marx), secondo cui la finanziarizzazione, in sostanza, è «un gigantesco progetto per generare denaro mediante denaro […], ma si tratta di “denaro fittizio”, in quanto non è appoggiato ad alcun bene reale. Il che significa che così come è stato creato velocemente senza avere nulla alle spalle, altrettanto velocemente può sparire (Con
i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, 2009). […]

Del resto, se molte multinazionali e banche hanno bilanci superiori ai PIL degli Stati, non è difficile capire chi comanda davvero nel mondo. Il colosso USA dei supermercati Walmart impiega 2,2 milioni di persone e realizza un fatturato di oltre 485 miliardi di dollari, come l’intero PIL dell’Argentina. Il bilancio della banca BNP-Paribas, quasi 2.000 miliardi di euro, equivale al PIL del Paese in cui ha sede, la Francia, la sesta più grande economia; eppure BNP è “solo” l’ottava banca a livello mondiale. La capitalizzazione di giganti come Google e Apple supera il PIL della Svezia, Polonia o Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, con 180 milioni di abitanti.

Gigantismo, deregolamentazione, concentrazione sono le caratteristiche di questo vero e proprio governo mondiale. […] Se nelle fasi precedenti l’obiettivo della globalizzazione neoliberista era quello di trasformare il lavoro in una merce come le altre, ora è quello di approfondire e generalizzare l’arrembaggio ai beni comuni. I trattati di libero scambio TTIP e CETA […] sono, al riguardo, una delle chiavi di volta, così come lo sono state e sono tuttora le privatizzazioni. […]

Il pensiero debole delle sinistre di governo

Dietro alla conversione di gran parte delle sinistre europee di governo al neoliberismo, alla loro omologazione ideale e culturale, alla quasi scomparsa di opposizioni politiche che non siano quelle delle destre estreme e xenofobe, al lievitare incontrastato dei populismi nazionalistici, insomma, vi è anzitutto un profondo e decennale deficit di progettualità e di pensiero alternativo al catastrofico modello che ha avuto campo libero in oltre trent’anni.

Unica eccezione: la “seconda potenza mondiale” di cui dicevamo prima. Seconda, e di breve durata, di andamenti carsici e di pratiche politiche inefficaci. Che tuttavia ha lasciato semi potenzialmente fruttiferi, a volerli adeguatamente coltivare. Basti guardare al pensiero e alle proposte ecologiste, che hanno infine convinto e contagiato un’altra potenza mondiale, poiché tradotte e rilanciate autorevolmente lo scorso anno nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco (leggi anche Il Cantico che non c’era di Paolo Cacciari ndr). O, nel campo della politica, si guardi al testimone di Occupy Wall Street raccolto da un candidato alla presidenza degli Stati Uniti non certo di secondo piano come Bernie Sanders […]

Costituzioni e sindacati, ultimi baluardi della democrazia

[…] Per quanto sia stretta la porta, questo è il punto: senza costruzione di un pensiero di alternativa, economica e politica, senza una capacità di egemonia culturale sulla società, o almeno su sue importanti parti, non vi è possibilità trasformativa in grado di sottrarre il mondo dal disastro attuale e dall’ancor maggiore catastrofe incombente. Una catastrofe – non spaventi la parola, semmai occorre preoccuparsi della realtà cui questa descrizione rimanda – ecologica e umanitaria, prima di tutto. […]

Davide contro Golia. Le resistenze crescono

«Nella foresta scoppia un incendio, tutti gli animali fuggono, solo un colibrì vola fino al fiume, si riempie d’acqua il minuscolo becco e riparte velocemente per versarne il contenuto sulle fiamme. E continua così, andando avanti e indietro per tutto il giorno, fino a quando un ippopotamo gli fa notare che quelle poche gocce su un incendio così grande sono ridicole; lui risponde: forse, ma faccio la mia parte. La parte del colibrì, per i miei amici di Calais,
consisteva, quando i migranti occupavano ancora gli edifici abbandonati nel centro della città, nel portargli cibo, coperte, vestiti, nel discutere con loro, e ora che li hanno evacuati e trasferiti nella Giungla, nel fare più o meno la stessa cosa, ma un po’ meno spesso. Si sentono in colpa, si chiedono angosciati quanto coraggio avrebbero dimostrato sotto l’Occupazione [nazista, ndr], gli piacerebbe impegnarsi di più – proprio come piacerebbe a me, che nel quartiere in cui vivo, a Parigi, avrei a disposizione tutti gli afgani e i curdi
del mondo, se solo volessi essere un colibrì più energico» (Emmanuel Carrère,
A Calais, Adelphi, 2016).

Con parole diverse, Noam Chomsky sembra esprimere lo stesso concetto quando, guardando al quadro mondiale, ferito dalle guerre neocoloniali, dallo strapotere delle multinazionali e dal terrore globale, il cui più grande artefice, secondo il linguista e filosofo statunitense, è peraltro proprio l’Occidente, scrive:

«Ci sono in gioco due tendenze simultanee. Dall’esterno sembrerebbe che la traiettoria principale porti dritto al suicidio, come se corressimo a precipizio verso il baratro. D’altra parte, però, è in atto una resistenza che cresce ogni giorno di più, e che finora ha portato a qualche risultato. Negli ultimi trenta o quarant’anni sono stati fatti diversi passi avanti, alcuni di una certa rilevanza. Il punto è: quale di queste due alternative avrà la meglio? Volendo essere realistici, non è che vi sia troppo spazio per la speranza, ma abbiamo solo due scelte. Possiamo dire: “Non c’è speranza, mi arrendo”. E a quel punto saremo certi che il peggio arriverà. Oppure possiamo dire: “Va bene, voglio fare qualcosa per migliorare le cose, quindi ci provo”. Se funziona bene, altrimenti possiamo sempre tornare alla scelta peggiore. È l’unica alternativa che abbiamo» (Noam Chomsky con Andre Vltchek, Terrorismo occidentale, Ponte alle Grazie, 2015).

Un’esemplificazione della fondatezza di quest’affermazione l’abbiamo sotto gli occhi, da anni nella Valle di Susa e, più di recente, a Calais appunto, a Ventimiglia o a Como dove singoli cittadini e piccoli gruppi organizzati (dai centri sociali alle associazioni cattoliche) si sono attivati per portare solidarietà concreta ai migranti bloccati da polizie e frontiere, a fronte dello scaricabarile istituzionale, delle aggressive campagne mediatiche e del soffio mefitico dei razzismi in doppiopetto o coi manganelli.

In quei luoghi, e in altri simili, diffusi e invisibili, si sono confrontate due visioni, e due pratiche, del mondo. La lunga lotta della Valle di Susa ha visto, proprio come a Genova nel 2001, mischiarsi sino a diventare un indistinto corpo unico, anziani e ragazzacci dei centri sociali, anarchici e ferventi credenti, insegnanti e operai, agricoltori e creativi, sindaci e autonomi. Un popolo. Un mondo. Un mondo possibile, con i suoi stili di vita, la sua socialità, le sue differenze, ma soprattutto la sua alterità rispetto ai valori dominanti, a partire da quelli che hanno cercato di
colonizzare e depredare il loro territorio e la loro vita, finendo per essere manifestamente nient’altro che un’occupazione militare, con il corollario di violenze poliziesche, arresti e denunce, sino al ridicolo (se non fosse lesivo della libertà e della dignità delle persone) di ultrasettantenni sottoposti a misure di prevenzione e ad arresti domiciliari. Una sequela impressionante di interventi giudiziari, «una strategia diretta a reprimere in modo indifferenziato il dissenso», ha scritto l’ex magistrato Livio Pepino in polemica con la Procura di Torino, ricordando che gli indagati per reati connessi con l’opposizione al
TAV, anche di rilevanza minima, sono stati negli ultimi anni ben più di 1000, erano 987 già a fine dicembre 2013 (Livio Pepino, No TAV, la Procura dialoga? Partiamo da qualche domanda, “il manifesto”, 15 luglio 2016). […]

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Ambiente, lavoro e diritti umani

[…] Le resistenze, nell’epoca della globalizzazione neoliberista, sono spesso un reato e sempre una realtà da rimuovere e da nascondere all’informazione e alla consapevolezza pubblica. Uno dei tanti esempi possibili lo racconta Naomi Klein:

«Gli abitanti delle isole Marshall, Fiji e Tuvalu sanno che il livello dei mari salirà tanto che probabilmente i loro paesi non avranno futuro. Ma si rifiutano di pensare al ricollocamento, e non lo farebbero neanche se ci fossero paesi più sicuri pronti ad aprire le frontiere. Questa è un’eventualità tutta da verificare, perché attualmente i profughi climatici non sono riconosciuti dal diritto internazionale. Preferiscono resistere attivamente: bloccando con le canoe le navi australiane del carbone o disturbando le conferenze internazionali sul clima con la loro scomoda presenza per chiedere interventi più decisi» (Naomi Klein, Let them Drown – The Violence of Othering in a Warming World, “London Review of Books”, 2 giugno 2016).

Questo è solo uno dei tanti conflitti ambientali in corso nel mondo. L’Atlante Globale della Giustizia Ambientale (http://ejatlas.org) ne è riuscito a censire già 1.846 […]

L’insurrezione delle coscienze

La leggenda del colibrì di cui scrive Emmanuel Carrère risale ai nativi americani (nella versione originale l’interlocutore del piccolo uccello è però un armadillo) ed è stata ripresa, raccontata e posta a base della sua intensa opera da Pierre Rabhi, filosofo, pioniere dell’agricoltura ecologica in Francia e molto attivo anche in Africa attorno ai temi della nutrizione e della giustizia alimentare. Iniziatore di tante esperienze e aggregazioni associative con al centro l’ecologia e l’umanesimo, nel 2007 ha fondato il Movimento Colibrì con l’obiettivo di «ispirare, collegare e sostenere i cittadini che scelgono uno stile di vita diverso», a partire da una «insurrezione delle coscienze».

Di fronte alle complessità sistemiche della globalizzazione potrebbe apparire ingenuo, eppure la coscienza, intesa come intima consapevolezza, è ciò che dirime e orienta i comportamenti individuali, ma anche concorre a comporre l’universo culturale e valoriale all’interno del quale questi si estrinsecano. È il “grado zero” da cui parte ogni azione umana. Propedeutico alla loro insurrezione è, però e perciò, il loro risveglio. E questo rimanda all’egemonia culturale oggi esercitata dai cantori dell’individualismo, dell’egoismo pro-
prietario e del neoliberismo, alla concentrazione e monopolio dell’informazione che caratterizza questa fase storica e che manipola appunto le coscienze, quanto meno quelle che non hanno una sufficiente capacità critica nel conoscere e interpretare la realtà che ci circonda. […]

La guerra è pace, la menzogna è verità

Come per perseguire la strategia criminale della “guerra permanente” la governance globale (una sorta di rinnovato complesso militare-industriale e politico, ovvero quel blocco di poteri e di interessi circa i cui pericoli ammoniva il presidente USA Dwight Eisenhower nel suo discorso di fine mandato nel gennaio 1961) si è inventata il giornalismo embedded, ovvero la scomparsa della realtà a favore della sua angolata rappresentazione, così nel progetto di rendere eterno e omnipervasivo l’attuale sistema di potere, caratterizzato dal capitalismo finanziario e dal neoliberismo, si intende subordinare a esso ogni sede, istanza, istituto che produca informazione, saperi e culture. […] Tanto che, per tornare al titolo e al contenuto del citato testo di Chomsky, per terrorismo oggi intendiamo unicamente quello che, anche nei mesi scorsi, ha insanguinato di preferenza città francesi o, 15 anni fa, quella di New York. Eppure, secondo dati pubblicati dal “Washington Post”, nell’intero 2015 le vittime di attacchi terroristici in Europa e nelle Americhe sono stati 456. Nel 2016, da inizio gennaio al 20 luglio, sono state 206. I morti per terrorismo nel resto del mondo, invece, sono stati rispettivamente 18.684 e 9.347. Con l’evidenza, e in questo caso la sproporzione, dei numeri si può dunque dire che il terrorismo non sia un problema che affligge principalmente l’Occidente, mentre è affermabile che esso sia semmai un risultato delle sue politiche e strategie.

I quasi 30 mila morti non occidentali in attacchi terroristici in un solo anno e mezzo non provocano emozione, né tanto meno indignazione, perché sono tolti dalla scena […]

Le parole e i fatti

La verità dei fatti non viene occultata solo attraverso la falsificazione costante e massiccia della realtà e mediante la sottrazione della capacità di lettura critica dei cittadini. Vi è un’altra modalità, che sottrae ogni valore e potere alle parole: quella di renderle innocue, vuote, retoriche, inconseguenti. Ne ha dato un autorevole e rinnovato esempio Barack Obama, nel suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 settembre 2016. Nell’occasione, ha rimarcato che «un mondo in cui l’1% dell’umanità controlla una ricchezza pari al 99% non è uguaglianza», guardandosi bene dal provare a indicare le cause di questo squilibrio […]

I media, le guerre e lo spettacolo del terrorismo

[…] Le guerre in corso, e in particolare quella siriana, sono la causa principale degli attuali flussi migratori. Secondo i dati dell’UNHCR, nel 2015 vi erano 4,9 milioni di rifugiati siriani oltre a 6,6 milioni di sfollati interni. Per aiutare davvero i profughi, e rendere più sicuro il mondo, l’unica strada è quella di perseguire e imporre la pace, sempre e comunque. Vale a dire, la strategia opposta di quella sin qui praticata. […]

La strage degli innocenti

[…] I rifugiati non possono commuovere, sono troppi e non ci guardano solo dalle pagine dei giornali ma spesso da vicino, da troppo vicino. Né tanto meno possono modificare leggi e norme, nazionali ed europee, in nome non della solidarietà ma della giustizia: chi rompe – in questo caso gli equilibri geopolitici – e specula sulle guerre dovrebbe almeno occuparsi dei cocci. Invece, l’Unione Europea preferisce pagare miliardi a quel campione della democrazia e dei diritti umani che si chiama Recep Erdoğan affinché trattenga in Turchia quel fiume di umanità lacera e dolente. […]

Le non-persone e il razzismo contemporaneo

Nello stesso giorno in cui i media mondiali producevano commozione con il fotogramma del piccolo Omran, mutilato della presenza della sorella, Amnesty diffondeva un Rapporto sulle carceri in Siria It breaks the human». Torture, disease and death in Syria’s prisons). Secondo l’organizzazione umanitaria nelle prigioni di Stato sarebbero morti 17.723 detenuti da marzo 2011 a dicembre 2015, vale a dire una media di 10 decessi al giorno causati da torture, fame, assenza di cure mediche. Un dato così enorme da sembrare sovrastimato, non fosse per l’autorevolezza della fonte. Eppure non ha provocato alcuna indignazione, non ha riempito le prime pagine dei giornali mondiali. […]

Lo scontro tra barbarie

Il terrorismo è funzionale al potere, che lo usa e talvolta promuove. […] Solo pochi anni fa la costruzione simbolica del nemico e del discorso securitario e populista – alimentato da destra, ma non di rado anche da sinistra – faceva leva sull’equazione immigrato = clandestino; oggi trova un perno più efficace in quella migrante = terrorista. In entrambi i casi, però, alla base vi è quel razzismo che identifica l’altro, in questo caso il musulmano, come feroce e alieno. Una concezione del diverso da sé e del mondo alla base del colonialismo ieri, e del neocolonialismo oggi. […] Ricorda però Alain Badiou, commentando gli attacchi terroristici a Parigi, che se il massacro del 13 novembre è stata «un’azione cruenta, ma vile», «una forma criminale suicida, che porta al culmine l’istinto di morte», «un atto fascista atroce e criminale», non di meno occorre ricordare che «i massacri occidentali sono oggi permanenti e straordinariamente cruenti». Massacri ancor più vili giacché sempre più operati senza rischio, a distanza: «L’assassinio con i droni è più comodo, perché non c’è neanche bisogno di uscire dal proprio studio. Né Obama né Hollande si privano di questi mezzi». […]

Eppure, se ogni colibrì facesse la sua piccola parte e anche diventasse più energico, se le coscienze insorgessero una dopo l’altra e si collegassero tra loro, la sfida del cambiamento sembrerebbe possibile e necessaria.

(*) Sergio Segio è il coordinatore del «Rapporto sui Diritti globali», che viene pubblicato ogni anno da Ediesse. Io ho ripreso questo testo, con le foto, da «Comune Info». (db)

 

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